![]() Un concerto all’insegna dell’incontro tra musica e divulgazione musicale con la presenza di un grande pianista italiano come Andrea Lucchesini e un ormai famoso “narratore” dei fatti musicali come Giovanni Bietti. Il tema è un excursus nella “forma sonata” e condensa un secolo di musica pianistica accostando, in un percorso che si svolge a ritroso nel tempo, la sonata di Liszt e uno dei capolavori del Beethoven della maturità, l’op. 109. biglietteria |
Concerto 6 dicembre

NICOLA PIOVANI – NOTE A MARGINE
Marina Cesari, sax
Marco Loddo, contrabbasso
Vittorino Naso, percussioni
Nicola Piovani, pianoforte
Note di sala
di *Stefano Valanzuolo
Il titolo del progetto rimanda all’abitudine, che molti hanno (e Nicola Piovani, certamente, tra questi) di annotare magari a matita, sul bordo di un libro o – se si è musicisti – di una partitura, certe considerazioni estemporanee e non per forza fondamentali, come a voler lasciare traccia di una fugace riflessione a beneficio di sé stesso più che degli altri. In “Note a margine” sono le parole a occupare una posizione subordinata (dunque, marginale), ché la musica – quella di Piovani, nella circostanza – si prende la scena e conduce il gioco, fino a sfiorare suggestioni di tipo teatrale. Se è vero, infatti, che il cinema resta il grande e dichiarato amore di questo compositore gentile e fantasioso, premiato con l’Oscar nel 1999, altrettanto indiscutibile è il fascino che su di lui esercita il mondo del teatro, inteso come ambito espressivo innervato dalla presenza fisica dei protagonisti e, in quanto tale, non surrogabile da altro mezzo (ogni riferimento alla televisione è puramente intenzionale). Ciò spiega come mai, da molti anni, Piovani abbia scelto di non consegnare solo allo schermo la propria musica ma di svelarla anche dal vivo con progetti diversi che lo vedono in scena nella veste di autore, esecutore, conversatore privilegiato. Oltre i margini assodati del concerto propriamente detto, cioè, e con la voglia di coinvolgere il pubblico in un’interlocuzione altra e vivace. Lo spettacolo “Note a margine” nasce nel 2003, su commissione del Festival di Cannes e con un altro titolo, “Leçon concert”. Della “lezione”, in senso didattico e pure didascalico, questa proposta però non ha nulla. È, infatti, un racconto autobiografico ai limiti dell’informale (nel senso accattivante del termine) che attraversa mezzo secolo di carriera vissuta ad alta quota e scandita da incontri determinanti, cioè assai proficui, con partner illustri; registi e non soltanto. Originariamente concepito per pianoforte solo, l’excursus di Piovani avrebbe poi assunto fattezze diverse, portando in pedana un duo, quindi un trio, infine il quartetto. Per il futuro, non sono da escludere variazioni di organico. «Un progetto come questo – spiega Piovani – si modella intorno a un format base che, tuttavia, nel corso degli anni può finire col perdere qualche pezzo e acquisirne magari altri, in modo naturale e senza smarrire la propria identità. Rientra nella logica di crescita di qualsiasi produzione. Mi viene in mente, a tale proposito, un altro spettacolo, “La musica è pericolosa (presentato a Napoli dall’Associazione Scarlatti nel 2019; ndr), al quale sono molto legato: della scaletta che preparai per il debutto al Ravenna Festival, anno 2015, oggi resistono non più di tre o quattro pezzi. Il resto è cambiato, ma il senso del messaggio no». Proprio quest’ultima considerazione aiuta a capire come, anche nel caso di “Note a margine”, lo spettatore si ritrovi di fronte ad una sorta di work in progress dai connotati sfuggenti per scelta, perché sulla confezione finale del prodotto incide, evidentemente, l’atmosfera del momento, la complicità con la platea, la forza degli aneddoti raccontati. Quelli che riguardano Federico Fellini (con il quale Piovani lavorò in occasione di “Ginger e Fred”, “Intervista” e infine “La voce della luna”), per esempio, cambiano ogni volta, perché il compositore ne ha tanti – beato lui – che custodisce gelosamente nella memoria; e sa centellinarli, con garbo affettuoso. “Note a margine”, nella definizione sintetica dell’autore, alterna «brani musicali e note parlate, e le seconde rimandano a momenti d’ascolto, certo, ma senza pretendere di spiegarli né di fornire giudizi esaustivi. L’obiettivo, semmai, è quello di aiutare il pubblico a entrare più facilmente all’interno della musica, a coglierne la valenza emotiva attraverso particolari piccoli, apparentemente insignificanti eppure in grado di far intendere il clima in cui quelle pagine siano nate e perché continuino a vivere». Sono “note”, nell’accezione di appunti, ma il compositore si ostina a chiamarle noterelle, per rimarcare il fatto che non vadano poi prese troppo (o sempre) sul serio. Consegnate allo spettatore in termini cordiali, le note a margine concorrono a delimitare uno stato d’animo e ad alludere a una sensazione, possibilmente condivisibile, suscitata da altre note, quelle scritte sul pentagramma. La cui energia – come amava dire Fellini – agisce a un livello così profondo e inconscio da risultare pericolosa. Felicemente pericolosa, però. Parlando di sé stesso, Piovani ha detto di non ricordare un giorno solo trascorso lontano dalla musica. Alla luce di una considerazione siffatta, “Note a margine” diventa soprattutto un atto d’amore nei confronti della propria professione, straordinaria e straordinariamente svolta. Il cinema è presente assiduamente nell’arco di tutto il racconto. La colonna sonora diventa, nelle mani di Piovani, lo strumento più adatto a declinare tanta passione verso la musica; lo schermo diventa ambito entro il quale emozionare il pubblico, un ambito prezioso eppure non esclusivo. Tant’è che nello spettacolo, assieme alle molte citazioni famose e famosissime legate ai film, compaiono altri ricercati omaggi musicali. Come quello a Fabrizio De Andrè, che volle Piovani accanto per la creazione di almeno due dischi (concept album, si chiamavano allora) assai importanti: “Storia di un impiegato” e “Non al denaro, non all’amore né al cielo”. Menzione assai opportuna, ché la canzone, anzi la forma-canzone come modello di stile, ricopre un ruolo centrale nell’esperienza di Piovani e nella sua fruttuosa collaborazione – ecco un altro esempio – con Roberto Benigni interprete (“Quanto ti amo”) e regista (“La vita è bella”, ça va sans dire). Nella scaletta di “Note a margine” ricorre pure una serie significativa di composizioni – come Canto senza parole, Partenope e Il volo di Icaro – dedicate al rapporto misterioso tra musica e mito, caro al compositore. Sono pagine non legate al racconto cinematografico, eppure