Associazione Alessandro Scarlatti
FacebookInstagramYoutube
Email
Apri menu
Post in evidenza

Giovedì 31 marzo 2022 – Andrea Lucchesini e Giovanni Bietti

Un concerto all’insegna dell’incontro tra musica e divulgazione musicale con la presenza di un grande pianista italiano come Andrea Lucchesini e un ormai famoso “narratore” dei fatti musicali come Giovanni Bietti. Il tema è un excursus nella “forma sonata” e condensa un secolo di musica pianistica accostando, in un percorso che si svolge a ritroso nel tempo, la sonata di Liszt e uno dei capolavori del Beethoven della maturità, l’op. 109.

biglietteria

Concerto 23 marzo

Giovedì 23 marzo 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
QUARTETTO ADORNO
SANDRO DE PALMA, pianoforte

Camille Saint-Saëns (1835 – 1921)
Quintetto in la minore op. 14
***
César Franck (1822 – 1890)
Quintetto in fa minore

Note di sala
di Gianluca D’Agostino*

È stato notato che nel repertorio cameristico il genere del quintetto per pianoforte e archi non è molto rappresentato e che in ogni caso esso fu poco frequentato fuori dalla tradizione austro-tedesca, tradizione che in questo caso si compendia nei nomi esemplari di Schumann e Brahms.
Questi modelli, in effetti, rimasero e rimangono insuperabili dal punto di vista formale, cioè riguardo alla soluzione del “problema” di base posto dal genere, quello della dialettica intercorrente tra il quartetto d’archi, concepito come “piccola orchestra”, ed il pianoforte, pensato invece come “solista” e impegnato, essenzialmente, nello sfoggio virtuosistico e brillante.
A tali modelli e in questa prospettiva guardò, inevitabilmente, anche il francese Camille Saint-Saëns (Parigi 1853 – Algeri 1921) il quale, da parte sua, oltre ad essere un gran virtuoso della tastiera, fu anche un compositore molto versatile, fermo restando che fu essenzialmente un compositore-pianista e dunque a suo agio completo nella scrittura per tastiera, come dimostrano soprattutto i cinque Concerti per pianoforte e orchestra. Il problema del confronto-scontro con i tedeschi fu sempre una delle sue preoccupazioni, visto che il compositore si pose, o meglio di sarebbe posto come massimo alfiere della scuola nazionale locale, nonché come principale artefice (con Franck, d’Indy, Lalo, Fauré, suoi colleghi e co-fondatori della “Société Nationale de Musique”) del rinnovamento e del rilancio della cosiddetta “Ars gallica”.
Ben prima che ciò accadesse, cioè intorno ai vent’anni, il musicista aveva già composto questo suo Quintetto in La minore op. 14, intendendo l’opera appunto come occasione di sfoggio solistico sulla base di un accompagnamento di una (piccolissima) orchestra d’archi: in questo senso, proprio allo scopo di enfatizzare il ruolo degli archi, nella pubblicazione finale fu inclusa una parte opzionale di contrabasso. Significativa è anche la dedica dell’opera a Charlotte Gayard Masson, la prozia che, dalla morte del padre, era andata a vivere con Camille e con la sua mamma, e che aveva avuto il merito di avviarlo (e molto bene) allo studio serio del pianoforte: significativa perché ci apre uno spaccato sulla formazione del giovane compositore e sulla dimensione “domestica” di questa pagina.
In questo caso, tuttavia, domestica non vuol dire acerba, poiché anzi questa composizione appare curatissima e anzi impeccabile da un punto di vista formale, come subito notarono, concordemente, un po’ tutti i primi critici e recensori.
La serissima e drammatica introduzione accordale del primo movimento, Allegro moderato e maestoso, forma un motivo che ricorrerà durante tutto il suo svolgimento e che verrà ripreso anche in seguito. Dopo degli arabeschi del pianoforte e dopo una sorta di coda solistica molto brillante, la risposta affidata agli archi è più lirica e delicata e solo a quel punto si dà il via ad una pagina splendidamente strutturata, dove si evidenziano almeno tre idee tematiche ottimamente messe in contrasto tra loro. Una lunga sezione che potremmo chiamare di sviluppo è dedicata all’elaborazione tematica e più ancora al rovesciamento delle parti, nel senso, per esempio, che il memorabile tema iniziale è affidato questa volta agli archi e con la risposta del solista. La ripresa e ancor più la coda del movimento conoscono, sul finire, un’inaspettata accensione ritmica ma soprattutto armonica, che prende una piega ancor più drammatica rispetto al principio e direi quasi esasperata.
Il secondo movimento, Andante sostenuto, ha un respiro che potrebbe dirsi liturgico, più da un punto di vista armonico che melodico, conferito in generale dalle delicate note ribattute degli archi su arpeggi del pianoforte o, ancora, da certe volatine sempre degli archi, ma ancor più, appunto, dalle audaci modulazioni del brano e dalle sue inusuali digressioni armoniche.
Ma è il successivo Presto a colpire l’attenzione dell’ascoltatore, grazie in particolare al carattere di brillantissimo perpetuum mobile del pianoforte (molto lisztiano), nel quale fa capolino a un certo punto il serio motivo di apertura del Quintetto. Questo elemento ci ricorda che la ciclicità – oltre all’ordine e all’equilibrio formale di stampo quasi “neo-classici” – era un altro fondamento dell’ideale compositivo dell’autore e che in questo egli, come peraltro molti altri autori di quella generazione, fu molto debitore appunto verso Liszt.
Il finale, Allegro assai ma tranquillo, può definirsi un saggio accademico: un severo fugato che coinvolge all’inizio solo gli archi e che poi apre la via ad una nobile melodia di nuovo enunciata dagli archi e poi ripresa, e variata, dal pianoforte.
Composto tra 1878 e 1879, il Quintetto in fa minore per pianoforte e archi di César Franck (Liegi 1822 – Parigi 1890) risulta nel complesso più “concertante” e decisamente più complesso di quello di Saint-Saëns precedentemente analizzato. Esso comprende tre lunghi movimenti, con i due esterni più impetuosi, e quello centrale, di carattere molto vario e più meditativo. Alla drammatica introduzione degli archi al primo movimento, Molto moderato quasi lento, risponde il pianoforte in modo più solenne e più calmo, con prolungati arpeggi: questi due temi contrastanti formano il corpo principale del primo movimento, ma subito essi prendono a suonare simultaneamente e a fondersi l’uno nell’altro, secondo una tecnica che evidentemente doveva essere molto cara al compositore. Inoltre lo sviluppo vede un intensissimo lavorio di elaborazione tematica, con delle pause improvvise molto “a effetto” alternate ad improvvise accensioni, mentre il finale tocca livelli di alto lirismo e di pathos trascinante.
L’amplissimo secondo movimento, Lento, con molto sentimento, è probabilmente la parte più bella dell’opera, anch’essa giocata, almeno inizialmente, sulla logica del contrasto: quello derivante tra l’andamento ripetuto e monocorde del pianoforte e le brevi impennate melodiche degli archi. Ben presto, però, il gioco dialettico tra le parti aumenta e si complica, fino a dar corpo ad uno straordinario caleidoscopio di trame motiviche, di dinamiche, di sfumature armoniche, davvero complicato a descriversi, se non ricorrendo ad immagini extra-musicali, come quella delle onde del mare che continuamente di frangono e ritornano indietro. Oltretutto anche qui si riaffaccia lo stratagemma delle pause, dopo ognuna delle quali sembrano ripartire nuove digressioni tematiche che conducono lontano da dove si era partiti.
Enigmatico, al limite del pauroso, è infine l’incipit dell’ultimo movimento, Allegro non troppo, ma con fuoco, eseguito dal primo violino. Il prosieguo è all’insegna dell’alternanza tra blocchi tematici, dove comunque spicca il carattere meramente ritmico di una melodia prevalentemente condotta dagli archi, su accompagnamento pianistico, comunque sempre cangiante.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 6 aprile – Amatis piano trio

