Associazione Alessandro Scarlatti
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Concerto 8 febbraio

YING  LI, pianoforte


Francois Couperin – Soeur Monique, Le Tic-Toc-Choc ou Les Maillotins

Maurice Ravel – Le Tombeau de Couperin

Sergej Prokof’ev – Selezione di brani da Romeo e Giulietta

Franz Liszt – Ballata n. 2 in si minore

Bela Bartók – Sonata per pianoforte


Concerto in collaborazione con il Premio Antonio Mormone de La Società dei Concerti di Milano

 

Note di Sala 

di *Gianluca D’ Agostino

 

François Couperin – Soeur Monique; Le Tic-Toc-Choc ou les Maillotins

Soeur Monique e Le Tic-Toc-Choc ou les Maillotins sono due preziosi rondeaux inclusi nel 18° Ordre del Troisième Livre de Pièces de Clavecin di François Couperin (1668-1733), pubblicato nel 1722, quando l’autore aveva ampiamente superato la cinquantina. Egli compose in tutto quattro Libri di “Pezzi per Clavicembalo” (1713-1730), che sono reputati capolavori assoluti della musica barocca francese per tastiera, e nei quali sono riuniti oltre 200 brani suddivisi in 27 ordres, termine che egli utilizzò per sostituire la parola suite, comunemente usata dai suoi contemporanei. Il Troisième Livre comprende 17 Ordres e in essi sono presenti solo due danze della tradizionale suite: una Allemande e una Courante, il resto sono pezzi originali di diversa ispirazione. Couperin amò molto il clavicembalo e ad esso si consacrò con dedizione infinita. I suoi rondeaux sono caratterizzati da un andamento assai brioso ed adottano simboli metrici che impongono un ritmo “sans lenteur” come in Soeur Monique, o “Légèrement et marqué”, come in Le Tic-Toc-Choc. In questi due pezzi, come in molta altra musica del nostro, abbondano gli abbellimenti, i quali vengono concepiti come procedimenti espressivi e non come espedienti virtuosistici che servano a coprire la breve durata del suono pizzicato dello strumento. Essi vanno eseguiti con gusto per diventare un tutt’uno con la melodia e fondersi in essa. Così nella sua Prefazione al Terzo Libr l’Autore raccomandava di eseguire alla lettera questi pezzi: “senza aumentazioni o diminuzioni”. La melodia di Soeur Monique era ben nota anche prima che la collezione di Pièces de Clavecin, in cui è contenuta, apparisse a stampa. Essa infatti è stata riconosciuta in vari manoscritti e in innumerevoli versioni.  Non sapremo mai se il ritratto di Soeur Monique incarni un personaggio reale o se, come succede quasi sempre in Couperin, sia il ricordo idealizzato di qualcuno; oltretutto la parola “soeur” aveva due significati ai tempi del compositore: uno si riferiva alla suora, l’altro a una ragazza dalla morale discutibile. Le Tic-Toc Choc ou les Maillotins è un brano-giocattolo che sfrutta le possibilità offerte dalle due tastiere e che si pone come una specie di moto perpetuo, in cui l’elemento melodico cede completamente il passo a quello ritmico-dinamico, come un ossessivo rondeau. In origine fu definito da Couperin “pièce-croisée”, per via dei continui incroci tra le mani, era infatti destinato esclusivamente a un clavicembalo a due tastiere sovrapposte. Le pièces-croisées, infatti, affascinano proprio per il gioco sonoro, per il loro carattere brillante, al limite del virtuosismo. Ovviamente con la tastiera unica del pianoforte diventa difficile l’esecuzione, perché si deve sottostare al meccanismo artificioso delle due mani che si misurano nel breve spazio delle stesse ottave. La prima parte del titolo (le tic-toc) è un’onomatopea che allude all’orologio, ad un movimento ripetuto, un impulso che batte costantemente; la seconda parte invece interroga i musicologi. I Maillotins, secondo Rosalyn Tureck, sarebbero quei rivoluzionari che nel 1382 protestarono, armati di mazze, contro la re-imposizione di tasse dopo la morte del re Carlo V. Altri musicologi sarebbero tentati di tradurre con “martelletti”: in effetti il ticchettio frenetico si adatta anche ai martelletti della tastiera; e altri studi più recenti hanno messo in luce che i Maillotins erano una famosa famiglia di “danseurs de corde”, ballerini sulla corda.

Maurice Ravel, Tombeau de Couperin

Il “Tombeau” musicale è un genere fiorito in Francia tra Sei e Settecento, in onore o alla memoria di un grande personaggio e, più spesso, di un collega musicista o di un maestro influente, diciamo pure di un caposcuola, riconosciuto come tale dai suoi allievi e imitatori. Sappiamo che nel Barocco il sentimento di colleganza artistica tra musicisti era fortemente sentito ad ogni latitudine (così come, per rovescio della medaglia, la loro tenace rivalità) e questo appare particolarmente vero per i francesi e per la generazione che si sviluppò intorno ai Couperin, che poi sono da considerare un po’ come i “Bach d’oltralpe”. Come sovente accade, la retorica musicale segue da presso quella letteraria e in effetti possiamo chiamarlo l’equivalente sonoro del “Tombeau poétique”. Un altro termine con cui lo si designava è “Apothéose”, né il genere difetta di precedenti storici, come la “Déploration”, o il “Lamento” italiano, ma con due notevoli differenze rispetto ad essi: la prima è che il “Tombeau” non necessariamente contiene accenti decisamente patetici o tragici, così come pure sarebbe lecito attendersi da una ricorrenza luttuosa; la seconda, d’altronde, è che non è detto che venisse composto proprio dopo la morte del personaggio in questione, ma poteva apparire anche quando egli era ancora in vita. Traduciamolo, dunque, come “omaggio” alla grandezza di qualcuno, che ci abbia tramandato un patrimonio culturale o artistico prezioso. Le caratteristiche formali più generiche del Tombeau sono nel consistere in uno o più movimenti di danza, preferibilmente quelle dall’incedere solenne, come la Pavane; e tutti ricorderanno che Maurice Ravel (1875-1937) aveva composto a fine Ottocento la propria elegiaca Pavane pour une infante défunte, quando era ancora studente di Gabriel Fauré. Tuttavia il Tombeau de Couperin, sottotitolato “6 pièces de piano deux mains”, pur partendo da tutte queste premesse, le sopravanza di molto, innanzitutto per la data della sua composizione. Ci troviamo in pieno conflitto bellico, infatti il maestro ci lavorò per ben tre anni cruciali, dal 1914 al 1917, quando anche lui, come ogni buon francese (e come anche Debussy), faceva la sua parte in aiuto della Patria (a 39 anni, Ravel fu arruolato in artiglieria come autista di camion e ambulanze). Alla dedica principale, al “grand-père” Couperin, maestro del passato e maestro “dei francesi” (stavolta è da intendersi anche un sottinteso anti-germanico), seguono dediche specifiche di ognuno dei sei brani di cui la suite si compone (Prélude, Fugue, Forlane, Rigaudon, Menuet, Toccata) ad amici del compositore caduti in guerra. Non a caso il frontespizio della partitura del 1918 fu illustrato dallo stesso Ravel con un’urna cineraria. Ma non c’è, come anticipavamo, alcunché di mortifero e tantomeno di triste in queste pagine, le quali invece compongono esattamente, in definitiva, quello che Ravel voleva ottenere, ossia un levigato capolavoro di purezza classica (ma diciamo pure “neoclassica”), dettagliatamente rifinito e cesellato, trionfo di chiarezza direi apollinea, fuori dal tempo ed oltre il tempo. Basterebbe a dimostrarlo anche solo il Prélude, con quella sua sfrenata (ma sempre, compostamente sfrenata) “galoppata” di semicrome ondeggianti e armonicamente divaganti, e ancor più con l’abbellimento della doppia acciaccatura che poi, proprio come in Couperin, perde il suo carattere esornativo e diventa consustanziale alla traccia tematica. Ma pure il seguito riserva sorprese e delizie sempre nuove: c’è l’ingegnosa Fuga, a tre voci, che naturalmente ha nell’elaborazione contrappuntistica la sua ragione d’essere e che tuttavia riesce a mantenersi tersa e trasparente, senza mai perdere in levità; c’è la Forlane, con il ritmo puntato e i suoi controtempi così fortemente icastici e facili a imprimersi nella memoria, che risulta particolarmente dilettevole ad un punto preciso, quando la figurazione principale del tema si presenta come invertita, diventando, da ascendente, discendente, mentre l’accompagnamento assume movenze da autentico ballabile; c’è il Rigaudon, più sonoro ed aspro ritmicamente, e il Menuet, dove torna a farla da padrone la suprema eleganza, e infine la Toccata, in cui il virtuosismo pianistico, e stavolta non più clavicembalistico, si riprende prepotentemente la scena, con il suo ritmo percussivo, le note ribattute, le terze alternate, ecc.  La prima esecuzione del Tombeau avvenne a Parigi nel 1919: al pianoforte sedeva Marguerite Long, vedova del dedicatario dell’ultimo brano. Nel frattempo Ravel aveva anche trascritto per orchestra, com’era sua abitudine, quattro movimenti dell’opera, modificandone l’ordine (Prélude, Forlane, Menuet, Rigaudon); e ciò fece da par suo: aggiungendo incanto ad incanto.

Sergej Prokofiev, Selezione di brani da Romeo e Giulietta

Anche qui abbiamo l’ambivalenza di scelta tra la versione per orchestra e quella pianistica. Sicuramente è un’opera che, nella sua realizzazione orchestrale, risulta potentissima, scultorea e plastica, ma anche scintillante e mordace, suadente e liricissima, e che indubbiamente va considerata tra i grandi capolavori sinfonici del periodo “entre-deux-guerres”, quella che Prokofiev concepì come balletto, ispirato all’immortale dramma scespiriano, tra 1935 e 1936. Segno della sua immediata popolarità, il lavoro conobbe almeno tre elaborazioni in forma di Suite, di sette brani ciascuna, ed una “riduzione” per pianoforte in dieci pezzi (op. 75), del 1937, che dovrebbe essere quella eseguita stasera, con i titoli dei brani sopra riportati. Si tratta di piccoli gioielli pianistici, diversissimi ed anzi contrastanti l’uno con l’altro, e comunque tutti di grande impatto sul pubblico, soprattutto se eseguiti con la dovuta attenzione alle sfumature timbrico-armoniche, e senza strafare con l’agogica o le dinamiche. In molti momenti la versione pianistica non perde neanche troppo terreno, sul piano dell’espressività, rispetto alle celebratissime versioni orchestrali. Il primo brano è una danza rustica molto vivace e non priva di humour, e la successiva “Scena” è un allegretto che prosegue nella stessa scia beffarda, mentre il Minuetto gioca sul contrasto tra la forma classica e l’armonia modernissima e politonale. Le scalette velocissime e folleggianti della “giovane Giulietta”, che altro non è che uno scanzonato “galop”, s’imprimono da subito e per sempre nella memoria dell’ascoltatore, ma a noi affascina pure il meccanismo dell’ ‘Andante marziale” insito nella successiva Mascherata, dove sentiamo il più autentico Prokofiev, con i suoi ritmi squadrati e meccanici, le poderose scale “spiananti” l’intera gamma, le acciaccature graffianti ed ironiche; fermo restando che il “non plus ultra” dell’opera, rimane sempre il celeberrimo “Montecchi e Capuleti”: il suo tema ritmico, pieno di carica primitiva, barbarica e come allusiva alle forze più interne e telluriche dell’intimo umano (e degli uomini divisi in fazioni).