dotate di una carica immaginifica che rappresenta, di fatto, il vero marchio di fabbrica di Piovani. Il resto, sulla scena e nell’economia dello spettacolo, lo fanno l’intesa tra i musicisti, la proiezione dei fotogrammi da film, i disegni di Milo Manara, le scelte di luce, il ritmo impresso al percorso. Così si entra, senza troppi sforzi, nella magia del teatro. L’elenco dei registi che Piovani ha affiancato a partire dal 1970 (anno in cui scrive le musiche per “La ragazza di latta”, il suo primo film) assomiglia, evidentemente, a un compendio di storia del cinema italiano. Ovvio l’imbarazzo della scelta per il compositore che aspiri a narrare di sé e della propria esperienza. Tuttavia alcuni nomi, in una serata che abbia sapore di racconto e omaggio, diventano ineludibili: Fellini e Benigni, appunto, e poi i fratelli Taviani e Nanni Moretti. Ci sono anche titoli e protagonisti un po’ meno popolari (pensiamo a Bigas Luna, regista di “Jamon, jamon” e “La teta y la luna”) ma la certezza è che, volendo, Piovani potrebbe attingere in ogni istante ancora ai film di Monicelli, Bellocchio, Tornatore, Amelio e compagnia bella (che stavolta non è un modo di dire). Le regole del mondo dello spettacolo, si sa, ammettono – e talvolta impongono – che un pizzico di mistero accresca l’attesa. Anche per questo, oltre che per l’abbondanza di spunti possibili, “Note a margine” non ha una trama fissa e predefinita. «Non è reticenza compiaciuta la mia», assicura Piovani. «Sono io il prima a sorprendermi, sera dopo sera, della forma fluida che assume lo spettacolo. A Napoli, per esempio, mi piacerebbe portare (e sarebbe la prima volta) le musiche scritte per un film di animazione francese dell’anno scorso, si chiama “Manodopera” e ha avuto grande successo. Spero di farcela a completarne l’orchestrazione. Il problema, semmai, è dover poi decidere cosa tagliare per fare spazio al pezzo nuovo. Una regola aurea non scritta vuole che le proporzioni dello spettacolo, prima di tutto, siano rispettate». “Note a margine” non ha una partitura – per citare Piovani – inchiodata. È un ricordo costruito per capitoli e tenuto insieme dal filo conduttore suadente prestato dal cinema, elemento di attrattiva irresistibile per il pubblico, ma anche per il compositore. Il quale, non a caso, rivendica spesso e orgogliosamente il proprio status di spettatore, sia pure privilegiato, all’interno del grande mondo della musica. «Faccio parte di quel gruppo ormai piccolo di persone che ancora vanno al cinema. E frequento assiduamente, da sempre, le sale da concerto. Quest’attitudine mi consente di pormi più facilmente nell’ottica del pubblico, magari di coglierne le aspirazioni e di venirgli incontro». È una platea, quella di oggi, portata più spesso a “riconoscere” piuttosto che a “conoscere”, a “riascoltare” piuttosto che ad “ascoltare”… «Il problema – sottolinea Piovani – sta nel trovare un punto d’incontro tra l’esigenza di rassicurare il pubblico, attraverso il ricorso a riferimenti individuabili, e quella di osare». È in quella zona di compromesso, allora, che sembra muoversi disinvoltamente il progetto “Note a margine”, riproponendo melodie amatissime assieme a pagine meno assodate, sempre da un angolo visuale speciale, quello cioè di chi ne abbia conosciuto i presupposti anche drammaturgici. Senza intellettualismi né fronzoli. La dimensione dei brani, qui, è dichiaratamente cameristica, sebbene alcuni lavori siano nati per organici orchestrali più imponenti, salvo poi venire ridotti all’occorrenza, preservandone la linea narrativa e il senso, l’una e l’altro funzionali allo sviluppo della storia. Persino la colonna sonora de “La notte di San Lorenzo”, il cui turgore sinfonico sembrerebbe irrinunciabile, rivive in scala minima, sul pianoforte solo, illuminando il lato intimo e privato di un’epopea collettiva. Come in un romanzo di Fenoglio. Il tono della conversazione, in “Note a margine”, è dato dall’approccio pacato e non per questo meno diretto di Piovani, protagonista indiscusso eppure discreto sulla scena. Il tono della rievocazione musicale trae ragione dal colore stesso degli strumenti, perché sono i colori – spiega l’autore – «…a cambiare faccia a una storia. Esistono strumenti capaci di entrare in punta di piedi in una trama – per esempio il violoncello, o il clarinetto – e poi eclissarsi con discrezione. Ce ne sono altri che sottendono un protagonismo meno gestibile». E in questa riflessione sul suono, sulle nuances che lo determinano e sul significato che ne deriva si ritrova tutta la delicata sapienza di Piovani. Il suo è uno spettacolo affettuoso, come affettuoso è il suo riguardo nei confronti di Napoli: «La considero la mia seconda città. E giuro che non dico la stessa cosa dovunque vada! A Napoli ho vissuto in anni di formazione, ho fatto teatro, ne ho studiato la lingua, ho avuto il privilegio di conoscere Eduardo e di lavorare a lungo e felicemente con suo figlio Luca. Insomma, il rapporto con questa città è troppo profondo perché possa spiegarlo a parole».
Meno male che c’è la musica, allora.
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti
Settimana di Musica d’ Insieme 2023

Il progetto della Settimana di Musica d’Insieme, curato dall’Associazione Alessandro Scarlatti in collaborazione con la Direzione Regionale Musei Campania e sostenuto e finanziato dal Comune di Napoli, nell’ambito del progetto “Napoli Città della Musica”, si inserisce nel solco della storica manifestazione ideata nel 1971 da Salvatore Accardo e Gianni Eminente, che trovò sin dai primissimi anni ospitalità nel magnifico scenario di Villa Pignatelli.
Una settimana densa di musica e di eventi, con una forte carica divulgativa e innovativa, che trova cornice ideale quest’anno nei bellissimi spazi di Villa Pignatelli e dell’Auditorium Porta del Parco di Bagnoli, con lo specifico intento di valorizzare il patrimonio artistico, monumentale della città, antico e moderno.
Programma
Domenica 26 novembre 2023 – Villa Pignatelli | Ore 11.00
Quartetto Goldberg
Musiche di Wolfgang Amadeus Mozart e Maurice Ravel
Martedì 28 novembre 2023 – Villa Pignatelli | ore 20.30
Gabriele Pieranunzi e Ivos Margoni, violini
Francesco Solombrino e Francesco Fiore, viole
Danilo Squitieri, violoncello
Ermanno Calzolari, contrabbasso
Antonello Cannavale, pianoforte
Musiche di Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Schubert
Sabato 2 dicembre 2023 – Auditorium Porta del Parco| ore 20.30
EVENTO SPECIALE
Giovanni Sollima, violoncello
Musiche della tradizione albanese e salentina, Giuseppe Clemente Dall’Abaco, Johann Sebastian Bach, Leonard Cohen, Nirvana, Giovanni Sollima.