Debutto napoletano per il Amatis Trio giovane gruppo vincitore del premio New Generation Artist della BBC. Il gruppo si è subito imposto come una delle principali formazioni cameristiche della nuova generazione: dopo sole tre settimane dalla sua costituzione, avvenuta nel 2014, ha ottenuto il Premio del Pubblico alla Grachtenfestival Competition di Amsterdam. In programma il Trio di Schubert op.100, spesso utilizzato nelle colonne sonore di film, prima fra tutti Barry Lyndon di Kubrick
Biglietti

Concerto 16 marzo

Giovedì 16 marzo 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
JAN LISIECKI, pianoforte


Fryderyk Chopin (1810 – 1849)
Studio in do maggiore op. 10 n. 1
Notturno in do minore op. post.
Studio in la minore op. 10 n. 2
Notturno in mi maggiore op. 62 n. 2
Studio in mi maggiore op. 10 n. 3
Studio in do diesis minore op. 10 n. 4
Notturno in do diesis minore op. 27 n. 1
Notturno in re bemolle maggiore op. 27 n. 2
Studio in sol bemolle maggiore op. 10 n. 5
Studio in mi bemolle minore op. 10 n. 6
Notturno in mi bemolle maggiore op. 9 n. 2
Notturno in do minore op. 48 n. 1
***
Notturno in sol minore op. 15 n. 3
Studio in do maggiore op. 10 n. 7
Notturno in fa maggiore op. 15 n. 1
Studio in fa maggiore op. 10 n. 8
Studio in fa minore op. 10 n. 9
Notturno in si bemolle minore op. 9 n. 1
Studio in la bemolle maggiore op. 10 n. 10
Notturno in la bemolle maggiore op. 32 n. 2
Studio in mi bemolle maggiore op. 10 n. 11
Notturno in do diesis minore op. post.
Studio in do minore op. 10 n. 12