Franz Liszt – Ballata n° 2 in si minore

Piaccia tanto o anche un po’ meno come compositore, Franz Liszt (1811-1886) è senza dubbio il massimo rappresentante del pianismo ottocentesco, l’inventore del concetto stesso di concerto solistico per pianoforte, e la vera “fons et origo” della cosiddetta “tecnica trascendentale” per lo strumento. Inutile citare, perché a tutti ben note, le tante testimonianze coeve sulla sua arte esecutiva impareggiabile, sull’ammirazione sconfinata che destavano i suoi concerti, sul fatto che egli riuscisse a superare con disinvoltura qualsiasi difficoltà tecnica, oltre che ad impadronirsi, attraverso le sue celebri parafrasi, della “voce” di ogni altro compositore, a lui vicino o lontano, per non parlare della vastità e profondità dei suoi interessi culturali, anche extra-musicali (e questo lo avvicina a Schumann). Ciò brevemente ricordato, non si può dire che le due Ballate che compose, attorno alla metà del secolo, ossia nel periodo di più intensa attività come concertista, siano tra i suoi capolavori, ed anzi si tende a considerarle qualitativamente inferiori, rispetto a quelle di Chopin e di Brahms. La Seconda Ballata, comunque, è stabilmente inserita nel repertorio dei grandi interpreti. L’incipit è tenebroso e molto “lisztiano”, con il tema principale lugubremente accompagnato da un agitato movimento cromatico della mano sinistra, nella regione gravissima. Una lenta e quasi religiosa progressione ascendente conduce al successivo tema in fa maggiore (alternato a minore), decisamente pastorale, che rischiara all’improvviso l’atmosfera, ripetendosi subito dopo tutta la sequenza. Nella dialettica tra queste due sezioni c’è un po’ la quintessenza del brano. Segue una transizione molto ritmica e di fanfara, che conduce ad una lunga serie nuovamente cromatica, ma per ottave, prima alla mano destra poi alla sinistra, di grande effetto spettacolare. Poi riaffiora, subito dopo, il primo tema, che nel frattempo ha acquisito maggiore consistenza e drammaticità, e c’è spazio per un breve cantabile trasognato, su teneri arpeggi di accompagnamento, sul quale a sua volta s’innesta di nuovo il tema “pastorale”: il tutto qui può ricordare i trascinanti momenti della ben più celebre Sonata in si minore (si noti, nella medesima tonalità). Riappare poi ancora una volta il “mare agitato” dell’inizio, e di qui una serie di reiterazioni di quanto già udito, ora con maggiore enfasi sull’elemento virtuosistico, ora su quello lirico e sentimentale.

Béla Bartók, Sonata per pianoforte, Sz. 80

Bartok compose la sua “Szonata” – come laconicamente viene chiamata nel frontespizio originale – sempre nel lungo “periodo di mezzo”, ma molto prima di quanto detto circa Prokofiev, cioè nel 1926, in un tempo in cui era invalso uno sperimentalismo decisamente maggiore. E’ lo stesso anno del più celebre Concerto n° 1 per pianoforte ed è anche il momento in cui questo grandissimo e ancora non del tutto compreso maestro del Novecento, dopo aver completamente digerito la lezione dodecafonica, guardava oltre e sempre in una direzione arditamente sperimentalistica (il suo “neoclassicismo” è da intendersi in un’accezione molto particolare). Il primo movimento ha un incipit impetuoso, molto marziale e dal sapore innegabilmente stravinskiano, con uno svolgimento che, soprattutto nei caratteristici ritmi puntati, nei controtempi e nei frequentissimi cambi di armatura metrica, ancora ricordano l’autore del Sacre. Particolarmente avvincente è, d’altra parte, l’accelerazione agogica impressa alla conclusione.Anche l’inizio del secondo tempo ha un suo marchio distintivo, ed è quel reiterato accordo “pentatonico” Lab-Mib-Fa, che risuona a lungo come una rassicurante “ancora di salvezza” (la salvezza che certamente per uno come Bartok era rappresentata dall’anima pura del suo popolo). Subito però quella nota Mi, salendo all’acuto, diventa naturale e inizia a risuonare come una campana a distesa; da qui in avanti la trama del pezzo si complica in tutti i sensi (anche contrappuntisticamente) e le dinamiche e le figurazioni si susseguono sempre più variegate. Subentra un senso di progressiva irrequietezza, sottolineata da grappoli violenti di accordi, per giunta fortemente cesurati. L’Allegro molto finale è, paradossalmente, il tempo più virtuosistico e quello di più facile ascolto; “facile” sempre per modo di dire, beninteso: è patente qui una forte ricerca sulla metrica e sul ritmo (spiccano, ad esempio quei tempi improvvisi in 6/8, probabilmente memori dell’Ars nova medievale, o della musica folklorica), e sull’invenzione stessa di figurazioni pianistiche e diteggiature affatto nuove e inusuali.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

 

 

 

Concerto 18 gennaio

TRIO JEAN PAUL

Ulf Schneider, violino

Martin Löhr, violoncello

Eckart Heiligers, pianoforte


Integrale Trii di Brahms, Mendelssohn e Schumann (II concerto)

Johannes Brahms – Trio in si maggiore op. 8 (originale versione 1854)

Robert Schumann – Trio in re minore op. 63

 

Note di sala 

di *Pier Paolo De Martino

Johannes Brahms – Trio in Si maggiore op. 8 (versione del 1854)

Estate 1853. Johannes Brahms, vent’anni appena compiuti, durante il viaggio “di formazione” che da Amburgo lo sta portando in giro per la Germania, conosce ad Hannover Joseph Joachim con cui stringe subito amicizia: gli viene così l’idea di scrivere un Trio per pianoforte, violino e violoncello. Ha con sé il manoscritto, ancora allo stato di abbozzo, quando, arrivato Düsseldorf a fine settembre avviene l’incontro che sarà decisivo per la sua vita, quello con Clara e Robert Schumann. Accolto nella loro casa come un «genio eletto», Brahms viene lanciato nel mondo musicale tedesco da Robert con l’articolo Nuove vie, uscito sulla «Neue Zeitschrift fur Musik», e con una lettera di segnalazione agli editori Breitkopf e Senff.  Rimessosi in viaggio cinque mesi dopo, Brahms torna a Düsseldorf col suo Trio terminato (e firmato con lo pseudonimo schumanniano «Johannes Kreisler junior»), lo fa ascoltare a un gruppo di amici riuniti attorno a Clara, il 26 marzo 1854, nel pieno dello scompiglio provocato nemmeno un mese prima dal tentato suicidio di Schumann e dal conseguente suo internamento in una clinica di Bonn. Malgrado le grandi perplessità da lei espresse sul primo movimento, proprio Clara si offrirà di eseguire il Trio per la prima volta in pubblico insieme a Joachim l’8 dicembre a Breslavia; nel frattempo Brahms ha inviato l’opera a Breitkopf, che lo pubblica quello stesso anno come op.8, corrispondendo all’autore un cospicuo compenso. Da questa succinta narrazione si può comprendere come nel Bildungsroman giovanile di Brahms il Trio op.8 rappresenti un passaggio cruciale, tanto per il suo ruolo di prima composizione cameristica pubblicata, passo iniziale sulla strada rivelatasi centrale nella sua attività creativa, quanto per il legame con eventi biografici fondamentali. E ciò aiuta a capire anche perché – secondo una prassi per lui del tutto eccezionale – Brahms sia tornato su quest’opera oltre trent’anni dopo, nel 1889, spinto dall’amico Eduard Hanslick, ma pure ricordando le critiche di Clara e l’ansia del vantaggio economico immediato che tanti anni prima lo aveva indotto a una pubblicazione forse frettolosa. Nel febbraio del 1891 sarebbe apparsa per i tipi di Simrock la nuova edizione del Trio, con modifiche tanto radicali da indurre Brahms ad affermare in una lettera a Clara: «Ho riscritto il mio Trio in si maggiore, per cui posso chiamarlo op. 108 invece che op.8». Divisiva nei primi riscontri, con molti degli amici favorevoli alla riscrittura e altri invece schierati in difesa della prima versione, in breve tempo la neue Ausgabe avrebbe soppiantato quella giovanile nei gusti degli esecutori, in virtù della minore difficoltà tecnica e, soprattutto, delle più ragionevoli dimensioni ottenute col taglio drastico di circa cinquecento battute. Ancor oggi la versione del 1854 si ascolta molto di rado: il Trio op.8 è per la stragrande maggioranza del pubblico quello del 1889. Nel ripensamento dell’età matura l’esuberanza giovanile viene in parte temperata; scompaiono le verbosità, le affascinanti digressioni, così come le citazioni allusive alla maniera di Schumann; la costruzione del discorso musicale viene quasi del tutto rimodellata, sostituendo le modalità prevalentemente rapsodiche con una più stringente logica connettiva.  Nell’Allegro con moto iniziale, l’avvolgente melodia di apertura è alla base dell’intero movimento; ma se nella prima versione essa dà l’avvio a una rigogliosa narrazione, con textures foniche mutevoli, nella seconda la trama è resa più compatta ricorrendo a una dialettica tematica maggiormente coerente. Quasi immutato rimarrà invece lo Scherzo, con la sua impronta fantastica e leggera, molto vicina a Mendelssohn e ben distante dal tipo di “Allegretto-Intermezzo” adottato da Brahms nella maturità. L’Adagio, unanimemente considerato un primo vertice della produzione cameristica brahmsiana, nella sua originaria formulazione fa seguire alla iniziale, meravigliosa sequenza responsoriale divisa fra il pianoforte e gli archi, due episodi tematici (il primo dei quali cita il Lied Am de Meer di Schubert), in seguito cancellati per far posto a una languida melodia del violoncello che riconduce la struttura a una più lineare forma ABA. Anche il Finale nella seconda edizione si troverà accorciato e trasformato, conservando però due tratti caratterizzanti: lo slancio inquieto del tema dell’incipit e la tonalità di si minore mantenuta fino alla fine, eludendo il ritorno al si maggiore iniziale. Tratti che possono leggersi in riferimento agli avvenimenti accaduti fra le pareti di casa Schumann fra il 1853 e il 1854, rispetto ai quali il coinvolgimento emotivo che si coglie nella prima versione si tramuta nella seconda in ricordo, seppur indelebile e struggente. Non sembra casuale a questo riguardo che nel rifacimento Brahms abbia eliminato l’iniziale secondo tema affidato al violoncello: una chiarissima citazione del ciclo beethoveniano An die ferne Geliebte (All’amata lontana) già usata da Schumann nella Fantasia op.17, alludendo al proprio amore per Clara.

 

Robert Schumann  – Trio in re minore op.63

Estate 1847.  A Dresda, dove risiede da tre anni, Robert Schumann decide di cimentarsi nuovamente con la musica da camera, a cui si era dedicato per la prima volta nel 1842, scrivendo in pochissimo tempo i tre Quartetti per archi, il Quintetto e il Quartetto con pianoforte. Nascono allora, a breve distanza tra loro, due Trii, uno in re minore e l’altro in fa maggiore; il primo sarà pubblicato come op.63 nel 1848, il secondo come op. 80 nel 1849. L’attenzione di Schumann verso il genere del Trio con pianoforte viene stimolata dalla moglie Clara che l’anno prima ha dato alla luce il Trio in sol minore, uno dei suoi capolavori. Sia per Robert che per Clara il Meisterwerk di riferimento è costituito dal Trio in re minore op. 49 di Mendelssohn; quest’ammirazione si riflette in Schumann in alcuni dettagli superficiali e nell’adozione della stessa tonalità d’impianto. Tuttavia anche a un ascolto distratto il Trio op. 63 appare molto diverso da quello di Mendelssohn e da quello di Clara.  In primis per la densità polifonica di cui dà prova la sua scrittura, diretta conseguenza di uno studio attento delle opere di Bach da cui le forme consuete – quattro movimenti, il primo in Forma-sonata, quindi Scherzo con Trio, Adagio in forma ABA e Rondò-Sonata finale – vengono come rigenerate. L’intreccio contrappuntistico si avverte fin dalle prime battute e agisce sulla stessa configurazione tematica che viene a dipanarsi attorno a cellule molto piccole: Schumann in pratica si pone già in direzione di quella che Schoenberg avrebbe definito la tecnica della “variazione in sviluppo”, strada poi intrapresa con decisione da Brahms soprattutto nelle sue opere cameristiche. Questa concezione si lega in modo particolare al carattere di fondo del Trio, nato – stando alle parole dello stesso Schumann – in un tempo di «stati d’animo tetri»:  impossibile non considerare fattori biografici come la morte del figlio Emil, il 22 giugno del ’47, ad appena 16 mesi; o le difficoltà incontrate a Dresda, città che non sembrava aprire prospettive di lavoro all’altezza delle sue ambizioni; per non parlare degli stati di angoscia, di allucinazioni uditive e attacchi di vertigine, alternati a momenti di serenità e grande vitalità, all’ordine del giorno nell’anno che aveva preceduto il concepimento del Trio.  Le fibre di quest’opera sono in effetti pervase di una profonda inquietudine, che in certi momenti appare tanto più sconvolgente in quanto si rivela in imprevedibili diversioni: su tutte ladiafana apparizione nello sviluppo del primo movimento di un nuovo tema in “pianissimo” enunciato dal violino e dal violoncello, entrambi sul ponticello, accompagnati da accordi nel registro acuto del pianoforte.  Più in generale l’irrequietezza è il portato di impulsi ritmici e melodici che nascono dall’energia dinamica dei temi e dell’armonia. Come ha notato Arnfried Edler, tra i maggiori studiosi di Schumann, essi «sono così forti che non ubbidiscono ad altra legge di movimento se non alla propria». Perciò le cesure, le interruzioni, le entrate e le conclusioni sembrano metricamente casuali, tendono al “ritmo libero” o persino alla “prosa musicale”; traguardo verso il quale Schumann si muoveva sin dai suoi esordi, ma che solo ora, in questo capolavoro del suo tardo stile, trova un equivalente nella struttura complessiva della composizione.