Domenica 3 dicembre 2023 – Villa Pignatelli | ore 11.00
Giovanni Sollima, violoncello
Federico Guglielmo, violino
Scarlatti Baroque Sinfonietta
Tommaso Rossi, Alessandro De Carolis, flauti dolci
Paolo Perrone, Marco Piantoni, violini
Rosario Di Meglio, viola
Manuela Albano, violoncello
Giorgio Sanvito, contrabbasso
Patrizia Varone, clavicembalo
Musiche di Nicola Fiorenza, Leonardo Leo, Antonio Vivaldi, Johann Sebastian Bach
PROVE APERTE a Villa Pignatelli
Lunedì 27 novembre 2023
Ore 10-13 | 15-17
Martedì 28 novembre 2023
Ore 10-13
Venerdì 1 dicembre 2023
Ore 10-13 | 15-17
Sabato 2 dicembre 2023
Ore 10-13 | 15-17
I concerti sono gratuiti esclusivamente su prenotazione scrivendo a: prenotazioniscarlatti@gmail.com
Info Whatsapp 3426351571
Concerto 15 novembre

OFM – ORCHESTRA FEMMINILE DEL MEDITERRANEO
ETTORE PAGANO, violoncello
ANTONELLA DE ANGELIS, direttore
Compositrici e compositori a confronto
Marianna Martines
Ouverture in Do maggiore
Franz Joseph Haydn
Concerto per violoncello n. 1 in do maggiore
Grazyna Bacewicz
Concerto per orchestra d’archi
Arvo Pärt
Fratres per violoncello, archi e percussioni
Giovanni Sollima
Aquilarco 1
Note di sala
di *Gianluca D’ Agostino
Marianna Martines – Ouverture in Do maggiore
Molte donne e fanciulle di buona famiglia erano ben istruite musicalmente nel Settecento, così come in epoche precedenti. Poche di esse, tuttavia, lo erano tanto da poter vantare di essere anche compositrici. Questo fu il caso di Marianne Martines, al secolo Anna Catherina von Martines o Martinez (Vienna, 1744-1812), che fu cantante, clavicembalista e, appunto, compositrice. Il padre Nicolò, di origine spagnolo-napoletana, era maestro di camera del Nunzio papale alla corte viennese dell’Imperatore Carlo VI, e in questo modo ottenne una patente di nobiltà. Egli, soprattutto, era amico del celeberrimo librettista e poeta “cesareo” Pietro Metastasio, il quale in effetti fu il padrone della dimora (alla Michaelerplatz di Vienna) dove la famiglia Martines visse per un intero cinquantennio (dal 1734 al 1782). Qui la bambina mostrò grande propensione per la musica e in tal senso fu incoraggiata ed anzi costantemente seguita dallo stesso Metastasio (che la chiamava “la mia piccola Santa Cecilia”). Fu lui a incaricare di istruirla prima il famoso operista napoletano Nicola Porpora, in uno dei suoi vari passaggi per Vienna, poi anche il giovane Franz Joseph Haydn, che era parimenti ospite di quel palazzo. Ulteriori progressi nella musica ella fece grazie ad altri insegnanti illustri, come Hasse, e soprattutto grazie al favore di cui godette presso l’imperatrice illuminata, Maria Teresa d’Austria, che la collocò in breve in una posizione privilegiata nella vita artistica viennese, incoraggiandola ad esibirsi e ad eseguire le sue proprie composizioni. In questo modo Marianna si trovò spesso invitata a serate musicali animate da talenti straordinari, come lo stesso Haydn e come i due Mozart, padre e figlio. Sempre grazie al Metastasio, entrò in contatto con musicisti e critici italiani del calibro di Saverio Mattei e di Padre G.B. Martini, che le schiusero le porte della conoscenza della polifonia sacra e al contempo le tributarono riconoscimenti “accademici”. Non è poco, per una donna di quei tempi. Eppure, nonostante la fama, i riconoscimenti e l’ammirazione di musicisti e reali, nessun’opera della Martines fu pubblicata quando lei era in vita. Ebbe comunque la soddisfazione di vedere la sua casa trasformata in una vera e propria Accademia musicale, da cui vennero sfornati parecchi talenti. Relativamente al primo brano che ascolteremo stasera, l’Ouverture (o Sinfonia) in Do maggiore, il primo movimento, con quell’incipit così teatrale e appunto spiritoso, parrebbe derivare da una sinfonia d’opera italiana, piuttosto che da un concerto grosso haendeliano; se non che la tecnica di elaborazione tematica qui in atto è già d’impronta inequivocabilmente classica, e dunque subito appare chiaro che ci troviamo in un altro contesto. Ammirevole qui, specialmente, è la condotta orchestrale, che è prescritta in maniera affatto sicura e facendo grande attenzione alla scorrevolezza del discorso, ottenuta anche grazie al giusto dialogare strumentale e con l’impiego di pause efficaci e di ricapitolazioni briose. Il tutto, insomma, riesce in una frizzante miscela di gusto viennese e italiano. L’Andante centrale, con la sua eleganza melodica un po’ affettata, pecca forse di leziosaggine, ma pure denota pregevoli concertazioni tra i fiati e tra questi ultimi e gli archi. Mentre l’ultimo movimento, una danza in forma ternaria, ha una prima parte chiaramente bitematica che viene ripetuta, cui segue una brevissima sezione centrale in minore, e infine torna la ripresa della prima parte.
Franz Joseph Haydn – Concerto n° 1 in do maggiore per violoncello e orchestra, Hob: VIIb:1
A quello stesso Haydn (1732-1809) che aveva, da giovane, insegnato alla piccola Martines, si fa talvolta un gran torto, svalutando alcune sue composizioni “di circostanza” o nate su commissione (soprattutto per i principi Esterhazy), e paragonandole a quelle dell’amico Mozart o dell’allievo Beethoven. Si dimentica infatti che in molti casi Haydn li precedette e additò loro la strada maestra, soprattutto per quanto concerne l’elaborazione formale (è pur sempre il “padre” del quartetto e della sinfonia, ma fu anche innovatore nei generi drammatici e altrove), ma anche nei principi compositivi dello stile, così saldamente razionali, ad esempio nella tecnica di costruire a partire da poche premesse iniziali, quindi sfruttando il potenziale latente delle note fondamentali. Però è vero che nei concerti solistici (una ventina, composti per i più vari strumenti) non va forse cercata la più alta prova del suo immenso talento; poiché in essi prevale il carattere più leggero, se non proprio “disimpegnato”, dell’ispirazione, oltre all’impellenza di dare spazio al virtuosismo dell’interprete. Si sente bene, anche ascoltando in modo superficiale, che le ripetizioni tematiche sono molto nette e che il periodare è fin troppo circoscritto e dunque prevedibile; in effetti, che manca una vera e propria dialettica “drammatica” tra il solo e il tutti, il che poi sarà una conquista, appunto, mozartiana. Nel caso in questione, una copia di questo primo Concerto per violoncello appartenne a Joseph Franz Weigl (padre del compositore omonimo), che tenne il posto di violoncellista nell’orchestra degli Esterhazy tra 1761 e 1769; ciò che rende probabile che Haydn lo compose proprio per costui, in quello stesso periodo di tempo. Nel primo movimento (Moderato) si sente ancora l’eredità del Barocco: i due temi principali dell’esposizione, invero privi di una fisionomia inconfondibile, vengono prima enunciati dall’orchestra e poi ripresi dal solista, e questa sequenza viene ripetuta; si entra così in una fase di sviluppo, che vede essenzialmente protagonista lo strumento solista con notevole sfoggio di abilità, ma anche di una decisa cantabilità; e infine c’è la ripresa, conclusa da una bella cadenza solistica. Nel successivo Adagio il tema è più bello e nobile (a qualcuno potrebbe ricordare la celeberrima “Romanza” beethoveniana per violino e orchestra): esposto dall’orchestra e poi dal solista, rappresenta un piccolo compendio di “stile classico”, ad esempio nell’avere la sua cellula melodica, di matrice chiaramente esornativa e barocca, che viene ripetuta sulla progressione di basso dal III al VI grado, per poi ricadere sulla tonica. Poi anche qui c’è una sorta di sviluppo modulante, breve ma intenso, e più intensa ancora è la riepilogazione finale, che parimenti conduce ad una cadenza solistica molto espressiva. L’inizio dell’Allegro molto, alla fine, ha il tipico incedere brioso delle sinfonie d’opera (quando attaccano il tema dopo l’introduzione lenta), ma poi la scena è tutta presa dal solista, impegnato in una scrittura che lo costringe a un vero tour de force, ivi comprese le fioriture di matrice belcantistica. Degli interventi dei fiati si odono a questo punto, distintamente e direi forse per la prima volta, ma soprattutto vi fa ogni tanto capolino un tema in do minore che getta come un velo d’ombra malinconica sul brano: malinconia mozartiana, penseremmo subito, ma così dicendo faremmo il solito torto a “papà” Haydn!