Note di sala
di  Pierpaolo De Martino*
Il programma interamente dedicato a Chopin proposto stasera da Jan Lisiecki ha un’articolazione inconsueta: la raccolta degli Studi op.10 viene eseguita non inanellando i dodici pezzi uno dietro l’altro in successione, ma in combinazione con undici Notturni, in modo da formare un ciclo più ampio. Muovendo dalla tonalità di do maggiore del primo Studio e giungendo fino al do minore dell’ultimo, attraverso una trama di affinità tonali (relazioni di quinta e di modo maggiore-minore) si delinea un percorso che intreccia due generi di solito considerati assai distanti fra loro ma che in realtà incarnano due aspetti contigui del modus operandi di Chopin.
Considerati oggi pilastri del pianismo professionistico, banchi di prova pressoché d’obbligo per qualsiasi candidato nei concorsi internazionali, gli Studi inizialmente non erano stati pensati da Chopin per la sala da concerto ma per sé stesso. Si dimentica troppo spesso, infatti, che la formazione pianistica di Chopin fu quella di un sostanziale autodidatta: il suo maestro Wojceck Zywny, modesto didatta-pianista-violinista, era certamente armato di una tecnica poco avanzata e i primi studi scritti dal suo allievo nel 1829 nacquero come esercizi preparatori, prendendo a esempio gli Studi op.20 di Joseph Kessler. La raccolta così come noi la conosciamo oggi, pubblicata nel 1833 e dedicata a Liszt, non ci sarebbe stata però senza la folgorazione ricevuta ascoltando Paganini a Varsavia (che negli stessi anni folgorò anche Schumann e Liszt) e senza il viaggio che condusse Chopin a Parigi nell’autunno del 1831. La capitale francese a quel tempo pullulava di pianisti-compositori in lizza fra loro – Kalkbrenner, Herz, Pixis, Dreyschock, Hiller, Liszt e Thalberg – tutti orientati verso un nuovo virtuosismo funambolico. Alcuni di loro si erano già messi in evidenza come autori di Studi da concerto, benché nessuno, a parte di Liszt, fosse stato capace di elaborare una tecnica innovativa che potesse stare al pari con quella elaborata dal semisconosciuto ventenne polacco, il quale peraltro, non amava particolarmente le esibizioni concertistiche e preferiva farsi ascoltare nelle dimensioni più intime dei salotti privati.
Le clamorose novità degli Studi op.10 (e dei successivi Studi dell’op.25) derivarono in parte dalle caratteristiche delle mani di Chopin: mani “da serpente” secondo Stephen Heller – non grandi, ma affusolate ed estremamente flessibili, con un pollice molto distanziato dalle altre dita – che lo spinsero verso la sperimentazione di un’ampia gamma di tecniche del tocco: dalla rotazione del polso all’uso sistematico del pollice sui tasti neri; dalla posizione bassa rispetto alla tastiera all’attacco del tasto con polso alto e dita allungate; dall’uso del dito medio come perno negli spostamenti laterali alle diteggiature di sostituzione. Tecniche tanto inusuali ed eterodosse da indurre l’autorevole critico Ludwig Rellstab a dichiarare velenosamente che con quegli strani studi chi aveva le dita storte se le sarebbe raddrizzate, ma chi le aveva dritte avrebbe fatto bene a lasciarli perdere, a meno che non avesse a portata di mano un paio di chirurghi. La verità è che gli Studi chopiniani tendevano a oltrepassare del tutto la dimensione “meccanica” degli analoghi lavori scritti dai tanti acrobati della tastiera attivi nella Parigi degli anni Trenta. Chopin avrebbe scritto poi: «per la borghesia ci vuole sempre qualcosa di straordinario e di meccanico che io non posseggo»; e in effetti l’essenza profonda del suo virtuosismo era di una natura del tutto particolare, mossa com’era dall’attitudine a sperimentare sonorità e soluzioni timbriche inedite.
In quest’ottica gli Studi appariranno dunque non molto dissimili dai Notturni, che richiedono un’arte del tocco estremamente sofisticata. Chopin a questi ultimi si dedicò fin dal 1827 sotto l’influsso di John Field, pianista-compositore irlandese allievo di Clementi, che aveva guadagnato larga notorietà europea proprio grazie ai suoi Nocturnes, inizialmente intitolati Romances. Denominazione quest’ultima che lasciava intendere manifestamente i legami con la musica vocale di brani fondati su melodie cantabili, con accompagnamenti arpeggiati e regolari e con articolazioni formali semplici legate alla forma di canzone ABA. L’impronta di Field si coglie con evidenza nelle melodie di tipo vocalistico e nelle formule di accompagnamento affidate alla mano sinistra che ritroviamo nel Notturno op. postuma in do diesis minore, che Chopin dedicò alla sorella maggiore Ludwika nel 1830, così come nei Notturni op.9 n.1 e n.2, pubblicati nel 1832. Ma già in queste prime prove la gamma armonica impiegata da Chopin appariva di gran lunga più varia di quella del modello, superato anche nell’opulenza dell’ornamentazione che guardava allo stile esecutivo dei grandi cantanti italiani dell’epoca, Giuditta Pasta, Maria Malibran, Giovan Battista Rubini.
Nei Notturni seguenti la ricerca chopiniana, pur senza alterare mai del tutto i connotati fondamentali del genere, ne ampliò enormemente le potenzialità allontanandosi dai tratti belcantistici e sperimentando forme sempre più sofisticate di cantabilità puramente pianistica, non escludente il ricorso a un liberissimo contrappunto. L’inventiva di Chopin incise anche sul piano formale, adottando strutture come quella del rondò – nel Notturno in re bemolle maggiore op.27 n.2 – o introducendo varianti nel tradizionale schema ABA, come accade nei Notturni op.15 n.1, op.27 n.1, op.32 n.2 nei quali anziché tre sezioni placidamente consequenziali, sia ha una forte intensificazione emotiva nella parte centrale, del tutto contrastante con quanto precede e segue. Né Chopin mancò di ricorrere a soluzioni più sofisticate come nel sorprendente Notturno op.15 n.3, (1833) mai divenuto popolare, dove le sezioni sono solamente due: un “Lento” languido e rubato che cede il passo a un “religioso” “sotto voce”; o come nel Notturno op.48 n.1 (1841) la cui sezione centrale, costituita da un intenso corale, attraverso una progressiva crescita di energia sonora, con eclatanti passi di doppie ottave, sfocia in una ripresa grandiosamente trasfigurata. La tinta maestosa e potente del finale di questo Notturno costituisce un picco drammatico memorabile che contrasta vivamente con la tendenza alla rarefazione presente negli omonimi lavori successivi e pienamente percepibile nella purezza crepuscolare del Notturno op.62 n.2, dato alle stampe nel 1846, tre anni prima della morte; l’ ultima fra le tante, diversissime, gradazioni espressive che Chopin fu capace di esplorare nel caleidoscopico percorso dei suoi Notturni.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 23 Marzo Quartetto Adorno