 

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti 

CONCERTO DI NATALE 2023

Il 23 dicembre chiudiamo l’ anno con il Concerto di Natale del soprano Maria Grazia Schiavo con la Scarlatti Baroque Sinfonietta.

Il programma musicale, è un omaggio al grande repertorio della musica barocca con il “Concerto IX in la minore per flauto dolce, violini e basso continuo” di Alessandro Scarlatti, il “Concerto Brandeburghese” e la “Cantata Ich habe genug” di Johann Sebastian Bach e tre celebri arie di tre opere di Georg Friedrich Händel: Lascia ch’io pianga da Rinaldo, Rejoice dal Messiahe Il volo così fido da Riccardo I. Un ricco ed appassionato programma!

 

Il Concerto è gratuito con obbligo di prenotazione alla mail
prenotazioniscarlatti@gmail.com

I Natali della Musica

“I Natali della Musica” è una rassegna di tre concerti che si propone di declinare nello spazio e nel tempo il tema del Natale e delle culture musicali di chi è nato “altrove”, rendendo possibile un confronto fra la tradizione italiana e le tradizioni di altri paesi europei (dall’Inghilterra alla Germania, dall’Ucraina alla Russia) e di paesi extraeuropei (Stati Uniti, Perù). Non mancano però i riferimenti alla tradizione musicale napoletana, punto di riferimento costante per percorsi che ora le si ispirano, ora se ne allontanano. In ogni concerto, attraverso l’incontro/confronto di musiche antiche e contemporanee, emerge il rapporto fra tradizione e innovazione nell’ambito della musica sacra in generale e in particolare, della musica sacra composta per il Natale nelle le sue diverse articolazioni. 

Il primo appuntamento vedrà protagonista  l’Ensemble Vocale di Napoli, diretto da Antonio Spagnolo. Dalle antiche sonorità andine, alle solenni rappresentazioni della liturgia ortodossa, si snoda un percorso di polifonia antica e moderna che cattura l’ascoltatore e lo coinvolge nella “visione” di Natali “altri”, un viaggio musicale di spiritualità lontana dalle tradizioni mediterranee, un incontro con culture religiose e nobili tradizioni. 

Il secondo concerto, ad opera dell’organista Guido Morini, è un dialogo tra repertorio scritto e improvvisazione, in cui agli storici capolavori di tre grandi scuole compositive europee (inglese, italiana e tedesca) si sovrappongono le improvvisazioni dello stesso Morini su temi natalizi. Un concerto in cui rivive modernamente l’antica arte dell’improvvisazione all’organo. 

Il terzo appuntamento vede infine protagonista il Coro Mysterium Vocis, diretto da Rosario Totaro. Il titolo del concerto, Nitida stella – Polifonie per la Natività, prende spunto da un canto anonimo del ‘700 dedicato alla figura di Maria, motivo ispiratore di altri brani composti sempre in suo omaggio, sia di autori anonimi del XIV e XV secolo, che di autori contemporanei, come l’Ave Maria di Jiménez ed il Beata Viscera di Di Marino. 

 

Programma:

 

19 dicembre 2023 – Chiesa di San Ferdinando ore 20.00

Ensemble Vocale di Napoli

direttore Antonio Spagnolo 

Bogóroditse Djévo

Anonimo Quechua – Hanacpachap Cussicuinin (inno alla Vergine Maria)

Kievan Chant – O Theotokos Virgin; The Magnificat

Nikolaj Kedrov – Otche Nash

John H. Hopkins – We Three Kings

Thomas Jennefelt – Bön

John Tavener – Mother of God

Franz Biebl – Angelus Domini

Sergej Rachmaninov – Bogóroditse Djévo

Mykola Leontovyč – Carol of the bells

Tradizionale – Coventry Carol (arr. Warland)

Bohuslav Matȇj Černohorský –Laudetur Jesus Christus

***

20 dicembre 2023 – Chiesa Anglicana ore 20.00

Guido Morini, organo

In Nativitate

John Bull – In Nomine

William Byrd – Pavana et Galliarda

Girolamo Frescobaldi – Toccata VI sopra i pedali 

 Johann Sebastian Bach – Nun komm der Heiden Heiland BWV 659; Wachet auf, ruft uns die Stimme BWV 645; Passacaglia BWV 582

Improvvisazione a tema natalizio

***

21 dicembre 2023 – Chiesa di San Ferdinando ore 20.00 

Coro Mysterium Vocis,

direttore Rosario Totaro

Nitida stella Polifonie per la Natività

Anonimo – Personent hodie

Giovan Francesco Anerio – Onde là verso l’umile Betlemme; Gloria cantaron gli angeli del cielo

Anonimo – L’unico figlio dell’eterno padre

Anonimo – Gaudete Gaudete Christus est natus

Hans Leo Hassler – Laetentur coeli

Pomponio Nenna – In Nativitate Domini

Anonimo – Nitida stella

Giacomo Meyerbeer – Pater noster

Giovanni Longobardi – Ave Maria

Roberto Di Marino – Beata viscera

Gaetano Panariello – Hodie Christus natus est; O Magnum Mysterium

Irving Berlin – White Christmas

Mykola Leontovych  – Carol of the Bells

Edwin Hawkins – Oh Happy Day 

Marco Palumbo – Pastorale – Amen 

 

Biglietto unico 5€ acquistabile sul luogo del concerto da 1 ora prima; presso la sede di Piazza De Martiri n°58. 

ACQUISTA ONLINE:

19 dicembre

20 dicembre

21 dicembre

 

 

 

 

 

 



 

 



Concerto 14 dicembre

JAVIER COMESAÑA, violino

MATTEO GIULIANI DIEZ, pianoforte 

Enrique Granados ‒ Sonata per violino e pianoforte

Claude Debussy – Sonata in sol minore per violino e pianoforte

Igor Stravinskij – Divertimento per violino e pianoforte

Olivier Messiaen – Tema e Variazioni

Ottorino Respighi – Sonata in si minore P 110

 

Note di sala

di *Gianluca D’ Agostino

 

Enrique Granados, Sonata per violino e pianoforte

Pantaléon Enrique (o Enric) Granados (Lleida 1867 – La Manica 1916) fu un esponente di spicco del nazionalismo musicale spagnolo (lui però era catalano ed anche moderatamente indipendentista), ma venne anche condizionato dall’impressionismo francese, i cui principali esponenti conobbe durante un viaggio formativo compiuto a Parigi quand’era intorno ai vent’anni. Ottimo pianista e compositore versatile, essenzialmente autodidatta, Granados vanta un catalogo variegato ancorché non imponente, essenzialmente pianistico e tuttavia comprendente anche musica da camera, canzoni, zarzuelas, poemi musicali ed opere per il teatro. L’apice della carriera lo raggiunse a cavallo della prima decade del secolo, quando, anche grazie all’amicizia con il giovane ma già affermato violoncellista Pablo (o meglio Pau, in catalano) Casals, fondò e diresse una rinomata accademia pianistica. E di certo la sua Musa artistica avrebbe maggiormente cantato, se il compositore non fosse morto, prematuramente, nel naufragio del vapore Sussex su cui viaggiava con la moglie, a causa di un sottomarino tedesco che lo silurò nel canale della Manica, nel marzo 1916. La Sonata per violino e pianoforte (ca. 1910) fu dedicata al grande violinista Jacques Thibaud (1880-1950), al tempo in cui quest’ultimo si accingeva a intraprendere quel felice sodalizio artistico con il predetto Casals e con il pianista Alfred Cortot, che li avrebbe destinati a formare un trio la cui fama, tra anni Venti e Trenta, fu enorme. Per buona parte del pezzo il violino si staglia sull’accompagnamento pianistico, la cui scrittura comunque non è mai banale, anzi spesso è brillante. Fin dall’inizio lo strumento ad arco spazia, in modo divangante e come rapsodico, per l’intera gamma, toccando spesso il registro sopracuto, mentre l’armonia indugia in modo piacevolmente ambivalente, e il pianoforte giustappone e lascia risuonare due accordi contrapposti, quello di la maggiore e quello di si minore, che formano come un insistito pedale. Il tema principale, alquanto decorativo, viene poi trasferito al pianoforte, poi ancora ripreso dal violino che lo reitera infinite volte in varie tonalità, su brillanti arpeggi pianistici. Nell’incedere del brano l’elaborazione tematica non muta granché l’atmosfera dell’inizio, ma si avverte sul finale una condotta molto più concertante e paritetica tra i due strumenti.

 

Claude Debussy, Sonata in sol minore per violino e pianoforte

Come la morte di Granados si lega alle nefaste conseguenze della prima guerra mondiale, così pure l’ultima fase creativa di Claude Debussy (1862-1918), comprendente questa sua Sonata per violino e pianoforte, risente di quel medesimo evento, catastrofico per l’Europa e vero spartiacque nella storia contemporanea. «In quali mani cadrà il futuro della musica francese?» si domandava il maestro tra 1916 e 1917, mentre i tedeschi cannoneggiavano Parigi e lui, per giunta, era afflitto dai sintomi del male che ormai ne minava l’esistenza. Di qui la decisione di fare comunque la propria parte, e con i soli mezzi a sua disposizione, ossia con la musica, ma una musica da ricondurre “secondo la nostra antica forma”, e cioè dove tralucesse il modello del barocco francese, Rameau e Couperin. 

Nacque così l’idea di comporre le “Six Sonates pour divers instruments”, di cui però Debussy riuscì a portare a termine solo tre: una per violoncello e pianoforte, la seconda per flauto, viola e arpa, infine questa che si esegue stasera, per violino e pianoforte, che egli firmò “Claude Debussy, musicien francais”, appunto per rimarcare il patriottismo, oltre all’implicito distanziamento dalla tradizione tedesca e dal wagnerismo. L’opera sarebbe stata anche la sua ultima, e certamente fu un lavoro che gli costò gran fatica (con continui rimaneggiamenti soprattutto del Finale), senza forse nemmeno soddisfarlo del tutto, secondo quanto si ricava da commenti come il seguente: «Questa Sonata sarà interessante da un solo punto di vista, puramente documentario, e come esempio di ciò che un uomo malato ha saputo scrivere durante la guerra». 

Divisa canonicamente in tre movimenti, per il resto la Sonata non segue alcuno schema classico, né sembra essere permeata da un autentico spirito neo-classicista, o risentire più di tanto della poetica impressionista. In effetti, è un pezzo bellissimo ma piuttosto indecifrabile, pieno di cesure meditabonde alternate ad improvvise accensioni dinamiche, e sicuramente molto tecnico nella parte assegnata al violino. Fa utilizzo di cellule tematiche essenziali continuamente riproposte e variate, come si rileva fin dal primo movimento (Allegro vivo), dove non compare mai un tema vero e proprio, quanto piuttosto una linea melodico-armonica iterata, spesso giocata su sequenze intervallari percepibili come “esotiche” (es., l’intervallo discendente di terza maggiore e di terza minore, o la scala con la terza minore e la quinta diminuita). Il secondo movimento (Intermède. Fantasque et léger) ha un incipit che parrebbe umoristico, ma che subito cede alla serietà e soprattutto al carattere fantasioso tipico dell’improvvisazione, che d’altronde era contenuto programmaticamente nella didascalia. Un ritmo martellante ma leggero di note ribattute passa continuamente da uno strumento all’altro, per poi sfumare in piano. Il terzo tempo (Très animé) si svolge invece in modo convenzionalmente più brillante: è avviato da un richiamo tematico al primo tempo, ma il tono qui è più vivace e l’andamento acquista sempre maggiore brio, grazie alle note velocissime del violino; il quale tuttavia a un certo punto frena, con un imprevisto rallentamento che ha quasi il sapore di una girata di tango, ma che appunto dura un attimo, per poi tornare al ritmo frenetico dell’inizio.  