Grazyna Bacewicz – Concerto per orchestra d’archi
Con la compositrice polacca Bacewicz inizia la parte contemporanea del concerto di stasera. Grazyna Bacewicz (Łódź 1909 – Varsavia 1969) è ancor oggi poco più che un nome fuor di patria, e ciò sorprende alquanto, considerando la celebrità di cui godette in vita. Fu una bambina-prodigio sia come pianista sia come violinista, formandosi prima in famiglia e poi studiando al Conservatorio di Varsavia; quindi imboccò la strada della composizione, vincendo anche vari premi, e dovendo destreggiarsi in un ambito quanto mai appannaggio degli uomini. In effetti la sua formazione e la sua fama si completarono ed accrebbero anche grazie agli stretti legami con l’ambiente parigino, dove negli anni Trenta si perfezionò con il grande pianista Ignacy Jan Paderewsky, con il violinista Carl Flesch e con la celebre compositrice Nadia Boulanger. Ricoprì poi il ruolo di primo violino presso l’Orchestra della Radio Polacca, e in questa veste effettuò molte tournée. Dopo la Seconda guerra mondiale, che com’è noto era stata particolarmente atroce per la Polonia (con Varsavia rasa al suolo e molte altre città brutalmente occupate dai tedeschi), fu docente al Conservatorio della sua città natale e poi nella capitale, potendosi dedicare principalmente alla composizione e alla didattica, ma anche alla critica e all’organizzazione musicale, e assurgendo fino al ruolo di vicepresidente dell’Unione dei Compositori Polacchi. Ebbe pure le sue difficoltà nel dover convivere con le critiche espresse dal regime staliniano, per cui ciò che non era allineato veniva proibito in nome del “realismo socialista”; e forse ancor più gravosa fu per lei la sostanziale avversione della critica, sempre tutta al maschile beninteso, che le rimproverò fino alla fine il “continuo sperimentalismo” e gli “incessanti cambiamenti dello stile”. Nella sua produzione spiccano le pagine dedicate al violino, suo strumento prediletto (sette concerti, cinque sonate con pianoforte, tre per violino solo); ma l’autrice spaziò in vari generi, dalle sinfonie, alla musica vocale, ai quartetti (sette, dal 1938 al 1965), e dalle musiche di scena a quelle per il cinema e la radio. Sebbene composto dopo la guerra, il Concerto per orchestra d’archi (1948) sembra risentire ancora del precedente clima parigino, nel senso di una sua opzione che potremmo chiamare “neoclassicheggiante”, che pare evidente sia nell’adozione dello stile concertante (si consideri la grande perizia della Bacewicz nella tecnica degli strumenti ad arco), o negli effetti di ripetizione imitativa quasi barocchi, sia nel fatto che il linguaggio è sì quasi atonale, ma senza prescindere del tutto dalla logica derivativa della forma-sonata. Il primo movimento è giocato in una sorta di continuum ritmico, su cui si innestano due temi principali, il primo dei quali caratterizzato da ampie discese melodiche che paiono convergere sempre nel medesimo punto, e l’altro tema avente invece carattere più ritmico ed un colore più cupo. Si evidenzia, ad ogni modo, l’ottima padronanza del contrappunto e dei buoni effetti drammatici ottenuti anche con pause a effetto. L’Andante, che ci pare la pagina più felice, parimenti s’incentra sulla riflessione contrappuntistica: c’è un melodiare esteso, sinuoso, ma fondamentalmente peregrino (che almeno superficialmente ricorda la schoenberghiana Notte trasfigurata), che si staglia su un ostinato discendente, creando così un effetto straniante, ma efficace. Il Vivo finale, invece, pur essendo caratterizzato da una maggiore vivacità ritmica, appare in fondo statico: l’inizio arrembante è quasi in tempo di marcia, poi la trama sonora indugia in arabeschi sonori e in capricciose volute dei violini, ma la direzione generale del pezzo sembra un po’ smarrirsi.
Arvo Pärt – Fratres, per violoncello, archi e percussioni
E ora un passo ulteriore verso la contemporaneità dell’oggi. Fratres è il titolo di un’opera del compositore estone Arvo Pärt, considerato l’inventore del “minimalismo sacro”. È invero un’opera “variabile”, nel senso che di essa esistono svariate versioni previste dall’autore per un’ampia varietà strumentale. La prima versione, per quartetto d’archi e quintetto di fiati, fu scritta nel 1977, e questa data è importante perché di pochissimo successiva a quella del ‘76, che Pärt stesso fissò come termine “a quo” del suo nuovo e definitivo stile compositivo: la cosiddetta “tintinnabulazione”, basata su accordi ripetuti sostanzialmente tonali, che risuonano come campane o campanelli, e che avrebbero proprietà fortemente evocative se non addirittura mistiche. Da allora e fino alla versione scritta per violoncello, archi e percussioni che ascolteremo stasera, e che è del 1995, il compositore ha realizzato almeno sette versioni diverse di quest’opera. A fronte della variabilità dell’organico strumentale, la struttura generativa di base è molto semplice e appunto minimale: una sequenza di nove accordi, separati da un motivo percussivo ricorrente, sopra i quali lo strumento solista esegue figurazioni di volta in volta diverse, in effetti seguendo la classica logica del “tema con variazioni”. La tonalità costante è grossomodo quella di La maggiore, ma “orientalizzata”, cioè avente la scala con il secondo grado abbassato di un semitono: l’effetto è da subito molto suggestivo e si può avere l’impressione di entrare in una musica da “mistery film”. All’inizio si ode il violoncello solo, che esegue una lunga e complessa sequenza di figurazioni in velocissime sestine che creano come un continuum sonoro. Interviene poi la famosa sequenza di accordi; quindi riprende il violoncello con un altro lungo fraseggio in quartine legate. E così via, attraverso armonie costanti, ma con figurazioni del solista mano a mano diverse e cangianti, molto variabili anche dal punto di vista della dinamica e della tecnica d’arco; diverse anche perché incasellate entro ritmi sempre diversi (si tratta in effetti di battute anisoritmiche e di ritmi molto irregolari, alla Stravinskij, per intenderci), che tuttavia anche qui si susseguono in una sequenza fissa: 6/4, 7/4, 9/4, 11/4.
Giovanni Sollima – Aquilarco 1
Infine una musica italiana di oggi. Aquilarco è il titolo di un album del compositore e violoncellista palermitano Giovanni Sollima, del 1998; altre otto tracce dell’album recano lo stesso titolo, dunque il brano che ascolteremo è il primo della serie ed infatti è concepito (e sottotitolato) a mo’ di “preludio”. Si è da subito calati “in medias res”, con il solista che esegue un’impetuosa introduzione molto ritmica e incalzante, dai toni anche drammatici e urgenti: in effetti, un vero pezzo di bravura che richiede grande destrezza e abilità all’interprete. Si innesta poi su di esso la compagine strumentale, che presenta un tema più definito, anche se non molto più posato del precedente, nel quale sembra di riconoscere un tango. Il solista a questo punto intreccia una fitta dialettica con gli altri strumenti, che mantiene comunque l’andamento impetuoso e il profilo tagliente dell’inizio.
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti
Concerto 9 novembre

BEETHOVEN IN VERMONT
spettacolo scritto e diretto da MARIA LETIZIA COMPATANGELO con il TRIO METAMORPHOSI
MAURO LOGUERCIO violino – Adolf Busch
FRANCESCO PEPICELLI violoncello – Hermann Busch
ANGELO PEPICELLI pianoforte – Rudolf Serkin
Musiche di Ludwig van Beethoven
Sinossi
Nell’estate del 1951, all’indomani della seconda guerra mondiale, tre famosi musicisti esuli dalla Germania nazista devono decidere il programma del concerto inaugurale del Festival di Marlboro, la scommessa che sintetizza le loro vite e il loro percorso umano e artistico: dal rifiuto del nazismo all’esilio volontario e l’emigrazione negli Stati Uniti. Nel volgere di pochi anni il Festival di Marlboro è diventato famoso e ha fatto scuola nel mondo; i suoi partecipanti sono musicisti tra i più talentuosi dei cinque continenti e gli insegnanti grandi virtuosi e acclamati direttori d’orchestra… ma in quel lontano pomeriggio del 1951 questa idea rivoluzionaria era ancora solo nella mente dei tre promotori, occorreva svilupparla e metterla in pratica. Lo spettacolo immagina il momento della scelta del programma e lo scambio di idee musicali e umane tra i tre artisti. Siamo all’indomani del secondo conflitto mondiale, le atrocità compiute sono ancora ferite aperte nella memoria e nei corpi delle persone. E loro sono tre europei di origine e cultura tedesca di fronte a una classe di giovani musicisti americani. Tra esecuzione di brani, dissensi e opinioni contrastanti che mettono a nudo verità celate, Adolf, Rudolf e Hermann preparano il loro concerto… e alla fine, per il primo concerto di una formidabile serie che da allora non si è mai interrotta, la loro scelta è Beethoven, il musicista portatore per eccellenza degli ideali di fratellanza tra i popoli, e la sua opera 97, l’ultimo Trio, “L’Arciduca”, il ponte verso i futuri capolavori.