Un incontro fra generazioni per questo concerto affidato al giovane ma già affermatissimo Quartetto Adorno, sul palco con il pianista Sandro De Palma, eclettico esponente della scuola musicale napoletana di Vincenzo Vitale. Un omaggio a Camille Saint-Saëns, nel centenario della morte del celebre compositore francese, che mise il proprio virtuosismo di pianista al servizio dei più ambiziosi brani del suo tempo, come il celebre Quintetto di César Franck che ascolteremo nella seconda parte.
Biglietti

Concerto 23 febbraio

Giovedì 23 febbraio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
QUINTETTO BARTHOLDY
Anke Dill e Ulf Schneider, violino
Barbara Westphal, viola
Volker Jacobsen, viola
Gustav Rivinius violoncello


Alexander Zemlinsky (1871 – 1942)
Due movimenti per quintetto in re minore

Wolfgang Amadeus Mozart (1756 – 1791)
Quintetto in si bemolle maggiore K. 174

Johannes Brahms (1833-1897)
Quintetto in sol maggiore op. 111


Note di sala
di Massimo Loiacono*

Alexander von Zemlinsky (Vienna 1871- Larchmont, N.Y. 1942) è compositore poco noto alla maggior parte del pubblico dei concerti e del teatro d’opera, vieppiù. Per tanti anni nelle storie/cronache della musica era ricordato (dettaglio di cronaca inutile e/o fuorviante, pure se veritiero) quale congiunto di Schoenberg: ne derivava il timore di ascoltarne pagine dissonanti, ermetiche etc.. Ed invece con turgido ed avvincente cromatismo, sensuale o tragico, con esiti anche espressionistici, Zemlinsky era/è compositore più vicino a Chausson, di recente ascoltato in questa stagione, a Franck magari (opera dello Zeitgeist, verosimilmente, con Wagner sullo sfondo). Dagli anni Settanta del passato secolo, con interesse dapprima crescente poi calante, le case discografiche ed interpreti autorevoli e qualche teatro d’opera ne hanno riproposto le suggestive partiture. Anche al San Carlo qualche anno fa , pure se in forma di concerto ne è stata proposta un’opera lirica. Cresciuto con formazione classicistica, nel mondo artistico che si ispirava a Brahms, operoso e stimato direttore d’orchestra nei teatri di Vienna, anche per un breve periodo all’Opera Imperiale, durante la presenza di Mahler al vertice di quel teatro, poi in Germania, Boemia etc.., fu costretto ad emigrare negli U.S.A. Di lui restano pochi titoli ufficiali e molti pezzi cameristici in forma anche di frammento, composti negli anni Ottanta e Novanta del secolo XIX. Sono oggetto di progressivo studio e recupero alla vita concertistica. Tra essi va annoverato il dittico da quintetti proposto in questa locandina. Ovviamente si spera che da questi frammenti balzi fuori una musica bella come quella contenuta nel frammento “movimento letto di quartetto” di Webern, scoperta da tutti negli anni Settanta del passato secolo e proposta più volte nei concerti della Scarlatti.
Il primo dei quintetti per archi di Mozart K 174 (1773), scritto molti anni prima delle opere grandissime che musicista affiderà a questa formazione diventata un genere, è da gustare nel suo ampio e festoso respiro, godendone l’aspetto dotto, il brio e la tenerezza della serenata, le invenzioni strumentali proprie della serenata (il dialogo tra gli strumenti), l’ambizione sinfonica sottesa al finale. E’ documentato che Mozart abbia realizzato due stesure del lavoro, e ne restano le prove per i due movimenti conclusivi. Ispirandosi ad insoliti, per l’epoca sperimentali, quintetti di Michael Haydn, appena composti. Mozart nel 1773, di ritorno da viaggi culturalmente importanti ma poco soddisfacenti dal punto di vista lavorativo, suggestionato da significative esperienze che si univano alle novità musicali prodotte dall’amico di famiglia Michael Haydn, si cimentò con questa formazione/genere. Risultato: una composizione festosa come tutte quelle scritte allora a Salisburgo, che per lui pure era una sorta di “natio borgo selvaggio”. Ricchissimo di temi il movimento di apertura, ma di tanto tripudio di fantasia Mozart poco si giova, limitando l’uso a pochi ”personaggi”; il secondo movimento ripropone la magia delle serenate per archi, ed il terzo il garbo incipriato delle danze d’epoca. Il quarto movimento, quello più vistosamente rifatto, rivela un’elaborazione formale complessa insolita per Mozart, soprattutto in gioventù, e diventa il fulcro del lavoro.