 

Igor Stravinskij, Divertimento per violino e pianoforte

Il Divertimento per violino e pianoforte (1934) non è altro che la trascrizione per siffatto organico della Suite sinfonica dal balletto La Baisier de la Fée (‘Il bacio della fata’), che Stravinskij aveva composto sei anni prima basandosi sulle musiche di Cajkovskij, e che comprende quattro parti corrispondenti alle altrettante sezioni in cui si articolava il balletto: “Sinfonia”, “Danses suisses”, “Scherzo”, “Pas de deux” (quest’ultima a sua volta tripartita: Adagio-Variazione-Coda). Siamo nel pieno di quella che Roman Vlad definisce “moderna Arcadia neoclassica”. Con il termine “Divertimento” si sottintende l’astrattezza del puro gioco musicale, ma qui c’è l’esplicita intenzione di fare “musica al quadrato”, trasformando le figure sonore derivate da opere altrui: in pratica, quello che Stravinskij aveva già fatto con il Pulcinella basato su Pergolesi (e dal quale parimenti era scaturita una celebre Suite), ora toccava fare all’adorato connazionale Cajkovskij, del quale tra l’altro ricorreva il trentacinquesimo anniversario della morte. Al sommo autore della Patetica, e in particolare a vari suoi brani pianistici e vocali, risale praticamente tutto il materiale melodico tonale udibile nel Divertimento; mentre le parti poliritmiche e atonali, così come gli inconfondibili ritmi di danza, d’altronde nettamente contrastanti con il resto, sono opera del solo Stravinskij. In questa sede rileverebbe parlare solo dell’aggiunta della parte violinistica, che fu opera del violinista Samuel Dushkin, con il quale il compositore aveva iniziato una fruttuosa collaborazione sin dai primissimi anni Trenta, a partire dal Concerto per violino e orchestra; proprio il suo felice esito indusse il compositore a realizzare altre partiture per violino “concertante”, sempre in collaborazione con Dushkin, vincendo così la propria iniziale avversione nei confronti della combinazione sonora nascente dalle corde percosse del pianoforte e da quelle fatte vibrare dall’arco. Subito però ci si avvede che, in questo come negli altri brani congeneri, è impossibile considerare la parte del violino come separata dal resto (e nella fattispecie dal pianoforte); dunque non resta che tornare a una rapida visione d’assieme. A fronte della prima sezione forse troppo contrastante e “pasticciata” (beninteso nel più nobile senso stravinskjiano), nel brano successivo, le “Danses  suisses”, si ritrova con piacere l’inventiva ritmica dell’autore dell’Histoire du Soldat, con quegli scatti tipici e i guizzi melodici che solo al violino si possono ricreare. Poi della terza sezione si ammira soprattutto lo splendido momento pastorale (“Doppio movimento”) incastonato al suo centro. D’altronde sono tanti, quanto improvvisi, gli squarci lirici presenti in questo Divertimento, all’ascolto dei quali si prova una curiosa sensazione come di tornare indietro nel tempo. L’ultima sezione forse pecca un pochino di sincerità, nel senso che vi traspare l’intento di far sfoggio della parte virtuosistica del violino e, al contempo, di “spettacolarizzare” un po’ troppo la musica. 

 

Olivier Messiaen, Tema e Variazioni, per violino e pianoforte

Restiamo sempre in ambito francese e ancora nel cruciale periodo tra le due guerre. Thème et variations di Olivier Messiaen (1908-1992) risale infatti al 1932, all’epoca del suo matrimonio con la violinista Claire Delbos. Sarebbe pertanto lecito aspettarsi da esso i tratti di un giovanile, e magari galante, cadeau nuziale; e invece l’opera travalica decisamente questa dimensione, assumendo un respiro progressivamente drammatico ed anzi evidenziando, fin da subito, molte delle caratteristiche ‘mature’ del linguaggio musicale del francese: la configurazione degli accordi più tipici, il modalismo melodico, l’articolazione in periodi di sette anziché otto battute, l’assenza di sviluppo. Ultimo ma non da ultimo, l’aspetto della concertazione, sempre molto prominente. 

Le cinque variazioni si definiscono forse meglio “e contrario”, piuttosto che con aggettivi: di certo non appaiono come trasformazioni, ma piuttosto come decorazioni del tema principale, un tema che da parte sua ha un notevole lirismo, ma che è sfuggente nella fisionomia e parimenti resistente  a qualsiasi aggettivazione. Grandiosa l’enfasi ottenuta nell’ultima Variazione.

 

Ottorino Respighi, Sonata in si minore per violino e pianoforte P 110

Con la la Sonata in si minore per violino e pianoforte di  Ottorino Respighi (1879-1936) torniamo agli anni del primo conflitto mondiale, ma rientriamo finalmente anche nei nostri confini nazionali. Fu composta tra 1916 e 1917, cioè nello stesso periodo del poema sinfonico Le fontane di Roma, il primo della celebre Trilogia romana. Anche la prima suite delle Antiche arie e danze per liuto è di quegli anni, ma in fondo, oltre alla cronologia, queste tre opere non condividono altro, e ciò dice molto sull’ampiezza del ventaglio stilistico di Respighi e sulla varietà della sua ispirazione, che qui attinge parimenti al tardo Romanticismo europeo (pare sovente di sentire, nel primo movimento, il Liszt della Sonata omonima per pianoforte, ma anche Rachmaninov) e al barocco nazionale, della cui tradizione Respighi fu il più influente cultore. Nel Moderato iniziale, il nucleo musicale è una cellula che prende forma dalla nebbia di terzine del pianoforte e che sostanzialmente s’impernia nel brusco e perfino aspro salto d’intervallo tra i tre suoni tonica-settima-sesta. Dopo una lunga peregrinazione la conclusione è, però, in un rassicurante si maggiore. L’Andante espressivo è in forma ABA, di cui quella centrale, più agitata e addirittura veemente, è in un netto contrasto con le due estreme, che sono più liriche e cantabili, e decisamente romantiche. Veramente, però, il canto con cui il movimento ha proprio inizio possiede un’ineffabile nota di antico, anzi di arcaico, che evidentemente Respighi, col suo proverbiale sesto senso per la filologia, ben conosceva: ciò meriterebbe un supplemento d’indagine. Nell’Allegro finale, ben venti variazioni accompagnano il tema di passacaglia, tema robusto ed esposto con grande solennità: qui alla parte pianistica è richiesto un virtuosismo notevole, mentre la condotta molto energica del violino rispecchia la conoscenza personale dello strumento da parte del compositore, e l’alta perizia tecnica. Più importante ancora è la strategia compositiva, che vede, prima del travolgente finale, un fugace ritorno del tema del Moderato iniziale.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti 

 

Concerto 6 dicembre

NICOLA PIOVANI – NOTE A MARGINE

Marina Cesari, sax

Marco Loddo, contrabbasso

Vittorino Naso, percussioni

Nicola Piovani, pianoforte

 

Note di sala

di *Stefano Valanzuolo

Il titolo del progetto rimanda all’abitudine, che molti hanno (e Nicola Piovani, certamente, tra questi) di annotare magari a matita, sul bordo di un libro o – se si è musicisti – di una partitura, certe considerazioni estemporanee e non per forza fondamentali, come a voler lasciare traccia di una fugace riflessione a beneficio di sé stesso più che degli altri. In “Note a margine” sono le parole a occupare una posizione subordinata (dunque, marginale), ché la musica – quella di Piovani, nella circostanza – si prende la scena e conduce il gioco, fino a sfiorare suggestioni di tipo teatrale. Se è vero, infatti, che il cinema resta il grande e dichiarato amore di questo compositore gentile e fantasioso, premiato con l’Oscar nel 1999, altrettanto indiscutibile è il fascino che su di lui esercita il mondo del teatro, inteso come ambito espressivo innervato dalla presenza fisica dei protagonisti e, in quanto tale, non surrogabile da altro mezzo (ogni riferimento alla televisione è puramente intenzionale). Ciò spiega come mai, da molti anni, Piovani abbia scelto di non consegnare solo allo schermo la propria musica ma di svelarla anche dal vivo con progetti diversi che lo vedono in scena nella veste di autore, esecutore, conversatore privilegiato. Oltre i margini assodati del concerto propriamente detto, cioè, e con la voglia di coinvolgere il pubblico in un’interlocuzione altra e vivace. Lo spettacolo “Note a margine” nasce nel 2003, su commissione del Festival di Cannes e con un altro titolo, “Leçon concert”. Della “lezione”, in senso didattico e pure didascalico, questa proposta però non ha nulla. È, infatti, un racconto autobiografico ai limiti dell’informale (nel senso accattivante del termine) che attraversa mezzo secolo di carriera vissuta ad alta quota e scandita da incontri determinanti, cioè assai proficui, con partner illustri; registi e non soltanto. Originariamente concepito per pianoforte solo, l’excursus di Piovani avrebbe poi assunto fattezze diverse, portando in pedana un duo, quindi un trio, infine il quartetto. Per il futuro, non sono da escludere variazioni di organico.  «Un progetto come questo – spiega Piovani – si modella intorno a un format base che, tuttavia, nel corso degli anni può finire col perdere qualche pezzo e acquisirne magari altri, in modo naturale e senza smarrire la propria identità. Rientra nella logica di crescita di qualsiasi produzione. Mi viene in mente, a tale proposito, un altro spettacolo, “La musica è pericolosa (presentato a Napoli dall’Associazione Scarlatti nel 2019; ndr), al quale sono molto legato: della scaletta che preparai per il debutto al Ravenna Festival, anno 2015, oggi resistono non più di tre o quattro pezzi. Il resto è cambiato, ma il senso del messaggio no». Proprio quest’ultima considerazione aiuta a capire come, anche nel caso di “Note a margine”, lo spettatore si ritrovi di fronte ad una sorta di work in progress dai connotati sfuggenti per scelta, perché sulla confezione finale del prodotto incide, evidentemente, l’atmosfera del momento, la complicità con la platea, la forza degli aneddoti raccontati. Quelli che riguardano Federico Fellini (con il quale Piovani lavorò in occasione di “Ginger e Fred”, “Intervista” e infine “La voce della luna”), per esempio, cambiano ogni volta, perché il compositore ne ha tanti – beato lui – che custodisce gelosamente nella memoria; e sa centellinarli, con garbo affettuoso. “Note a margine”, nella definizione sintetica dell’autore, alterna «brani musicali e note parlate, e le seconde rimandano a momenti d’ascolto, certo, ma senza pretendere di spiegarli né di fornire giudizi esaustivi. L’obiettivo, semmai, è quello di aiutare il pubblico a entrare più facilmente all’interno della musica, a coglierne la valenza emotiva attraverso particolari piccoli, apparentemente insignificanti eppure in grado di far intendere il clima in cui quelle pagine siano nate e perché continuino a vivere». Sono “note”, nell’accezione di appunti, ma il compositore si ostina a chiamarle noterelle, per rimarcare il fatto che non vadano poi prese troppo (o sempre) sul serio. Consegnate allo spettatore in termini cordiali, le note a margine concorrono a delimitare uno stato d’animo e ad alludere a una sensazione, possibilmente condivisibile, suscitata da altre note, quelle scritte sul pentagramma. La cui energia – come amava dire Fellini – agisce a un livello così profondo e inconscio da risultare pericolosa. Felicemente pericolosa, però. Parlando di sé stesso, Piovani ha detto di non ricordare un giorno solo trascorso lontano dalla musica. Alla luce di una considerazione siffatta, “Note a margine” diventa soprattutto un atto d’amore nei confronti della propria professione, straordinaria e straordinariamente svolta. Il cinema è presente assiduamente nell’arco di tutto il racconto. La colonna sonora diventa, nelle mani di Piovani, lo strumento più adatto a declinare tanta passione verso la musica; lo schermo diventa ambito entro il quale emozionare il pubblico, un ambito prezioso eppure non esclusivo. Tant’è che nello spettacolo, assieme alle molte citazioni famose e famosissime legate ai film, compaiono altri ricercati omaggi musicali. Come quello a Fabrizio De Andrè, che volle Piovani accanto per la creazione di almeno due dischi (concept album, si chiamavano allora) assai importanti: “Storia di un impiegato” e “Non al denaro, non all’amore né al cielo”. Menzione assai opportuna, ché la canzone, anzi la forma-canzone come modello di stile, ricopre un ruolo centrale nell’esperienza di Piovani e nella sua fruttuosa collaborazione – ecco un altro esempio – con Roberto Benigni interprete (“Quanto ti amo”) e regista (“La vita è bella”, ça va sans dire). Nella scaletta di “Note a margine” ricorre pure una serie significativa di composizioni – come Canto senza parolePartenope e Il volo di Icaro – dedicate al rapporto misterioso tra musica e mito, caro al compositore. Sono pagine non legate al racconto cinematografico, eppure dotate di una carica immaginifica che rappresenta, di fatto, il vero marchio di fabbrica di Piovani. Il resto, sulla scena e nell’economia dello spettacolo, lo fanno l’intesa tra i musicisti, la proiezione dei fotogrammi da film, i disegni di Milo Manara, le scelte di luce, il ritmo impresso al percorso. Così si entra, senza troppi sforzi, nella magia del teatro. L’elenco dei registi che Piovani ha affiancato a partire dal 1970 (anno in cui scrive le musiche per “La ragazza di latta”, il suo primo film) assomiglia, evidentemente, a un compendio di storia del cinema italiano. Ovvio l’imbarazzo della scelta per il compositore che aspiri a narrare di sé e della propria esperienza. Tuttavia alcuni nomi, in una serata che abbia sapore di racconto e omaggio, diventano ineludibili: Fellini e Benigni, appunto, e poi i fratelli Taviani e Nanni Moretti. Ci sono anche titoli e protagonisti un po’ meno popolari (pensiamo a Bigas Luna, regista di “Jamon, jamon” e “La teta y la luna”) ma la certezza è che, volendo, Piovani potrebbe attingere in ogni istante ancora ai film di Monicelli, Bellocchio, Tornatore, Amelio e compagnia bella (che stavolta non è un modo di dire). Le regole del mondo dello spettacolo, si sa, ammettono – e talvolta impongono – che un pizzico di mistero accresca l’attesa. Anche per questo, oltre che per l’abbondanza di spunti possibili, “Note a margine” non ha una trama fissa e predefinita. «Non è reticenza compiaciuta la mia», assicura Piovani. «Sono io il prima a sorprendermi, sera dopo sera, della forma fluida che assume lo spettacolo. A Napoli, per esempio, mi piacerebbe portare (e sarebbe la prima volta) le musiche scritte per un film di animazione francese dell’anno scorso, si chiama “Manodopera” e ha avuto grande successo. Spero di farcela a completarne l’orchestrazione. Il problema, semmai, è dover poi decidere cosa tagliare per fare spazio al pezzo nuovo. Una regola aurea non scritta vuole che le proporzioni dello spettacolo, prima di tutto, siano rispettate». “Note a margine” non ha una partitura – per citare Piovani – inchiodata. È un ricordo costruito per capitoli e tenuto insieme dal filo conduttore suadente prestato dal cinema, elemento di attrattiva irresistibile per il pubblico, ma anche per il compositore. Il quale, non a caso, rivendica spesso e orgogliosamente il proprio status di spettatore, sia pure privilegiato, all’interno del grande mondo della musica. «Faccio parte di quel gruppo ormai piccolo di persone che ancora vanno al cinema. E frequento assiduamente, da sempre, le sale da concerto. Quest’attitudine mi consente di pormi più facilmente nell’ottica del pubblico, magari di coglierne le aspirazioni e di venirgli incontro». È una platea, quella di oggi, portata più spesso a “riconoscere” piuttosto che a “conoscere”, a “riascoltare” piuttosto che ad “ascoltare”…  «Il problema – sottolinea Piovani – sta nel trovare un punto d’incontro tra l’esigenza di rassicurare il pubblico, attraverso il ricorso a riferimenti individuabili, e quella di osare». È in quella zona di compromesso, allora, che sembra muoversi disinvoltamente il progetto “Note a margine”, riproponendo melodie amatissime assieme a pagine meno assodate, sempre da un angolo visuale speciale, quello cioè di chi ne abbia conosciuto i presupposti anche drammaturgici. Senza intellettualismi né fronzoli. La dimensione dei brani, qui, è dichiaratamente cameristica, sebbene alcuni lavori siano nati per organici orchestrali più imponenti, salvo poi venire ridotti all’occorrenza, preservandone la linea narrativa e il senso, l’una e l’altro funzionali allo sviluppo della storia. Persino la colonna sonora de “La notte di San Lorenzo”, il cui turgore sinfonico sembrerebbe irrinunciabile, rivive in scala minima, sul pianoforte solo, illuminando il lato intimo e privato di un’epopea collettiva. Come in un romanzo di Fenoglio.  Il tono della conversazione, in “Note a margine”, è dato dall’approccio pacato e non per questo meno diretto di Piovani, protagonista indiscusso eppure discreto sulla scena. Il tono della rievocazione musicale trae ragione dal colore stesso degli strumenti, perché sono i colori – spiega l’autore – «…a cambiare faccia a una storia. Esistono strumenti capaci di entrare in punta di piedi in una trama – per esempio il violoncello, o il clarinetto – e poi eclissarsi con discrezione. Ce ne sono altri che sottendono un protagonismo meno gestibile». E in questa riflessione sul suono, sulle nuances che lo determinano e sul significato che ne deriva si ritrova tutta la delicata sapienza di Piovani. Il suo è uno spettacolo affettuoso, come affettuoso è il suo riguardo nei confronti di Napoli: «La considero la mia seconda città. E giuro che non dico la stessa cosa dovunque vada! A Napoli ho vissuto in anni di formazione, ho fatto teatro, ne ho studiato la lingua, ho avuto il privilegio di conoscere Eduardo e di lavorare a lungo e felicemente con suo figlio Luca. Insomma, il rapporto con questa città è troppo profondo perché possa spiegarlo a parole».