Note di sala
di *Stefano Valanzuolo
Tra Marlboro e Napoli
Anno 1951. A Marlboro, nel Vermont, un gruppo di musicisti intraprendenti e illustri decide di dare vita ad un progetto alternativo di scuola di perfezionamento che possa sfociare anche in un festival. Ne fanno parte il pianista Rudolf Serkin e i fratelli Busch, ossia Adolf (violinista) e Hermann (violoncellista). Vengono tutti dalla vecchia Europa: Serkin è austriaco, i due Busch sono tedeschi. Hanno tutti assunto la nazionalità statunitense. Non sono scappati dalle leggi razziali, no, ma da un contesto che non riconoscevano più come giusto e umano; dunque, non più come proprio. Il Vermont ha paesaggi montani che assomigliano a quelli di casa, ed è forse per questo che i tre musicisti, uniti da solida amicizia artistica oltre che da legami di parentela (Serkin è il genero di Adolf Busch) sceglieranno quel punto del globo, più o meno tra Montreal e New York, per stabilirvi un campus destinato ad accogliere giovani provenienti da tutte le parti del mondo, vogliosi di immergersi nello studio della musica da camera. Agli allievi, visto che non di sola teoria si vive, di lì a poco sarà offerta pure la chance di esibirsi davanti al pubblico, durante i fine settimana, in ensemble estemporanei capitanati dai maestri. La Marlboro School of Music e il Marlboro Festival, dunque, sorgono l’uno come esito quasi naturale dell’altra. Del corpo docente faranno parte anche Van Cliburn e Dallapiccola, tanto per dare la misura del progetto. Adolf Busch morirà poco dopo aver visto nascere la sua creatura, ma presto in un ruolo trainante si calerà Pablo “Pau” Casals; livelli siderali, come si vede. La formula del festival prevede che dall’inventario corposo di brani presi a oggetto di studio (settanta o ottanta per ogni edizione), quelli da suonare in concerto vengano scelti nel corso delle prove, per affinità tra le parti o suggestione del momento. Della risoluzione, il pubblico è messo a parte all’ultimo istante, così che la suspense contribuisca a mantenere alta la tensione. Rispetto al rito consolidato del concerto, come si vede, è una svolta netta, sollecitata dall’esigenza di trovare un nuovo rapporto con l’ascoltatore oltre che stimoli efficaci. Esigenza attualissima, per altro. A quell’iniziativa made in USA un fitto stuolo di giovani musicisti italiani, quasi tutti già in carriera, cominciò a rivolgere attenzione sempre meno casuale e via via più proficua a partire dagli anni Sessanta. A incuriosirli fu la natura di un esperimento che sembrava assecondare la sana ansia di trasformazione (non solo culturale) proclamata dal decennio in corso. Così, molti di quei solisti emergenti avrebbero contribuito, nel volgere di qualche stagione, a esportare e rendere fruibile in Italia – con contorni diversi rispetto al modello americano, ma sull’onda del medesimo entusiasmo da pionieri – l’invenzione brevettata con successo dalla premiata ditta Serkin-Busch. Con il Marlboro Festival più di un interprete nostrano avrebbe acquisito rapidamente dimestichezza; primo in ordine di tempo, Bruno Giuranna, che in Vermont debuttò nell’estate del 1973, seguito da Bruno Canino, Rocco Filippini, infine da Salvatore Accardo, che più degli altri colleghi e amici avrebbe messo a frutto tanta contagiosa curiosità fino a trasformarla in energia creativa. Ed è appunto ispirandosi al format di Marlboro ‒ e con la complicità decisiva di Gianni Eminente ‒che Accardo negli anni Settanta immagina e poi fonda la “Settimana Internazionale di Musica d’Insieme” che per certi versi (e per certi nomi) sembra la ‘traduzione italiana’ del Festival nato negli States, salvo acquisire poi un’identità propria e specifica. Di traduzione ‘napoletana’, anzi, si può parlare, dal momento che la natura dei luoghi contribuirà in misura determinante alla fortuna della kermesse cameristica, prodotta dall’Associazione Scarlatti e in grado di operare una piccola rivoluzione nel panorama dell’offerta musicale italiana del tempo. Consacrata ai piaceri della Hausmusik, la manifestazione irrompe sulla scena napoletana come uno sprazzo di luce inatteso e rinfrancante e schiude a nuove e consistenti fasce di pubblico le porte − fino a quel momento timorosamente socchiuse − della musica classica. È passato più di mezzo secolo da allora, ma un’idea altrettanto intelligente e innovativa molti la stanno ancora aspettando. E non solo a Napoli.
Beethoven in Vermont
Potrebbe sembrare vago o pretestuoso questo ampio preambolo, se non fosse che tra i motivi che hanno spinto Maria Letizia Compatangelo a scrivere lo spettacolo “Beethoven in Vermont” (per poi firmarne la regia) ci sia anche l’interesse suscitato in lei dall’esperienza napoletana della Musica d’Insieme, riletta quasi in termini di conferma del valore universale e della modernità di una formula nata settanta e passa anni fa dalla fantasia di Serkin e soci. “Beethoven in Vermont” ribalta i canoni del concerto classico perché se è vero che, nel pullulare di guide creative all’ascolto e performance variamente contaminate, fa ormai poco scalpore la commistione di parola recitata e musica, è innegabile che qui siamo di fronte a un prodotto diverso e più originale. I musicisti, tanto per cominciare, si fanno attori; oppure è il contrario, ma il risultato finale comunque non cambia. La musica, da parte sua, rinuncia ad essere colonna sonora, o a proporsi come sbocco narrativo obbligato, per diventare invece sostanza stessa della vicenda teatrale, materia prima del racconto. La musica, insomma, stavolta non accompagna l’azione o il pensiero: è azione ed è pensiero essa stessa, senza mediazioni. “Beethoven in Vermont” ripercorre gli eventi, i tormenti e gli impulsi felici che segnarono l’inaugurazione del Marlboro Festival, un gesto di ricostruzione culturale in uno scenario segnato ancora pesantemente dal secondo conflitto mondiale. Tra discussioni e riflessioni inevitabilmente figlie del momento storico che le accoglie, i tre protagonisti del racconto − Serkin e i due Busch − si ritrovano a dover operare una scelta: quella del brano che simbolicamente sveli a tutti il senso del festival e di un progetto. Non una pagina qualsiasi, dunque, ma uno squillo che sia dichiarazione di intenti, manifesto programmatico, oltre che capolavoro musicale e, infine, espressione pertinente delle emozioni di ognuno di loro. Chiamati a decidere, Serkin e i fratelli Busch rivolgeranno lo sguardo alla vecchia Europa distrutta dalla guerra; guarderanno a Beethoven, un genio nato in Germania, a costo di risultare impopolari. Decideranno di inaugurare il Festival, cioè, con il Trio op. 97 “Arciduca”; non certo per sfida, no, ma per offrire al mondo un’immagine-sintesi della loro unione artistica, dei loro princìpi musicali, forse anche dei loro percorsi di vita. Oltre la perfezione delle forme, Beethoven si ritrova allora eletto a simbolo di dialogo e fratellanza tra i popoli, testimone sontuoso di un nuovo modo di fare musica in libertà e in pace; ed è un modo coraggioso, quasi straniante in mezzo alle macerie che ancora fumano di morte. Da quel dialogo assiduo tra le parti – maestri e allievi − e da quella comunione costruttiva di intenti avrebbe tratto spinta il Marlboro Festival, innervato dal confronto vitale tra generazioni diverse con stimoli culturali di varia provenienza. Nella quiete del Vermont, lontano da luoghi istituzionali come accademie o conservatori, si attenuano per la prima volta le distanze tra docenti e discenti, pronti a vivere cinque settimane di intenso lavoro e collaborazione fianco a fianco, studiando, facendo prove e decidendo insieme i programmi dei concerti. La musica da camera diventa, così, metafora di una condivisione di intenti che include la tolleranza e coinvolge persino il pubblico, protagonista e non più comprimario di un avvincente racconto corale. A Marlboro come a Napoli. Il giorno 8 luglio del 1951, alle cinque del pomeriggio, il Festival di Marlboro si annuncia al mondo con l’esecuzione dell’opera 97, “Arciduca”: l’ultimo trio di Beethoven, una sorta di ponte verso i suoi capolavori estremi. In pedana, naturalmente, Adolf Busch, Hermann Busch e Rudolf Serkin. Venti anni dovranno passare per veder nascere la Musica d’Insieme, a Napoli, sulle note del Sestetto di Mendelssohn op. 110, eseguito da Salvatore Accardo, Alain Meunier, Franco Petracchi, Christian Ivaldi, Luigi Alberto Bianchi e Umberto Spiga. La data, il 13 giugno del 1971. Il luogo, quello in cui ci ritroviamo oggi: il Teatro Sannazaro. E il cerchio adesso è chiuso.