Il concerto si conclude con il bellissimo Quintetto n.2 op. 111 di Brahms. Con il precedente lavoro di Brahms per quest’organico/formazione e con il quintetto di Bruckner di poco precedente (lavoro di rarissima esecuzione presentato qualche volta anche dalla “Scarlatti”), si conclude la storia breve del quintetto per archi nella cultura austro-tedesca, per mancanza di altri capolavori. I quintetti di Boccherini sono un cosmo felice a sé stante. Da Michael Haydn, al suo fratello famoso autore di un solo quintetto, ai compositori appena citati, passando per i capolavori della maturità di Mozart, per un lavoro poco significativo di Beethoven, per un quintetto di Schubert sublime, ma con organico appena diverso, questi quintetti mantengono il difficilissimo equilibrio tra accademia dotta, propria dei quartetti, quelli di Beethoven esclusi, ed il gusto per il divertimento fantasioso. Nei quattro movimenti dell’op.111 di Brahms è sottinteso un elemento esotico (secondo il principe di Metternich, “l’Oriente inizia(va) alla Landstrasse”, quella che va a tutt’oggi in Ungheria), slavo, o magiaro che si percepisce a tratti, ora nel disegno ritmico ora melodico, mirabilmente intessuto nel resto del discorso musicale. Il primo movimento con due temi ben sbalzati avvince per uno slancio eroico inconsueto nelle ultime composizioni di Brahms: è l’effetto del primo tema, secondo molti studiosi progettato per una irrealizzata sinfonia n.5, ed è bello l’intreccio delle voci dei singoli strumenti. Nel secondo movimento, un tema con variazioni, l’ultima variazione è anche una coda, con uso lieve ed un poco trasgressivo delle buone maniere curiali; il terzo movimento è di fatto un intermezzo che partecipa del mondo poetico della pagina che lo precede. Il fascino del movimento finale è l’andamento rapsodico, con densa scrittura che può fare pensare ai posteri, Zemlinsky, ai contemporanei Franck e Chausson. E perfino a taluni momenti del quintetto con clarinetto, op.115 in cui culmina tutta la produzione di Brahms, evocandosi perfino la magica serena n.2, del tempo che fu.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 16 marzo – Lisiecki

Giovedì 16 marzo 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
JAN LISIECKI, pianoforte
Fryderyk Chopin – Studio in do maggiore op. 10 n. 1 ; Notturno in do minore op. post.; Studio in la minore op. 10 n. 2; Notturno in mi maggiore op. 62 n. 2; Studio in mi maggiore op. 10 n. 3; Studio in do diesis minore op. 10 n. 4; Notturno in do diesis minore op. 27 n. 1; Notturno in re bemolle maggiore op. 27 n. 2; Studio in sol bemolle maggiore op. 10 n. 5; Studio in mi bemolle minore op.10 n. 6; Notturno in mi bemolle maggiore op. 9 n. 2; Notturno in do minore op. 48 n. 1; Notturno in sol minore op. 15 n. 3; Studio in do maggiore op. 10 n. 7; Notturno in fa maggiore op. 15 n. 1; Studio in fa maggiore op. 10 n. 8; Studio in fa minore op. 10 n. 9; Notturno in si bemolle minoreop. 9 n. 1; Studio in la bemolle maggiore op. 10 n. 10; Notturno in la bemolle maggiore op. 32 n. 2; Studio in mi bemolle maggiore op. 10 n. 11; Notturno in do diesis minore op. post.; Studio in do minore op. 10 n. 12

A soli diciotto anni Jan Lisiecki è stato il più giovane artista della storia a ricevere un Gramophone “Young Artist” Award. Definito “cristallino, lirico e intelligente” dal New York Times e “Un pianista di inusuale raffinatezza e immaginazione” dal Boston Globe, a soli ventisette anni il pianista canadese si esibisce in oltre cento concerti all’anno in tutto il mondo
Biglietti

Concerto 16 febbraio


Giovedì 16 febbraio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
TRIO JEAN PAUL
Ulf Schneider, violino
Martin Löhr, violoncello
Eckart Heiligers, pianoforte

Integrale dei Trii di Robert Schumann, Felix Mendelssohn e Johannes Brahms (I concerto)

Robert Schumann (1810 – 1856)
Trio in fa maggiore op.80

Johannes Brahms (1833-1897)
Trio in do minore op. 101

Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809 – 1847)
Trio in do minore op. 66