Meno male che c’è la musica, allora.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti 

 

 

 

Settimana di Musica d’ Insieme 2023

Il progetto della Settimana di Musica d’Insieme, curato dall’Associazione Alessandro Scarlatti in collaborazione con la Direzione Regionale Musei Campania e sostenuto e finanziato dal Comune di Napoli, nell’ambito del progetto “Napoli Città della Musica”, si inserisce nel solco della storica manifestazione ideata nel 1971 da Salvatore Accardo e Gianni Eminente, che trovò sin dai primissimi anni ospitalità nel magnifico scenario di Villa Pignatelli.
Una settimana densa di musica e di eventi, con una forte carica divulgativa e innovativa, che trova cornice ideale quest’anno nei bellissimi spazi di Villa Pignatelli e dell’Auditorium Porta del Parco di Bagnoli, con lo specifico intento di valorizzare il patrimonio artistico, monumentale della città, antico e moderno.

 

Programma


Domenica 26 novembre 2023 – Villa Pignatelli | Ore 11.00
Quartetto Goldberg
Musiche di Wolfgang Amadeus Mozart e Maurice Ravel

Martedì 28 novembre 2023 – Villa Pignatelli | ore 20.30
Gabriele Pieranunzi e Ivos Margoni, violini
Francesco Solombrino e Francesco Fiore, viole
Danilo Squitieri, violoncello
Ermanno Calzolari, contrabbasso
Antonello Cannavale, pianoforte
Musiche di Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Schubert

Sabato 2 dicembre 2023 – Auditorium Porta del Parco| ore 20.30
EVENTO SPECIALE
Giovanni Sollima, violoncello
Musiche della tradizione albanese e salentina, Giuseppe Clemente Dall’Abaco, Johann Sebastian Bach, Leonard Cohen, Nirvana, Giovanni Sollima.

Domenica 3 dicembre 2023 – Villa Pignatelli | ore 11.00
Giovanni Sollima, violoncello
Federico Guglielmo, violino
Scarlatti Baroque Sinfonietta
Tommaso Rossi, Alessandro De Carolis, flauti dolci
Paolo Perrone, Marco Piantoni, violini
Rosario Di Meglio, viola
Manuela Albano, violoncello
Giorgio Sanvito, contrabbasso
Patrizia Varone, clavicembalo

Musiche di Nicola Fiorenza, Leonardo Leo, Antonio Vivaldi, Johann Sebastian Bach

 

PROVE APERTE a Villa Pignatelli
Lunedì 27 novembre 2023
Ore 10-13 | 15-17
Martedì 28 novembre 2023
Ore 10-13
Venerdì 1 dicembre 2023
Ore 10-13 | 15-17
Sabato 2 dicembre 2023
Ore 10-13 | 15-17

I concerti sono gratuiti esclusivamente su prenotazione scrivendo a: prenotazioniscarlatti@gmail.com

Info Whatsapp 3426351571

Concerto 15 novembre

OFM – ORCHESTRA FEMMINILE DEL MEDITERRANEO

ETTORE PAGANO, violoncello

ANTONELLA DE ANGELIS, direttore

Compositrici e compositori a confronto


Marianna Martines

Ouverture in Do maggiore

Franz Joseph Haydn

Concerto per violoncello n. 1 in do maggiore

Grazyna Bacewicz 

Concerto per orchestra d’archi 

Arvo Pärt

Fratres per violoncello, archi e percussioni

Giovanni Sollima

Aquilarco 1

 

 

 

Note di sala

di *Gianluca D’ Agostino

 

Marianna Martines – Ouverture in Do maggiore

Molte donne e fanciulle di buona famiglia erano ben istruite musicalmente nel Settecento, così come in epoche precedenti. Poche di esse, tuttavia, lo erano tanto da poter vantare di essere anche compositrici. Questo fu il caso di Marianne Martines, al secolo Anna Catherina von Martines o Martinez (Vienna, 1744-1812), che fu cantante, clavicembalista e, appunto, compositrice. Il padre Nicolò, di origine spagnolo-napoletana, era maestro di camera del Nunzio papale alla corte viennese dell’Imperatore Carlo VI, e in questo modo ottenne una patente di nobiltà. Egli, soprattutto, era amico del celeberrimo librettista e poeta “cesareo” Pietro Metastasio, il quale in effetti fu il padrone della dimora (alla Michaelerplatz di Vienna) dove la famiglia Martines visse per un intero cinquantennio (dal 1734 al 1782). Qui la bambina mostrò grande propensione per la musica e in tal senso fu incoraggiata ed anzi costantemente seguita dallo stesso Metastasio (che la chiamava “la mia piccola Santa Cecilia”). Fu lui a incaricare di istruirla prima il famoso operista napoletano Nicola Porpora, in uno dei suoi vari passaggi per Vienna, poi anche il giovane Franz Joseph Haydn, che era parimenti ospite di quel palazzo. Ulteriori progressi nella musica ella fece grazie ad altri insegnanti illustri, come Hasse, e soprattutto grazie al favore di cui godette presso l’imperatrice illuminata, Maria Teresa d’Austria, che la collocò in breve in una posizione privilegiata nella vita artistica viennese, incoraggiandola ad esibirsi e ad eseguire le sue proprie composizioni. In questo modo Marianna si trovò spesso invitata a serate musicali animate da talenti straordinari, come lo stesso Haydn e come i due Mozart, padre e figlio. Sempre grazie al Metastasio, entrò in contatto con musicisti e critici italiani del calibro di Saverio Mattei e di Padre G.B. Martini, che le schiusero le porte della conoscenza della polifonia sacra e al contempo le tributarono riconoscimenti “accademici”. Non è poco, per una donna di quei tempi. Eppure, nonostante la fama, i riconoscimenti e l’ammirazione di musicisti e reali, nessun’opera della Martines fu pubblicata quando lei era in vita. Ebbe comunque la soddisfazione di vedere la sua casa trasformata in una vera e propria Accademia musicale, da cui vennero sfornati parecchi talenti. Relativamente al primo brano che ascolteremo stasera, l’Ouverture (o Sinfonia) in Do maggiore, il primo movimento, con quell’incipit così teatrale e appunto spiritoso, parrebbe derivare da una sinfonia d’opera italiana, piuttosto che da un concerto grosso haendeliano; se non che la tecnica di elaborazione tematica qui in atto è già d’impronta inequivocabilmente classica, e dunque subito appare chiaro che ci troviamo in un altro contesto. Ammirevole qui, specialmente, è la condotta orchestrale, che è prescritta in maniera affatto sicura e facendo grande attenzione alla scorrevolezza del discorso, ottenuta anche grazie al giusto dialogare strumentale e con l’impiego di pause efficaci e di ricapitolazioni briose. Il tutto, insomma, riesce in una frizzante miscela di gusto viennese e italiano. L’Andante centrale, con la sua eleganza melodica un po’ affettata, pecca forse di leziosaggine, ma pure denota pregevoli concertazioni tra i fiati e tra questi ultimi e gli archi. Mentre l’ultimo movimento, una danza in forma ternaria, ha una prima parte chiaramente bitematica che viene ripetuta, cui segue una brevissima sezione centrale in minore, e infine torna la ripresa della prima parte.