La voce dei protagonisti
«Volevamo metterci in gioco in una veste inedita – spiegano Francesco e Angelo Pepicelli (fratelli nella vita, ma non nella storia) – e provare contemporaneamente a confezionare qualcosa che risultasse sorprendente per il pubblico, persino correndo il rischio di minare la solidità del rito standard del concerto. Un artista è sempre alla ricerca dell’anello che lo congiunga allo spettatore, del canale diretto di comunicazione che serva a vincere timori e diffidenze in chi ascolta. Che crei la sana curiosità di cui spesso, oggi, si sente la mancanza. “Beethoven in Vermont” celebra la musica quale antidoto al conflitto, dunque strumento di pace destinato a favorire l’unione, cercando e trovando nuovi punti di relazione e di equilibrio con gli altri. Della musica c’è bisogno».
Il Trio “Arciduca”
“Ultimato nel marzo 1811, il Trio in Si bemolle Maggiore op. 97 fu eseguito – citiamo Arrigo Quattrocchi − per la prima volta nel 1814, con lo stesso Beethoven al pianoforte, in un tragico concerto in cui, secondo la testimonianza di Louis Spohr, «nei passaggi in forte il povero sordo picchiava sui tasti finché le corde emettevano suoni stridenti, mentre nei passaggi in piano suonava così delicatamente da omettere interi gruppi di note, tanto che la musica risultava non intellegibile». La pubblicazione avvenne solo nel 1816, presso l’editore Steiner, con la dedica all’Arciduca Rodolfo d’Austria; tale dedica, oltre ad aver fornito alla composizione l’epiteto di “Trio dell’Arciduca”, è significativa della considerazione in cui l’autore teneva il brano. Infatti all’Arciduca Rodolfo, fratello cadetto dell’Imperatore Francesco I, allievo dal 1803 e poi protettore di Beethoven, il musicista dedicò solo opere di sicuro rilievo, fra cui il Quarto e il Quinto Concerto per pianoforte, la Sonata op. 106 e la Missa Solemnis”.
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti
Concerto 2 novembre

ALEXANDER ROMANOVSKY, pianoforte
Fryderyk Chopin – Waltz in la bemolle maggiore op. 34 n.1, in la minore op. 34 n.2; Scherzo n. 2 in si bemolle minore op. 31; Polonaise in la bemolle op. 53;
Sergej Rachmaninov – 3 Preludi op. 23 (2,3,5);
Felix Mendelsshohn/ Sergej Rachmaninov – Scherzo da Sogno di una notte di mezza estate;
Sergej Rachmaninov – Lilacs op. 21 n. 5; Vocalise op. 34. n. 14 Sonata n. 2 in si bemolle minore op. 36.
Note di sala
di *Gianluca D’ Agostino
Fryderyk Chopin –Valzer op. 34 n° 1 in la bemolle maggiore; n° 2 in la minore; Scherzo op. 31 n. 2 in si bemolle minore; Polonaise op. 53 in la bemolle.
Partito nel 1830 da Varsavia alla conquista del mondo, Chopin dopo Vienna giunse a Parigi, capitale del concertismo internazionale e meta ambita (con Londra) per ogni musicista. Qui fiutò l’aria dei tempi nuovi, aria non tanto impregnata di Bach o Beethoven (classici insuperabili che Chopin comunque continuò a studiare tutta la vita), quanto piuttosto di Rossini, Bellini, Meyerbeer e degli esponenti dello stile cosiddetto “Biedermeier”, i vari Moscheles, Hummel, Kalkbrenner, la cui tecnica era ammirata dalle platee europee dei borghesi e dei nuovi ricchi (i banchieri ebrei Rothschild, per esempio), a misura che la loro musica veniva immessa sul mercato e divulgata in pubblico. Invero, però, la modesta espressività di queste opere non poteva blandire il genio del musicista polacco; e d’altronde il suo intenso, ma sempre trattenuto nazionalismo non restava immune al clima di sommovimenti socio-politici, sotto i cui colpi la restaurazione vacillava. E poi c’era, naturalmente, il problema specifico della Polonia, occupata e spartita tra le grandi potenze. In quel momento, tuttavia, ciò che stava più a cuore al giovane Chopin era il tema del rinnovamento del linguaggio musicale e della stessa tecnica pianistica, e in ciò, o almeno anche in ciò, egli decise di fare la sua propria rivoluzione. Sulla scia di quanto asserito da Schubert circa il “maledetto martellamento dei pianisti”, anche Chopin si avviava a sviluppare una concezione rivolta non alla ricerca della potenza o della brillantezza sonora, ma della varietà timbrica; e questo viaggio, in effetti verso l’ignoto, aveva come oggetto nientemeno che una nuova invenzione del suono.
In senso tecnico, Chopin superò l’attacco classico del tasto – polso leggermente basso, dito ricurvo, estensione incentrata sul metacarpo, percussione in direzione verticale – e ne sviluppò un altro tipo, con polso alto, dito più allungato, flessione incentrata sulla prima falange, percussione in senso circolare al tasto. Inoltre elaborò il famoso tocco “cantabile”, con trasferimento del peso del braccio da un tasto all’altro, e così ottenne che le sue stupende melodie apparissero “fiorite e sciolte”, più o meno al modo di quelle cantate dai celebri divi del teatro. In questo senso è lecito confrontare le melodie belliniane con quelle chopiniane. Parallelamente, con l’uso dei pedali egli otteneva effetti di sfumature stupefacenti per il tempo e anche molto stimolanti dal punto di vista ingegneristico, ossia per gli stessi costruttori dello strumento, come i vari Erard, Pleyel, ecc.