Note di sala
di Simone Ciolfi*

Trii ed eroici furori
La cultura romantica si trovò a dovere bilanciare l’aspirazione a considerare la musica un linguaggio filosofico e cosmopolita, con la tendenza a riscoprire lo spirito dei singoli popoli, generalmente legata alle tradizioni nazionali. Negli ultimi anni della sua vita, Robert Schumann visse con sempre maggiore tensione l’aspirazione cosmopolita che si ricollegava al classicismo viennese con quella nazionalistica legata alla tradizione tedesca. Per cui, in opere come il Trio n. 2 op. 80 si respira la volontà di gestire il tessuto musicale con mezzi ormai identificati in toto con la cultura tedesca, come il contrappunto, tentando, però, di dare al tutto il tono dell’universalismo beethoveniano. Ne risultò la rinuncia a quell’estro giovanile che caratterizzava le opere degli anni Trenta dell’Ottocento. Questo non vuol certo significare che tali opere siano meno interessanti di quelle giovanili, ma che vi è diffusa la tendenza alla raffinatezza musicale più che il contrasto tra impulso e malinconia, tipico del giovane Schumann.
Con il Trio op. 80 siamo nel 1847 e la titolazione dei movimenti è (si noti) in tedesco, non in italiano. Dei quattro movimenti, il primo è giocato su un ritmo ternario che ha un tono popolare nell’andamento di danza ma non nella cantabilità. In essa, infatti, Schumann riversa la sua vena fantastica, per cui i suoi disegni melodici sono sempre sorprendenti. L’episodio contrappuntistico che si impone al centro del movimento rivela la profonda coerenza tematica e strutturale del brano e il suo legame con un ideale arte germanica che ha in Bach il suo testimone. Certi ritmi e certi tratti tematici ricordano, infatti, il celebre compositore, riletto, però, alla luce di un magico furore romantico che solo Schumann sa evocare con discordanti sfaccettature.
Il secondo movimento sembra fare il verso alla cantabilità operistica, ma l’intrecciarsi dei temi è in cerca di una stratificazione espressiva densa più che di toni teatrali. Anche lo scherzo in terza posizione, dal tempo insolitamente lento per il genere, ricerca la stratificazione contrappuntistica, quasi che la mira di Schumann in questa composizione fosse cercare un nuovo taglio espressivo per lo stile imitativo tramite la ricombinazione dei materiali creati dal suo genio tematico e ritmico. L’idea dello “scherzo” è più nelle combinazioni insolite di ritmo e melodia che non nel brillante andamento che caratterizza, di solito, il genere. L’ultimo movimento è giocoso e vivace, vi predomina il pianoforte e vi fa capolino lo Schumann giovanile con le sue creature tematiche dall’insolito serpeggiare. L’ascesa, la volontà di raggiungere alture emotive insolite, nonché lo sforzo per raggiungerle, spesso mimate dalla musica, sono tutte di Schumann, e qui appaiono in piena chiarezza, sebbene ve ne siano stati segni anche nei tre brani precedenti.
La tonalità tragica di do minore, tanto amata da Beethoven, torna con il Trio op. 101 di Brahms a incarnare i toni grandiosi e tragici del Romanticismo. Gesto potente e sontuose esitazioni aprono questa composizione realizzata nell’estate del 1886, la cui temperatura rovente appare subito nell’indugiare drammatico e sognante che si dipana dalla partitura. Nell’Allegro energico iniziale, un fare imperioso (derivato da Beethoven) si alterna a rari momenti cantabili, quasi questi fossero sezioni di riposo fra un atto costruttivo poderoso e l’altro. Nel Presto assai che segue, il senso del tragico è raggiunto con l’essenzialità dei mezzi in campo, quasi Brahms prendesse le mosse da un’esile danza barocca in punto di morte. Gli strumenti ad arco dialogano quasi a cercare una soluzione a qualcosa. Il pianoforte pare dissuaderli dal risolvere un ipotetico problema. L’organicità misteriosa di tale brano è tipica di Brahms. Anche questo movimento, che dovrebbe essere uno scherzo, è assai singolare per il suo tono e per il suo ritmo, perché invece di evocare dinamismo, materializza una strana leggerezza dal retrogusto di irresoluzione.
L’andamento salottiero dell’Andante grazioso ci comunica un senso di pace e di convivialità. Ha un tono vagamente settecentesco, viennese nel senso del classicismo di Haydn e Mozart, un gusto che diventerà di moda dopo la morte di Brahms, più o meno nel Primo Novecento (compare in tanti melodrammi di fine Ottocento e oltre). L’ultimo movimento, Allegro molto, è schumanniano per via delle insolite “storpiature” del tessuto sonoro che suonano come geniali storture, che escono fuori da una dimensione cantabile prevedibile e inventano percorsi sorprendenti per chi ascolta. A volte, l’andamento della musica sembra punteggiato da strani pertichini all’acuto. Il tutto risulta veramente innovativo per Brahms, colui che viene indicato come il continuatore della tradizione classica viennese, e in verità, è autore anche in linea con la modernità che si annunciava trasgressiva e dirompente. Il Trio piacque molto a Clara Schumann così come all’amico violinista Joseph Joachim proprio per le sue caratteristiche di potenza ed estrosità.
Spesso definito come il più classico tra i romantici, Felix Mendelssohn tradisce questa definizione proprio nei Trii, genere le cui origini sono legate all’intrattenimento salottiero e al quale l’autore, di contro, conferisce l’impeto del verbo romantico. Il Trio in do minore op. 66 è del 1845, due anni precedente il Trio di Schumann, e subisce influssi di scrittura dalla produzione cameristica di Franz Schubert, autore tenuto in grande stima da Mendelssohn e del quale promosse, da organizzatore, l’esecuzione della musica. Se schubertiana è in parte la scrittura pianistica, il tono impetuoso della composizione è beethoveniano e nervosamente motorio, aspetto tipico di Mendelssohn. Nell’Allegro energico e con fuoco iniziale, il pianoforte innesca un dinamismo inesausto sul quale si innestano le febbrili melodie degli archi. Tale alta temperatura è generata dalla divergenza tra parte pianistica, che furoreggia senza sosta con arpeggi e accordi, e archi, che tentano di sottrarre a un metaforico naufragio il materiale tematico. La tensione melodica da ciò provocata continua anche nell’apparente pace dell’Andante espressivo, nel quale però il pianoforte continua a essere il buco nero che sembra assorbire la luce della cantabilità del brano. Nel sagace Scherzo, questo si animato da un ritmo sostenuto e coinvolgente contrariamente ai due precedenti trii, qualcosa di volante e demoniaco si impossessa della musica. Il Finale, in forma di rondò, approda a toni sinfonici, densi e talvolta festosi, a testimoniare l’alto impegno messo dall’autore in questa partitura cameristica.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 9 febbraio