Franz Joseph Haydn – Concerto n° 1 in do maggiore per violoncello e orchestra, Hob: VIIb:1

A quello stesso Haydn (1732-1809) che aveva, da giovane, insegnato alla piccola Martines, si fa talvolta un gran torto, svalutando alcune sue composizioni “di circostanza” o nate su commissione (soprattutto per i principi Esterhazy), e paragonandole a quelle dell’amico Mozart o dell’allievo Beethoven. Si dimentica infatti che in molti casi Haydn li precedette e additò loro la strada maestra, soprattutto per quanto concerne l’elaborazione formale (è pur sempre il “padre” del quartetto e della sinfonia, ma fu anche innovatore nei generi drammatici e altrove), ma anche nei principi compositivi dello stile, così saldamente razionali, ad esempio nella tecnica di costruire a partire da poche premesse iniziali, quindi sfruttando il potenziale latente delle note fondamentali. Però è vero che nei concerti solistici (una ventina, composti per i più vari strumenti) non va forse cercata la più alta prova del suo immenso talento; poiché in essi prevale il carattere più leggero, se non proprio “disimpegnato”, dell’ispirazione, oltre all’impellenza di dare spazio al virtuosismo dell’interprete. Si sente bene, anche ascoltando in modo superficiale, che le ripetizioni tematiche sono molto nette e che il periodare è fin troppo circoscritto e dunque prevedibile; in effetti, che manca una vera e propria dialettica “drammatica” tra il solo e il tutti, il che poi sarà una conquista, appunto, mozartiana. Nel caso in questione, una copia di questo primo Concerto per violoncello appartenne a Joseph Franz Weigl (padre del compositore omonimo), che tenne il posto di violoncellista nell’orchestra degli Esterhazy tra 1761 e 1769; ciò che rende probabile che Haydn lo compose proprio per costui, in quello stesso periodo di tempo. Nel primo movimento (Moderato) si sente ancora l’eredità del Barocco: i due temi principali dell’esposizione, invero privi di una fisionomia inconfondibile, vengono prima enunciati dall’orchestra e poi ripresi dal solista, e questa sequenza viene ripetuta; si entra così in una fase di sviluppo, che vede essenzialmente protagonista lo strumento solista con notevole sfoggio di abilità, ma anche di una decisa cantabilità; e infine c’è la ripresa, conclusa da una bella cadenza solistica. Nel successivo Adagio il tema è più bello e nobile (a qualcuno potrebbe ricordare la celeberrima “Romanza” beethoveniana per violino e orchestra): esposto dall’orchestra e poi dal solista, rappresenta un piccolo compendio di “stile classico”, ad esempio nell’avere la sua cellula melodica, di matrice chiaramente esornativa e barocca, che viene ripetuta sulla progressione di basso dal III al VI grado, per poi ricadere sulla tonica. Poi anche qui c’è una sorta di sviluppo modulante, breve ma intenso, e più intensa ancora è la riepilogazione finale, che parimenti conduce ad una cadenza solistica molto espressiva. L’inizio dell’Allegro molto, alla fine, ha il tipico incedere brioso delle sinfonie d’opera (quando attaccano il tema dopo l’introduzione lenta), ma poi la scena è tutta presa dal solista, impegnato in una scrittura che lo costringe a un vero tour de force, ivi comprese le fioriture di matrice belcantistica. Degli interventi dei fiati si odono a questo punto, distintamente e direi forse per la prima volta, ma soprattutto vi fa ogni tanto capolino un tema in do minore che getta come un velo d’ombra malinconica sul brano: malinconia mozartiana, penseremmo subito, ma così dicendo faremmo il solito torto a “papà” Haydn!

Grazyna Bacewicz – Concerto per orchestra d’archi 

Con la compositrice polacca Bacewicz inizia la parte contemporanea del concerto di stasera. Grazyna Bacewicz (Łódź 1909 – Varsavia 1969) è ancor oggi poco più che un nome fuor di patria, e ciò sorprende alquanto, considerando la celebrità di cui godette in vita. Fu una bambina-prodigio sia come pianista sia come violinista, formandosi prima in famiglia e poi studiando al Conservatorio di Varsavia; quindi imboccò la strada della composizione, vincendo anche vari premi, e dovendo destreggiarsi in un ambito quanto mai appannaggio degli uomini. In effetti la sua formazione e la sua fama si completarono ed accrebbero anche grazie agli stretti legami con l’ambiente parigino, dove negli anni Trenta si perfezionò con il grande pianista Ignacy Jan Paderewsky, con il violinista Carl Flesch e con la celebre compositrice Nadia Boulanger. Ricoprì poi il ruolo di primo violino presso l’Orchestra della Radio Polacca, e in questa veste effettuò molte tournée. Dopo la Seconda guerra mondiale, che com’è noto era stata particolarmente atroce per la Polonia (con Varsavia rasa al suolo e molte altre città brutalmente occupate dai tedeschi), fu docente al Conservatorio della sua città natale e poi nella capitale, potendosi dedicare principalmente alla composizione e alla didattica, ma anche alla critica e all’organizzazione musicale, e assurgendo fino al ruolo di vicepresidente dell’Unione dei Compositori Polacchi. Ebbe pure le sue difficoltà nel dover convivere con le critiche espresse dal regime staliniano, per cui ciò che non era allineato veniva proibito in nome del “realismo socialista”; e forse ancor più gravosa fu per lei la sostanziale avversione della critica, sempre tutta al maschile beninteso, che le rimproverò fino alla fine il “continuo sperimentalismo” e gli “incessanti cambiamenti dello stile”. Nella sua produzione spiccano le pagine dedicate al violino, suo strumento prediletto (sette concerti, cinque sonate con pianoforte, tre per violino solo); ma l’autrice spaziò in vari generi, dalle sinfonie, alla musica vocale, ai quartetti (sette, dal 1938 al 1965), e dalle musiche di scena a quelle per il cinema e la radio. Sebbene composto dopo la guerra, il Concerto per orchestra d’archi (1948) sembra risentire ancora del precedente clima parigino, nel senso di una sua opzione che potremmo chiamare “neoclassicheggiante”, che pare evidente sia nell’adozione dello stile concertante (si consideri la grande perizia della Bacewicz nella tecnica degli strumenti ad arco), o negli effetti di ripetizione imitativa quasi barocchi, sia nel fatto che il linguaggio è sì quasi atonale, ma senza prescindere del tutto dalla logica derivativa della forma-sonata. Il primo movimento è giocato in una sorta di continuum ritmico, su cui si innestano due temi principali, il primo dei quali caratterizzato da ampie discese melodiche che paiono convergere sempre nel medesimo punto, e l’altro tema avente invece carattere più ritmico ed un colore più cupo. Si evidenzia, ad ogni modo, l’ottima padronanza del contrappunto e dei buoni effetti drammatici ottenuti anche con pause a effetto. L’Andante, che ci pare la pagina più felice, parimenti s’incentra sulla riflessione contrappuntistica: c’è un melodiare esteso, sinuoso, ma fondamentalmente peregrino (che almeno superficialmente ricorda la schoenberghiana Notte trasfigurata), che si staglia su un ostinato discendente, creando così un effetto straniante, ma efficace. Il Vivo finale, invece, pur essendo caratterizzato da una maggiore vivacità ritmica, appare in fondo statico: l’inizio arrembante è quasi in tempo di marcia, poi la trama sonora indugia in arabeschi sonori e in capricciose volute dei violini, ma la direzione generale del pezzo sembra un po’ smarrirsi.

Arvo Pärt – Fratres, per violoncello, archi e percussioni

E ora un passo ulteriore verso la contemporaneità dell’oggi. Fratres è il titolo di un’opera del compositore estone Arvo Pärt, considerato l’inventore del “minimalismo sacro”. È invero un’opera “variabile”, nel senso che di essa esistono svariate versioni previste dall’autore per un’ampia varietà strumentale. La prima versione, per quartetto d’archi e quintetto di fiati, fu scritta nel 1977, e questa data è importante perché di pochissimo successiva a quella del ‘76, che Pärt stesso fissò come termine “a quo” del suo nuovo e definitivo stile compositivo: la cosiddetta “tintinnabulazione”, basata su accordi ripetuti sostanzialmente tonali, che risuonano come campane o campanelli, e che avrebbero proprietà fortemente evocative se non addirittura mistiche. Da allora e fino alla versione scritta per violoncello, archi e percussioni che ascolteremo stasera, e che è del 1995, il compositore ha realizzato almeno sette versioni diverse di quest’opera. A fronte della variabilità dell’organico strumentale, la struttura generativa di base è molto semplice e appunto minimale: una sequenza di nove accordi, separati da un motivo percussivo ricorrente, sopra i quali lo strumento solista esegue figurazioni di volta in volta diverse, in effetti seguendo la classica logica del “tema con variazioni”. La tonalità costante è grossomodo quella di La maggiore, ma “orientalizzata”, cioè avente la scala con il secondo grado abbassato di un semitono: l’effetto è da subito molto suggestivo e si può avere l’impressione di entrare in una musica da “mistery film”. All’inizio si ode il violoncello solo, che esegue una lunga e complessa sequenza di figurazioni in velocissime sestine che creano come un continuum sonoro. Interviene poi la famosa sequenza di accordi; quindi riprende il violoncello con un altro lungo fraseggio in quartine legate. E così via, attraverso armonie costanti, ma con figurazioni del solista mano a mano diverse e cangianti, molto variabili anche dal punto di vista della dinamica e della tecnica d’arco; diverse anche perché incasellate entro ritmi sempre diversi (si tratta in effetti di battute anisoritmiche e di ritmi molto irregolari, alla Stravinskij, per intenderci), che tuttavia anche qui si susseguono in una sequenza fissa: 6/4, 7/4, 9/4, 11/4.

Giovanni Sollima – Aquilarco 1

Infine una musica italiana di oggi. Aquilarco è il titolo di un album del compositore e violoncellista palermitano Giovanni Sollima, del 1998; altre otto tracce dell’album recano lo stesso titolo, dunque il brano che ascolteremo è il primo della serie ed infatti è concepito (e sottotitolato) a mo’ di “preludio”. Si è da subito calati “in medias res”, con il solista che esegue un’impetuosa introduzione molto ritmica e incalzante, dai toni anche drammatici e urgenti: in effetti, un vero pezzo di bravura che richiede grande destrezza e abilità all’interprete. Si innesta poi su di esso la compagine strumentale, che presenta un tema più definito, anche se non molto più posato del precedente, nel quale sembra di riconoscere un tango. Il solista a questo punto intreccia una fitta dialettica con gli altri strumenti, che mantiene comunque l’andamento impetuoso e il profilo tagliente dell’inizio.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti 

 

 

 

Concerto 9 novembre

BEETHOVEN IN VERMONT

spettacolo scritto e diretto da MARIA LETIZIA COMPATANGELO con il TRIO METAMORPHOSI 
MAURO LOGUERCIO violino – Adolf Busch
FRANCESCO PEPICELLI violoncello – Hermann Busch
ANGELO PEPICELLI pianoforte – Rudolf Serkin

Musiche di Ludwig van Beethoven

 

Sinossi

Nell’estate del 1951, all’indomani della seconda guerra mondiale, tre famosi musicisti esuli dalla Germania nazista devono decidere il programma del concerto inaugurale del Festival di Marlboro, la scommessa che sintetizza le loro vite e il loro percorso umano e artistico: dal rifiuto del nazismo all’esilio volontario e l’emigrazione negli Stati Uniti. Nel volgere di pochi anni il Festival di Marlboro è diventato famoso e ha fatto scuola nel mondo; i suoi partecipanti sono musicisti tra i più talentuosi dei cinque continenti e gli insegnanti grandi virtuosi e acclamati direttori d’orchestra… ma in quel lontano pomeriggio del 1951 questa idea rivoluzionaria era ancora solo nella mente dei tre promotori, occorreva svilupparla e metterla in pratica. Lo spettacolo immagina il momento della scelta del programma e lo scambio di idee musicali e umane tra i tre artisti. Siamo all’indomani del secondo conflitto mondiale, le atrocità compiute sono ancora ferite aperte nella memoria e nei corpi delle persone. E loro sono tre europei di origine e cultura tedesca di fronte a una classe di giovani musicisti americani. Tra esecuzione di brani, dissensi e opinioni contrastanti che mettono a nudo verità celate, Adolf, Rudolf e Hermann preparano il loro concerto… e alla fine, per il primo concerto di una formidabile serie che da allora non si è mai interrotta, la loro scelta è Beethoven, il musicista portatore per eccellenza degli ideali di fratellanza tra i popoli, e la sua opera 97, l’ultimo Trio, “L’Arciduca”, il ponte verso i futuri capolavori.