Nella capitale francese Chopin sedusse il pubblico, sia con brani di ampie proporzioni e complessità, come le Sonate, sia con pezzi didattici come gli Studi, sia con tanti altri pezzi vivaci e dagli intenti decorativi, come i Valzer; a ciò affiancando composizioni che ambivano ad essere più rivoluzionarie in senso anche formale, tra cui appunto i quattro Scherzi. Con i Valzer, invece, egli intendeva aderire alla moda dei ballabili da salotto, senza tuttavia rinunciare a raggiungere una tensione espressiva più elevata. Quelli dell’op. 34, conosciuti come “Valzer brillanti”, furono composti in un arco di tempo ampio, tra il 1831 e il 1838, in luoghi diversi e con differenti dediche. Qui, beninteso, la ballabilità è soltanto un pretesto, e infatti per Schumann, che peraltro non sempre fu tenero con il collega polacco, ma che sempre ne riconobbe il genio, si trattava di brani “più per le anime che per i corpi”.
Mentre il primo, in la bemolle maggiore, ha forma di rondò, il secondo, in la minore, è un brano espressivo, e potrebbe essere definito una dumka in ritmo di valzer (dumka in polacco significa pensiero, meditazione). Caratteristica del primo, dopo un preambolo molto convenzionale, è l’arguta distribuzione melodica, il che poi è una cifra distintiva dei migliori compositori romantici: all’inciso ritmico, quella sorta di mordente capriccioso con cui la mano destra attacca la brillante sequenza di scale, corrisponde l’accompagnamento del basso, ma qui appunto avviene anche la dislocazione della melodia, la quale, se si ascolta bene, parrebbe essere (e forse era) una canzoncina infantile o popolare. Qui c’è già molto di Chopin, e forse poco altro ci sarebbe da aggiungere, se non che con l’altro e più bel Valzer, quello in la minore, si viene proiettati in tutt’altro mondo espressivo: fin dall’incipit, con quella bella inversione delle parti (melodia al grave, accompagnamento all’acuto), e poi dall’attacco di quella melodia così dolente, cromatica e angolosa, accompagnata in controtempo. E’ un universo certamente molto “polacco”, dolente, malinconico, in cui non solo le continue modulazioni (degne di uno Schubert) ma persino i mordenti e le acciaccature, sembrano “molcere il cuore”.
Lo Scherzo op. 31 n. 2 in si bemolle minore è un brano eroico che probabilmente veniva percepito anche in un senso patriottico; qualcosa di decisamente teatrale, nel senso che i temi agiscono musicalmente come fossero personaggi da palcoscenico: così fin dall’inizio, con le terzine gravi ascendenti che sembrano porre una domanda, e gli accordi forti e squillanti, puntati, che rispondono in modo perentorio. Poi la sequenza seguente, con la sua ripetizione un po’ scolastica (il pezzo non a caso è tra quelli più assegnati dai didatti ai propri allievi), si rivela essere un paradigma dello stile romantico: melodia puntata nel registro sopracuto su rapido accompagnamento di arpeggi pedalizzati, in un tempo molto rapido e soprattutto incalzante. Qui però stupefacente è il contrasto con la sezione ancora successiva, iniziata con una modernissima transizione accordale al modo maggiore, e proseguita da quella sorta di “valzerino triste” con l’inciso ritmico ostinato al registro medio, e poi con il lungo passaggio brillante, eseguito mentre il basso “passeggia” quasi in modo settecentesco, nelle regioni gravi della tastiera. Tutto meravigliosamente collegato e interconnesso.
Polacche e Mazurche appartengono alla sfera dello “spirito musicale popolare”, e probabilmente Chopin annetté ad alcune di esse, tra le tante che compose, una valenza anche più scopertamente nazionalistica. La Polonaise “eroica” in la bem. maggiore op. 53 è, oltre che uno dei brani più famosi dell’intera letteratura pianistica, quello che forse meglio esprime il suo coté potente, epico, eroicamente polacco. Risale all’agosto del ‘42 ed è gustoso l’aneddoto sulla sua creazione, secondo cui l’autore fu preso da un lavoro così intenso e febbrile da costringere George Sand, la sua famosa musa ispiratrice e soprattutto protettrice, a spostarsi per dormire su un divano in un’altra stanza, per non disturbare il genio, ma anche per non essere lei stessa ossessionata da quel mare di suoni. Pare che a Chopin riuscisse alquanto difficile fissare sulla carta pentagrammata, nella misura esattamente inversa alla facilità con cui improvvisava liberamente allo strumento.
Ne ricordiamo l’inconfondibile carattere dell’introduzione, con le energiche crome ascendenti ad ambo le mani, e soprattutto il famoso tema in mi maggiore, icastico alla mano destra e marziale alla sinistra, presto ripetuto all’ottava con brevi trilli e poi con una serie di progressioni di accordi: tutto qui è all’insegna del trionfale, senza che mai l’esecuzione debba scadere nel pomposo, nel precipitoso o, men che mai, nel fracasso.
Sergej V. Rachmaninov – Tre Preludi dai Dieci Preludi op. 23: n°2, n°3, n°5
La carriera di Rachmaninov (1873-1943) si suole dividere in due grandi periodi: dal 1892 al 1917 è il periodo russo, in cui egli fu principalmente compositore e nel contempo direttore d’orchestra e pianista; poi, dopo la Rivoluzione del 1917, che lo indusse alla fuga e all’espatrio, lui essendo per formazione e convinzioni profondamente antibolscevico, ci fu il periodo americano, in cui Rachmaninov scelse di costruirsi una nuova carriera di pianista-interprete, divenendo uno dei massimi rappresentanti in questo genere e forse il più grande di tutti, continuando in modo saltuario l’attività compositiva e direttoriale. Egli nasce quindi compositore e poi diventa anche grande pianista; e quando diciamo pianista-compositore, dobbiamo necessariamente aggiungere anche “russo”, poiché al periodo di formazione, svolta prima nel Conservatorio di San Pietroburgo e poi in quello di Mosca, vanno probabilmente ascritte le sue esperienze musicali più significative.
I Dieci Preludi op.23 furono composti intorno al 1901-1903 e si immettono, almeno idealmente, nella falsariga dei preludi del Clavicembalo ben temperato e di quelli chopiniani. Sono tutti in forma ternaria e la loro caratteristica, al di là degli aspetti di mera tecnica pianistica, peraltro salienti, e del diverso tasso di difficoltà, è di essere intrisi, se non proprio di reminiscenze tematiche, quantomeno di “spirito russo”. Anch’essi, del resto, rivelano quanto il loro artefice tenesse e si impegnasse nello scoprire ogni minima potenzialità rimasta ancora inespressa nel pianoforte moderno, così come Liszt e Chopin avevano fatto per il pianoforte romantico.
Preludio n. 2 Maestoso in si bemolle maggiore
E’ un pezzo molto brillante e virtuosistico, giocato sulla contrapposizione tra un’ampia figurazione arpeggiata e una melodia accordale alquanto stentorea.
Preludio n. 3 Tempo di minuetto in re minore
L’inizio parrebbe un po’ lisztiano, con l’atmosfera tenebrosa conveniente alla tonalità e la rapinosa discesa delle semicrome al basso, poi però la scrittura diventa più decisamente polifonica.
Preludio n. 5 A la marcia in sol minore
Nella prima ed ultima sezione di questo celebre preludio risuonano la cellula ritmica marziale al basso e gli accordi fitti e ribattuti, nonché il loro crescendo dinamico pieno di energia; nella parte centrale invece (Poco meno mosso) si ode una melodia enigmatica e vagamente folklorica.
Felix Mendelssohn/Sergej Rachmaninov – Scherzo da “Sogno di una notte di mezza estate”
Nel 1888, un giovanissimo e già baldanzoso Rachmaninov, ancora studente a Mosca, trascriveva per pianoforte lo Scherzo-Allegro vivace dal Sogno di una notte di mezza estate (Ein Sommernachstraum) di Mendelssohn, ossia il secondo brano tratto dalla fantasmagorica musica da scena che il tedesco aveva composto, sull’omonima commedia shakespeariana, nel 1826. Com’è ovvio, il pezzo perde il confronto con l’originale, nella misura in cui necessariamente rinuncia alla tavolozza dei colori e dei timbri orchestrali; perde ancor più, se eseguito in modo frenetico, come faceva ad esempio il bravissimo Charles Rosen, che pure ne era competentissimo esegeta, forse volendo imitare il modo del primo Glenn Gould alle prese con il Clavicembalo ben temperato. Invece ne guadagna, se eseguito alla giusta velocità, quando si noti la bellissima e ingegnosa trama polifonica che lo informa e che qui Rachmaninov inspessisce addirittura rispetto all’originale, ricorrendo ad una scrittura che felicemente sovrappone la polifonia bachiana allo “spirito da folletti leggiadri” mendelssohniano.