Giovedì 9 febbraio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
GRAZIA RAIMONDI, violino
LUIGI PIOVANO, violoncello 

Georg Philipp Telemann (1681 – 1767)
Fantasia n. 9 in si minore per violino solo

Alfred Schnittke (1934 – 1998)
Madrigal in memoriam Oleg Kagan per violino solo

Johann Sebastian Bach (1685 – 1750)
Suite per violoncello solo n. 1 in sol maggiore BWV 1007

Arcangelo Corelli  (1653 – 1713)
Sonata a violino e violone in re minore op. 5 n. 12 La Follia

Zoltán Kodály (1882 – 1967)
Duo per violino e violoncello op. 7

Note di sala 
di Salvatore Morra*
Il programma in duo di violino e violoncello è da suggestioni intime, da camera, con un confronto tra brani solistici, con accompagnamento strumentale, suite, fantasie e danze. Nel 1765, all’età di ottantaquattro anni, Georg Philipp Telemann (1861-1767), era semplicemente sopravvissuto alla sua epoca, uno dei più longevi. Pochi amici e colleghi musicali che lo conoscevano fin dall’inizio della sua carriera erano ancora vivi: Bach, Fasch, Handel, Hebenstreit, Keiser, Mattheson, Pisendel, Stölzel e Zelenka, la maggior parte dei quali nati dopo Telemann, erano già scomparsi. Altri contemporanei degni di nota come Albinoni, Geminiani, Rameau, Scarlatti e Vivaldi erano anche deceduti. Haydn aveva già trent’anni, C.P.E. Bach, Gluck e Jommelli sulla cinquantina e Hasse e Sammartini nella sessantina. Mozart, allora nove anni, era nel bel mezzo della sua grande tournée in tutta Europa. Di Telemann si lodava l’inventiva melodica, l’abilità contrappuntistica nei cori, ricchi accompagnamenti strumentali nelle opere vocali, ottima declamazione nei recitativi, nelle cantate sacre e negli oratori successivi al 1730. Caratteristiche anche evidenti nella Siciliana della Fantasia n. 9 in si minore per violino solo che apre il concerto: le terzine, l’accostamento delle frasi ricche di trilli, spesso con cambi di ottava, che generano effetti di domanda e risposta fra voci diverse, e la condotta di due linee melodiche simultanee che lasciano le note in battere per una voce e quelle in levare per un’altra, mostrano l’inesauribile riserva di idee, così come nel Vivace, e finale Allegro. 
L’accostamento del brano di Alfred Schnittke (1934-1998) – degno erede di Shostakovich per senso dell’ironia e dell’alienazione – Madrigal in memoriam Oleg Kagan per violino solo, fornisce un punto focale sul carattere evocativo del violino. Da un lato abbiamo il genere del madrigale, nel quale si è sempre annidato un particolare tipo di sogno musicale, nel senso di un desiderio irraggiungibile, registrando i più piccoli e massicci tremori di ogni parola e inflessione di significato; dall’altro ciò che Schnittke insegue disperatamente e vuole possedere, non più un testo, ma una vita perduta: quella dell’amico intimo, il violinista russo Oleg Kagan. La morte di Kagan nel 1990 colpì profondamente Schnittke, e il compositore scrisse immediatamente questo lavoro di quasi otto minuti in memoria. È prosaico, estremamente duttile, segue la traiettoria espressiva ovunque debba andare, dal recitativo grave più lugubre ai momenti di stridore quasi intollerabile, nei registri più acuti del violino; sembra svolgersi come l’esperienza del trauma stesso, in respiri profondi che iniziano con grandi, lunghi, tristi colpi, e precipitano rapidamente in un momento di dolore acuto e di angosciata rassegnazione. Il brano suggerisce come il sogno-madrigale segue così da vicino l’esperienza extramusicale tanto da sostituirla, rendendo il violino uno strumento indissolubilmente legato al memoriale. 