 

Note di sala

di *Stefano Valanzuolo

 

Tra Marlboro e Napoli

Anno 1951. A Marlboro, nel Vermont, un gruppo di musicisti intraprendenti e illustri decide di dare vita ad un progetto alternativo di scuola di perfezionamento che possa sfociare anche in un festival. Ne fanno parte il pianista Rudolf Serkin e i fratelli Busch, ossia Adolf (violinista) e Hermann (violoncellista). Vengono tutti dalla vecchia Europa: Serkin è austriaco, i due Busch sono tedeschi. Hanno tutti assunto la nazionalità statunitense. Non sono scappati dalle leggi razziali, no, ma da un contesto che non riconoscevano più come giusto e umano; dunque, non più come proprio. Il Vermont ha paesaggi montani che assomigliano a quelli di casa, ed è forse per questo che i tre musicisti, uniti da solida amicizia artistica oltre che da legami di parentela (Serkin è il genero di Adolf Busch) sceglieranno quel punto del globo, più o meno tra Montreal e New York, per stabilirvi un campus destinato ad accogliere giovani provenienti da tutte le parti del mondo, vogliosi di immergersi nello studio della musica da camera. Agli allievi, visto che non di sola teoria si vive, di lì a poco sarà offerta pure la chance di esibirsi davanti al pubblico, durante i fine settimana, in ensemble estemporanei capitanati dai maestri. La Marlboro School of Music e il Marlboro Festival, dunque, sorgono l’uno come esito quasi naturale dell’altra. Del corpo docente faranno parte anche Van Cliburn e Dallapiccola, tanto per dare la misura del progetto. Adolf Busch morirà poco dopo aver visto nascere la sua creatura, ma presto in un ruolo trainante si calerà  Pablo “Pau” Casals; livelli siderali, come si vede. La formula del festival prevede che dall’inventario corposo di brani presi a oggetto di studio (settanta o ottanta per ogni edizione), quelli da suonare in concerto vengano scelti nel corso delle prove, per affinità tra le parti o suggestione del momento. Della risoluzione, il pubblico è messo a parte all’ultimo istante, così che la suspense contribuisca a mantenere alta la tensione. Rispetto al rito consolidato del concerto, come si vede, è una svolta netta, sollecitata dall’esigenza di trovare un nuovo rapporto con l’ascoltatore oltre che stimoli efficaci. Esigenza attualissima, per altro. A quell’iniziativa made in USA un fitto stuolo di giovani musicisti italiani, quasi tutti già in carriera, cominciò a rivolgere attenzione sempre meno casuale e via via più proficua a partire dagli anni Sessanta. A incuriosirli fu la natura di un esperimento che sembrava assecondare la sana ansia di trasformazione (non solo culturale) proclamata dal decennio in corso. Così, molti di quei solisti emergenti avrebbero contribuito, nel volgere di qualche stagione, a esportare e rendere fruibile in Italia – con contorni diversi rispetto al modello americano, ma sull’onda del medesimo entusiasmo da pionieri – l’invenzione brevettata con successo dalla premiata ditta Serkin-Busch. Con il Marlboro Festival più di un interprete nostrano avrebbe acquisito rapidamente dimestichezza; primo in ordine di tempo, Bruno Giuranna, che in Vermont debuttò nell’estate del 1973, seguito da Bruno Canino, Rocco Filippini, infine da Salvatore Accardo, che più degli altri colleghi e amici avrebbe messo a frutto tanta contagiosa curiosità fino a trasformarla in energia creativa. Ed è appunto ispirandosi al format di Marlboro ‒ e con la complicità decisiva di Gianni Eminente ‒che Accardo negli anni Settanta immagina e poi fonda la “Settimana Internazionale di Musica d’Insieme” che per certi versi (e per certi nomi) sembra la ‘traduzione italiana’ del Festival nato negli States, salvo acquisire poi un’identità propria e specifica. Di traduzione ‘napoletana’, anzi, si può parlare, dal momento che la natura dei luoghi contribuirà in misura determinante alla fortuna della kermesse cameristica, prodotta dall’Associazione Scarlatti e in grado di operare una piccola rivoluzione nel panorama dell’offerta musicale italiana del tempo. Consacrata ai piaceri della Hausmusik, la manifestazione irrompe sulla scena napoletana come uno sprazzo di luce inatteso e rinfrancante e schiude a nuove e consistenti fasce di pubblico le porte − fino a quel momento timorosamente socchiuse − della musica classica. È passato più di mezzo secolo da allora, ma un’idea altrettanto intelligente e innovativa molti la stanno ancora aspettando. E non solo a Napoli.

Beethoven in Vermont

Potrebbe sembrare vago o pretestuoso questo ampio preambolo, se non fosse che tra i motivi che hanno spinto Maria Letizia Compatangelo a scrivere lo spettacolo “Beethoven in Vermont” (per poi firmarne la regia) ci sia anche l’interesse suscitato in lei dall’esperienza napoletana della Musica d’Insieme, riletta quasi in termini di conferma del valore universale e della modernità di una formula nata settanta e passa anni fa dalla fantasia di Serkin e soci. “Beethoven in Vermont” ribalta i canoni del concerto classico perché se è vero che, nel pullulare di guide creative all’ascolto e performance variamente contaminate, fa ormai poco scalpore la commistione di parola recitata e musica, è innegabile che qui siamo di fronte a un prodotto diverso e più originale. I musicisti, tanto per cominciare, si fanno attori; oppure è il contrario, ma il risultato finale comunque non cambia. La musica, da parte sua, rinuncia ad essere colonna sonora, o a proporsi come sbocco narrativo obbligato, per diventare invece sostanza stessa della vicenda teatrale, materia prima del racconto. La musica, insomma, stavolta non accompagna l’azione o il pensiero: è azione ed è pensiero essa stessa, senza mediazioni.  “Beethoven in Vermont” ripercorre gli eventi, i tormenti e gli impulsi felici che segnarono l’inaugurazione del Marlboro Festival, un gesto di ricostruzione culturale in uno scenario segnato ancora pesantemente dal secondo conflitto mondiale. Tra discussioni e riflessioni inevitabilmente figlie del momento storico che le accoglie, i tre protagonisti del racconto −  Serkin e i due Busch −  si ritrovano a dover operare una scelta: quella del brano che simbolicamente sveli a tutti il senso del festival e di un progetto. Non una pagina qualsiasi, dunque, ma uno squillo che sia dichiarazione di intenti, manifesto programmatico, oltre che capolavoro musicale e, infine, espressione pertinente delle emozioni di ognuno di loro. Chiamati a decidere, Serkin e i fratelli Busch rivolgeranno lo sguardo alla vecchia Europa distrutta dalla guerra; guarderanno a Beethoven, un genio nato in Germania, a costo di risultare impopolari. Decideranno di inaugurare il Festival, cioè, con il Trio op. 97 “Arciduca”; non certo per sfida, no, ma per offrire al mondo un’immagine-sintesi della loro unione artistica, dei loro princìpi musicali, forse anche dei loro percorsi di vita. Oltre la perfezione delle forme, Beethoven si ritrova allora eletto a simbolo di dialogo e fratellanza tra i popoli, testimone sontuoso di un nuovo modo di fare musica in libertà e in pace; ed è un modo coraggioso, quasi straniante in mezzo alle macerie che ancora fumano di morte. Da quel dialogo assiduo tra le parti – maestri e allievi −  e da quella comunione costruttiva di intenti avrebbe tratto spinta il Marlboro Festival, innervato dal confronto vitale tra generazioni diverse con stimoli culturali di varia provenienza. Nella quiete del Vermont, lontano da luoghi istituzionali come accademie o conservatori, si attenuano per la prima volta le distanze tra docenti e discenti, pronti a vivere cinque settimane di intenso lavoro e collaborazione fianco a fianco, studiando, facendo prove e decidendo insieme i programmi dei concerti. La musica da camera diventa, così, metafora di una condivisione di intenti che include la tolleranza e coinvolge persino il pubblico, protagonista e non più comprimario di un avvincente racconto corale. A Marlboro come a Napoli. Il giorno 8 luglio del 1951, alle cinque del pomeriggio, il Festival di Marlboro si annuncia al mondo con l’esecuzione dell’opera 97, “Arciduca”: l’ultimo trio di Beethoven, una sorta di ponte verso i suoi capolavori estremi. In pedana, naturalmente, Adolf Busch, Hermann Busch e Rudolf Serkin. Venti anni dovranno passare per veder nascere la Musica d’Insieme, a Napoli, sulle note del Sestetto di Mendelssohn op. 110, eseguito da Salvatore Accardo, Alain Meunier, Franco Petracchi, Christian Ivaldi, Luigi Alberto Bianchi e Umberto Spiga. La data, il 13 giugno del 1971. Il luogo, quello in cui ci ritroviamo oggi: il Teatro Sannazaro. E il cerchio adesso è chiuso.

La voce dei protagonisti

«Volevamo metterci in gioco in una veste inedita – spiegano Francesco e Angelo Pepicelli (fratelli nella vita, ma non nella storia) – e provare contemporaneamente a confezionare qualcosa che risultasse sorprendente per il pubblico, persino correndo il rischio di minare la solidità del rito standard del concerto. Un artista è sempre alla ricerca dell’anello che lo congiunga allo spettatore, del canale diretto di comunicazione che serva a vincere timori e diffidenze in chi ascolta. Che crei la sana curiosità di cui spesso, oggi, si sente la mancanza. “Beethoven in Vermont” celebra la musica quale antidoto al conflitto, dunque strumento di pace destinato a favorire l’unione, cercando e trovando nuovi punti di relazione e di equilibrio con gli altri. Della musica c’è bisogno».

Il Trio “Arciduca”

“Ultimato nel marzo 1811, il Trio in Si bemolle Maggiore op. 97 fu eseguito – citiamo Arrigo Quattrocchi −  per la prima volta nel 1814, con lo stesso Beethoven al pianoforte, in un tragico concerto in cui, secondo la testimonianza di Louis Spohr, «nei passaggi in forte il povero sordo picchiava sui tasti finché le corde emettevano suoni stridenti, mentre nei passaggi in piano suonava così delicatamente da omettere interi gruppi di note, tanto che la musica risultava non intellegibile». La pubblicazione avvenne solo nel 1816, presso l’editore Steiner, con la dedica all’Arciduca Rodolfo d’Austria; tale dedica, oltre ad aver fornito alla composizione l’epiteto di “Trio dell’Arciduca”, è significativa della considerazione in cui l’autore teneva il brano. Infatti all’Arciduca Rodolfo, fratello cadetto dell’Imperatore Francesco I, allievo dal 1803 e poi protettore di Beethoven, il musicista dedicò solo opere di sicuro rilievo, fra cui il Quarto e il Quinto Concerto per pianoforte, la Sonata op. 106 e la Missa Solemnis”.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti 

 

 

 

 

 

Concerto 2 novembre

ALEXANDER ROMANOVSKY, pianoforte

Fryderyk Chopin – Waltz in la bemolle maggiore op. 34 n.1, in la minore op. 34 n.2; Scherzo n. 2 in si bemolle minore op. 31; Polonaise in la bemolle op. 53;

Sergej Rachmaninov – 3 Preludi op. 23 (2,3,5);

Felix Mendelsshohn/ Sergej Rachmaninov – Scherzo da Sogno di una notte di mezza estate;

Sergej Rachmaninov – Lilacs op. 21 n. 5; Vocalise op. 34. n. 14 Sonata n. 2 in si bemolle minore op. 36.

 

Note di sala

di *Gianluca D’ Agostino

 

Fryderyk ChopinValzer op. 34 n° 1 in la bemolle maggiore; n° 2 in la minore; Scherzo op. 31 n. 2 in si bemolle minore; Polonaise op. 53 in la bemolle.

Partito nel 1830 da Varsavia alla conquista del mondo, Chopin dopo Vienna giunse a Parigi, capitale del concertismo internazionale e meta ambita (con Londra) per ogni musicista. Qui fiutò l’aria dei tempi nuovi, aria non tanto impregnata di Bach o Beethoven (classici insuperabili che Chopin comunque continuò a studiare tutta la vita), quanto piuttosto di Rossini, Bellini, Meyerbeer e degli esponenti dello stile cosiddetto “Biedermeier”, i vari Moscheles, Hummel, Kalkbrenner, la cui tecnica era ammirata dalle platee europee dei borghesi e dei nuovi ricchi (i banchieri ebrei Rothschild, per esempio), a misura che la loro musica veniva immessa sul mercato e divulgata in pubblico. Invero, però, la modesta espressività di queste opere non poteva blandire il genio del musicista polacco; e d’altronde il suo intenso, ma sempre trattenuto nazionalismo non restava immune al clima di sommovimenti socio-politici, sotto i cui colpi la restaurazione vacillava. E poi c’era, naturalmente, il problema specifico della Polonia, occupata e spartita tra le grandi potenze. In quel momento, tuttavia, ciò che stava più a cuore al giovane Chopin era il tema del rinnovamento del linguaggio musicale e della stessa tecnica pianistica, e in ciò, o almeno anche in ciò, egli decise di fare la sua propria rivoluzione. Sulla scia di quanto asserito da Schubert circa il “maledetto martellamento dei pianisti”, anche Chopin si avviava a sviluppare una concezione rivolta non alla ricerca della potenza o della brillantezza sonora, ma della varietà timbrica; e questo viaggio, in effetti verso l’ignoto, aveva come oggetto nientemeno che una nuova invenzione del suono.

In senso tecnico, Chopin superò l’attacco classico del tasto – polso leggermente basso, dito ricurvo, estensione incentrata sul metacarpo, percussione in direzione verticale – e ne sviluppò un altro tipo, con polso alto, dito più allungato, flessione incentrata sulla prima falange, percussione in senso circolare al tasto. Inoltre elaborò il famoso tocco “cantabile”, con trasferimento del peso del braccio da un tasto all’altro, e  così ottenne che le sue stupende melodie apparissero “fiorite e sciolte”, più o meno al modo di quelle cantate dai celebri divi del teatro. In questo senso è lecito confrontare le melodie belliniane con quelle chopiniane. Parallelamente, con l’uso dei pedali egli otteneva effetti di sfumature stupefacenti per il tempo e anche molto stimolanti dal punto di vista ingegneristico, ossia per gli stessi costruttori dello strumento, come i vari Erard, Pleyel, ecc.

Nella capitale francese Chopin sedusse il pubblico, sia con brani di ampie proporzioni e complessità, come le Sonate, sia con pezzi didattici come gli Studi, sia con tanti altri pezzi vivaci e dagli intenti decorativi, come i Valzer; a ciò affiancando composizioni che ambivano ad essere più rivoluzionarie in senso anche formale, tra cui appunto i quattro Scherzi. Con i Valzer, invece, egli intendeva aderire alla moda dei ballabili da salotto, senza tuttavia rinunciare a raggiungere una tensione espressiva più elevata. Quelli dell’op. 34, conosciuti come “Valzer brillanti”, furono composti in un arco di tempo ampio, tra il 1831 e il 1838, in luoghi diversi e con differenti dediche. Qui, beninteso, la ballabilità è soltanto un pretesto, e infatti per Schumann, che peraltro non sempre fu tenero con il collega polacco, ma che sempre ne riconobbe il genio, si trattava di brani “più per le anime che per i corpi”.

Mentre il primo, in la bemolle maggiore, ha forma di rondò, il secondo, in la minore, è un brano espressivo, e potrebbe essere definito una dumka in ritmo di valzer (dumka in polacco significa pensiero, meditazione). Caratteristica del primo, dopo un preambolo molto convenzionale, è l’arguta distribuzione melodica, il che poi è una cifra distintiva dei migliori compositori romantici: all’inciso ritmico, quella sorta di mordente capriccioso con cui la mano destra attacca la brillante sequenza di scale, corrisponde l’accompagnamento del basso, ma qui appunto avviene anche la dislocazione della melodia, la quale, se si ascolta bene, parrebbe essere (e forse era) una canzoncina infantile o popolare. Qui c’è già molto di Chopin, e forse poco altro ci sarebbe da aggiungere, se non che con l’altro e più bel Valzer, quello in la minore, si viene proiettati in tutt’altro mondo espressivo: fin dall’incipit, con quella bella inversione delle parti (melodia al grave, accompagnamento all’acuto), e poi dall’attacco di quella melodia così dolente, cromatica e angolosa, accompagnata in controtempo. E’ un universo certamente molto “polacco”, dolente, malinconico, in cui non solo le continue modulazioni (degne di uno Schubert) ma persino i mordenti e le acciaccature, sembrano “molcere il cuore”.

Lo Scherzo op. 31 n. 2 in si bemolle minore è un brano eroico che probabilmente veniva percepito anche in un senso patriottico; qualcosa di decisamente teatrale, nel senso che i temi agiscono musicalmente come fossero personaggi da palcoscenico: così fin dall’inizio, con le terzine gravi ascendenti che sembrano porre una domanda, e gli accordi forti e squillanti, puntati, che rispondono in modo perentorio. Poi la sequenza seguente, con la sua ripetizione un po’ scolastica (il pezzo non a caso è tra quelli più assegnati dai didatti ai propri allievi), si rivela essere un paradigma dello stile romantico: melodia puntata nel registro sopracuto su rapido accompagnamento di arpeggi pedalizzati, in un tempo molto rapido e soprattutto incalzante. Qui però stupefacente è il contrasto con la sezione ancora successiva, iniziata con una modernissima transizione accordale al modo maggiore, e proseguita da quella sorta di “valzerino triste” con l’inciso ritmico ostinato al registro medio, e poi con il lungo passaggio brillante, eseguito mentre il basso “passeggia” quasi in modo settecentesco, nelle regioni gravi della tastiera. Tutto meravigliosamente collegato e interconnesso.

Polacche e Mazurche appartengono alla sfera dello “spirito musicale popolare”, e probabilmente Chopin annetté ad alcune di esse, tra le tante che compose, una valenza anche più scopertamente nazionalistica. La Polonaise “eroica” in la bem. maggiore op. 53 è, oltre che uno dei brani più famosi dell’intera letteratura pianistica, quello che forse meglio esprime il suo coté potente, epico, eroicamente polacco. Risale all’agosto del ‘42 ed è gustoso l’aneddoto sulla sua creazione, secondo cui l’autore fu preso da un lavoro così intenso e febbrile da costringere George Sand, la sua famosa musa ispiratrice e soprattutto protettrice, a spostarsi per dormire su un divano in un’altra stanza, per non disturbare il genio, ma anche per non essere lei stessa ossessionata da quel mare di suoni. Pare che a Chopin riuscisse alquanto difficile fissare sulla carta pentagrammata, nella misura esattamente inversa alla facilità con cui improvvisava liberamente allo strumento.

Ne ricordiamo l’inconfondibile carattere dell’introduzione, con le energiche crome ascendenti ad ambo le mani, e soprattutto il famoso tema in mi maggiore, icastico alla mano destra e marziale alla sinistra, presto ripetuto all’ottava con brevi trilli e poi con una serie di progressioni di accordi: tutto qui è all’insegna del trionfale, senza che mai l’esecuzione debba scadere nel pomposo, nel precipitoso o, men che mai, nel fracasso.

 

Sergej V. RachmaninovTre Preludi dai Dieci Preludi op. 23: n°2, n°3, n°5

La carriera di Rachmaninov (1873-1943) si suole dividere in due grandi periodi: dal 1892 al 1917 è il periodo russo, in cui egli fu principalmente compositore e nel contempo direttore d’orchestra e pianista; poi, dopo la Rivoluzione del 1917, che lo indusse alla fuga e all’espatrio, lui essendo per formazione e convinzioni profondamente antibolscevico, ci fu il periodo americano, in cui Rachmaninov scelse di costruirsi una nuova carriera di pianista-interprete, divenendo uno dei massimi rappresentanti in questo genere e forse il più grande di tutti, continuando in modo saltuario l’attività compositiva e direttoriale. Egli nasce quindi compositore e poi diventa anche grande pianista; e quando diciamo pianista-compositore, dobbiamo necessariamente aggiungere anche “russo”, poiché al periodo di formazione, svolta prima nel Conservatorio di San Pietroburgo e poi in quello di Mosca, vanno probabilmente ascritte le sue esperienze musicali più significative.

I Dieci Preludi op.23 furono composti intorno al 1901-1903 e si immettono, almeno idealmente, nella falsariga dei preludi del Clavicembalo ben temperato e di quelli chopiniani. Sono tutti in forma ternaria e la loro caratteristica, al di là degli aspetti di mera tecnica pianistica, peraltro salienti, e del diverso tasso di difficoltà, è di essere intrisi, se non proprio di reminiscenze tematiche, quantomeno di “spirito russo”. Anch’essi, del resto, rivelano quanto il loro artefice tenesse e si impegnasse nello scoprire ogni minima potenzialità rimasta ancora inespressa nel pianoforte moderno, così come Liszt e Chopin avevano fatto per il pianoforte romantico.

Preludio n. 2 Maestoso in si bemolle maggiore

E’ un pezzo molto brillante e virtuosistico, giocato sulla contrapposizione tra un’ampia figurazione arpeggiata e una melodia accordale alquanto stentorea.

Preludio n. 3 Tempo di minuetto in re minore 

L’inizio parrebbe un po’ lisztiano, con l’atmosfera tenebrosa conveniente alla tonalità e la rapinosa discesa delle semicrome al basso, poi però la scrittura diventa più decisamente polifonica.

Preludio n. 5 A la marcia in sol minore

Nella prima ed ultima sezione di questo celebre preludio risuonano la cellula ritmica marziale al basso e gli accordi fitti e ribattuti, nonché il loro crescendo dinamico pieno di energia; nella parte centrale invece (Poco meno mosso) si ode una melodia enigmatica e vagamente folklorica.

 

Felix Mendelssohn/Sergej Rachmaninov – Scherzo da “Sogno di una notte di mezza estate”

Nel 1888, un giovanissimo e già baldanzoso Rachmaninov, ancora studente a Mosca, trascriveva per pianoforte lo Scherzo-Allegro vivace dal Sogno di una notte di mezza estate (Ein Sommernachstraum) di Mendelssohn, ossia il secondo brano tratto dalla fantasmagorica musica da scena che il tedesco aveva composto, sull’omonima commedia shakespeariana, nel 1826. Com’è ovvio, il pezzo perde il confronto con l’originale, nella misura in cui necessariamente rinuncia alla tavolozza dei colori e dei timbri orchestrali; perde ancor più, se eseguito in modo frenetico, come faceva ad esempio il bravissimo Charles Rosen, che pure ne era competentissimo esegeta, forse volendo imitare il modo del primo Glenn Gould alle prese con il Clavicembalo ben temperato. Invece ne guadagna, se eseguito alla giusta velocità, quando si noti la bellissima e ingegnosa trama polifonica che lo informa e che qui Rachmaninov inspessisce addirittura rispetto all’originale, ricorrendo ad una scrittura che felicemente sovrappone la polifonia bachiana allo “spirito da folletti leggiadri” mendelssohniano.

 

Sergej Rachmaninov

Lilacs op.21, n. 5

Scritta nel 1902 come parte di una raccolta di Dodici Romanze per voce e pianoforte, è un pezzo lirico, delicato e struggente, dotato di una breve seconda parte appena più mossa.

Vocalise op.34 n. 14

Anche questa fa parte di una raccolta di romanze, e precisamente delle 14 Romanze per voce e pianoforte op.34, scritte nel 1912-15. E’ un brano molto lirico e più lungo del precedente, con una nobilissima melodia dal taglio decisamente moderno e impressionistico. Anche qui c’è una seconda sezione più dinamica, che è piuttosto uno sviluppo tematico della precedente.

Sonata in si bemolle minore op. 36 n. 2

Scritta sempre in quel giro di anni, e precisamente nel 1913, ma poi revisionata nel 1931, la Sonata è considerata opera tipica del Rachmaninov maturo, soprattutto per la ricchezza sonora e la foga virtuosistica. E’ divisa in tre movimenti.

L’ “Allegro agitato” si apre con un folgorante arpeggio discendente, cui fa seguito una melodia che all’inizio a stento si ode tra il martellare sfrenato degli accordi, le ottave ribattute, le volate lungo tutta la tastiera, le improvvise accensioni ritmiche; essa comunque afferma, ad un tratto, il suo proprio carattere, che sta tra l’epico ed il malinconico, e che può riassumersi, in sostanza, nell’alternanza tra un intervallo discendente di terza minore ed uno di terza maggiore: è la cifra ribadita infinite volte nel movimento, attraverso vari sviluppi che paiono concepiti in stile improvvisativo.

Il secondo movimento (“Non Allegro”) ha inizialmente un andamento molto calmo, aprendosi con una melodia assai malinconica che nella fisionomia rassomiglia a quella del Vocalise, e che viene trasportata in vari toni. A ciò segue un episodio decisamente più mosso e dall’andamento rapsodico, e poi una coda brillantissima, che tuttavia si spegne in piano e in tonalità maggiore.

Il finale, Allegro molto, sembra un po’ una forma a specchio del primo movimento, fin dal modo in cui si apre, con quella movenza plateale e la scala di folgorante velocità; ma con la differenza che anche il seguito offre all’interprete occasioni plurime di sfoggiare la propria foga virtuosistica.

 

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