Cambio di scena e si passa ad uno strumento per il quale gli studiosi hanno da decenni iniziato non solo a rivalutare la nostra idea di ciò che il “violone” avrebbe potuto essere, ma anche a ridefinire le nostre nozioni circa il “violoncello” nei secoli XVII e XVIII, termine con il quale non si denotava in Europa esclusivamente il piccolo violino basso a quattro corde suonato in posizione “da gamba”, con presa dell’arco sopra la mano, come mostra Michel Corrette nel 1741. Le Suite di Johann Sebastian Bach (1685-1750) per violoncello non accompagnato presentano diversi momenti in cui aspetti del tessuto musicale, della struttura tonale, della struttura formale sono in stretta relazione con le tecniche esecutive ed il tipo di strumento utilizzato. In particolare, nella Suite per violoncello solo n. 1 in Sol maggiore, BWV 1007, la progressione armonica iniziale del Preludio su un punto di pedale di tonica, in tutta la sua semplicità, unifica le diverse forme danzanti dall’inizio alla fine. Quasi un approccio compositivo in stile sonata per le suite da ballo, che crea uno strato di complessità dall’Allemanda e Courante in poi. Ma Il cuore della Suite è la Sarabanda, con una scrittura quasi polifonica simile a quella per violino solo. Dopo i Minuetti, la Giga è il più enigmatico dei movimenti per il suo spostamento in sol minore.
Nella stessa cornice temporale e strumentale è la Sonata a violino e violone in re minore, op. 5 n. 12, “La Follia” di Arcangelo Corelli (1653-1713) composta tra il 1680 e 1690. Il corpus di sonate op. 5, dopo la loro pubblicazione, raggiunse lo status di “classici”, e nel 1800 era stato ripubblicato più di 50 volte, ad Amsterdam, Bologna, Firenze, Londra, Madrid, Milano, Napoli, Parigi, Roma, Rouen e Venezia. Questa frequente ripubblicazione e la sopravvivenza di centinaia di copie manoscritte e decine di arrangiamenti documentano il fatto che quest’opera continuò ad essere eseguita ed utilizzata con funzione didattica. Il suo valore pedagogico consisteva, presumibilmente, in due aspetti: quello di Studi contenenti musica finemente lavorata con molti movimenti alla portata anche di violinisti novizi; e quello di base per l’improvvisazione, perché la precisione di certi movimenti li rendeva veicoli ideali per esercitarsi nell’ornamentazione melodica, sia quella cosiddetta “necessaria”, sia quella più libera, ornamenti su larga scala o parafrasi musicali. 
Il programma si conclude con tendenze musicali neoclassiche, sicuramente antiromantiche con il Duo per violino e violoncello, op. 7 di Zoltán Kodály (1882-1967). Compositore, etnomusicologo e insegnante, Kodály ha contribuito a rinvigorire la cultura musicale della sua nazione e, in particolare, attraverso la promozione dei cori comunitari e la raccolta e sistematizzazione della musica popolare ungherese ha fornito un meccanismo di educazione. Il Duo per violino e violoncello del  1914 modella perfettamente l’influenza incrociata dei materiali popolari ungheresi e le strutture formali della musica d’arte. La sua melodia pentatonica di apertura cade nel modo dorico, mentre un tema contrastante alterna frasi melodiche e accompagnamento pizzicato. Un lirismo intensamente sentito, che a volte esplode in un profondo tormento, scorre attraverso l’Adagio. Il finale simula radicali cambi di tempo con la sua eccitante alternanza di sezioni lente e rapide.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 16 febbraio Trio Jean Paul

Giovedì 16 febbraio 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
TRIO JEAN PAUL
Integrale dei Trii di Robert Schumann, Felix Mendelssohn e Johannes Brahms (I concerto)
Robert Schumann – Trio in fa maggiore op.80; Johannes Brahms – Trio in do minore op. 101; Felix Mendelssohn – Trio in do minore op. 66
“Le interpretazioni del Trio Jean Paul possiedono il segno di un’intelligenza che trasmette la gioia del suono e ricche di una curiosità passionale: drammaticamente sorprendenti ma sempre di una chiarezza delicata, solisticamente proposte ma pervase da un senso poetico del dialogo strumentale“. Questo scriveva il Tagesspiegel di Berlino a proposito di un concerto del Trio Jean Paul alla Filarmonia berlinese. La scelta del nome esprime una loro affinità particolare con la musica di Robert Schumann : “Papillons”, uno dei primissimi capolavori pianistici di Schumann fu ispirato al compositore dalla lettura di” Flegeljahre”, il più noto romanzo dello scrittore romantico tedesco Jean Paul. Biglietti