Sergej Rachmaninov
Lilacs op.21, n. 5
Scritta nel 1902 come parte di una raccolta di Dodici Romanze per voce e pianoforte, è un pezzo lirico, delicato e struggente, dotato di una breve seconda parte appena più mossa.
Vocalise op.34 n. 14
Anche questa fa parte di una raccolta di romanze, e precisamente delle 14 Romanze per voce e pianoforte op.34, scritte nel 1912-15. E’ un brano molto lirico e più lungo del precedente, con una nobilissima melodia dal taglio decisamente moderno e impressionistico. Anche qui c’è una seconda sezione più dinamica, che è piuttosto uno sviluppo tematico della precedente.
Sonata in si bemolle minore op. 36 n. 2
Scritta sempre in quel giro di anni, e precisamente nel 1913, ma poi revisionata nel 1931, la Sonata è considerata opera tipica del Rachmaninov maturo, soprattutto per la ricchezza sonora e la foga virtuosistica. E’ divisa in tre movimenti.
L’ “Allegro agitato” si apre con un folgorante arpeggio discendente, cui fa seguito una melodia che all’inizio a stento si ode tra il martellare sfrenato degli accordi, le ottave ribattute, le volate lungo tutta la tastiera, le improvvise accensioni ritmiche; essa comunque afferma, ad un tratto, il suo proprio carattere, che sta tra l’epico ed il malinconico, e che può riassumersi, in sostanza, nell’alternanza tra un intervallo discendente di terza minore ed uno di terza maggiore: è la cifra ribadita infinite volte nel movimento, attraverso vari sviluppi che paiono concepiti in stile improvvisativo.
Il secondo movimento (“Non Allegro”) ha inizialmente un andamento molto calmo, aprendosi con una melodia assai malinconica che nella fisionomia rassomiglia a quella del Vocalise, e che viene trasportata in vari toni. A ciò segue un episodio decisamente più mosso e dall’andamento rapsodico, e poi una coda brillantissima, che tuttavia si spegne in piano e in tonalità maggiore.
Il finale, Allegro molto, sembra un po’ una forma a specchio del primo movimento, fin dal modo in cui si apre, con quella movenza plateale e la scala di folgorante velocità; ma con la differenza che anche il seguito offre all’interprete occasioni plurime di sfoggiare la propria foga virtuosistica.
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti
Concerto 26 ottobre

RICHARD GALLIANO, fisarmonica
Passion Galliano
Note di sala
di Simona Frasca*
La musica che ci accingiamo ad ascoltare questa sera sarà il nostro interruttore in grado di riattivare identità e origini culturali. Sfogliando l’album fotografico della famiglia Galliano scorgiamo un ritratto di Richard che all’età di 8 anni imbraccia il suo panciuto strumento accanto al padre, insegnante di fisarmonica, pronto ad accompagnare una piccola orchestra moderna. Uno scatto, un destino. Richard partecipa ai campionati di fisarmonica, vincendoli tutti, esegue svariati concerti e interpreta trascrizioni di pagine di autori celebri, cominciando ad intuire un modo diverso di suonare il suo strumento che fino agli anni Sessanta in Francia vantava un repertorio quasi esclusivamente popolare. Si trasferisce a Parigi e diventa fondamentale l’incontro con i fisarmonicisti Joss Baselli e André Astier, come anche con i cantanti Claude Nougaro, Serge Reggiani e Barbara e i jazzisti Chet Baker, Charlie Haden, Ron Carter e Michel Portal. Nell’ambito dell’organologia moderna la fisarmonica è uno strumento tra i più diffusi nel folklore euro-americano; ha trovato una collocazione di rilievo nei contesti contadini tanto da costituire una presenza costante nel progressivo svolgersi della storia della musica popolare. Come è stato giustamente osservato, la fisarmonica è stata a lungo l’emblema del “dopolavoro” dando vita ad una sorta di hausmusik trasferita sul piano della collettività. Nell’immaginario comune fino a qualche decennio fa la fisarmonica si fissava nel clima gaudente e disteso del tempo libero delle osterie in Baviera così come delle feste popolari in Italia. Anche quando compositori colti come Umberto Giordano, Alban Berg o Paul Hindemith inclusero lo strumento nell’organico delle loro opere l’intento fu di sfruttarne i facili effetti di caratterizzazione. Attraverso la fisarmonica la tradizione musicale europea popolare è giunta nel corso dell’800 in Argentina, lì nella variante del bandoneon (un tipo particolare di fisarmonica a doppia bottoniera), la nostalgia della musica degli immigrati europei è confluita nella storia intricata di danze più antiche come la habanera e la milonga, facendo ritorno in Europa nel corso del ‘900 sotto la veste struggente e polimorfa del tango argentino. Gli elementi costitutivi della fisarmonica latino-americana si individuano attraverso i contributi che le derivano da influenze italiane, tedesche, francesi e spagnole trapiantate nel bacino del Rio de la Plata. Il grande mediatore tra tango argentino e tradizione europea fu senza dubbio Astor Piazzolla, tra i principali compositori latino-americani ad aver posto l’accento sulla complessa stratificazione linguistica che si sente pulsare nella storia del tango argentino e del bandoneon. Come lui stesso amava dire: “La mia musica è per il 10% tango puro e per il 90% musica classica contemporanea”. Nella veste piazzolliana il tango argentino ed il bandoneon giungono in Europa rinnovando lo strumento e costituendo un più che valido punto di partenza per molti autori impegnati nella ricerca delle loro origini musicali e nella definizione di un proprio specifico linguaggio. Da questo punto di vista Richard Galliano si presenta come un post-piazzolliano. “Il mio amico Pierre Barouh – ricorda lo stesso Galliano nel profilo biografico redatto in occasione del Passion Galliano tour – ha scritto un bellissimo testo intitolato “L’Allégresse” su una delle mie composizioni “Il Piccolo Circo”, e mi diceva all’epoca: “È incredibile vedere il numero di paesi che hanno fatto della fisarmonica il loro strumento nazionale». In effetti la maneggevolezza dello strumento unito alla varietà di colori che lo rendono un ottimo sostituto del pianoforte hanno reso la presenza della fisarmonica fuori dall’Europa occidentale più che significativa, basti pensare ai repertori in Brasile, Argentina, Colombia, Cina, Russia, Ucraina e nei Balcani. Il fisarmonicista francese ha esperito molteplici combinazioni di stile e di organico, da solo o in ensemble, e ha costruito un linguaggio moderno e “francese” del bandoneon/fisarmonica, non più strettamente popolare né esclusivamente debitore della tradizione argentino-piazzolliana. Un ricordo su tutti: nel 1979 a Bonson sulle Alpi Marittime in un prezioso 45 giri Galliano consegna una delle composizioni a lui più care “Tre immagini per fisarmonica” avviando la sua missione di trasformare il “pianoforte dei poveri” in uno “Steinway con le cinghie”.
La carriera formidabile che ne scaturì, l’attività lunga decenni, costellata di memorabili collaborazione e testimoniata dalle circa settanta incisioni discografiche gli hanno confermato che la strada intrapresa era quella giusta. Galliano è un instancabile sperimentatore, suona la fisarmonica, il bandoneon, il piano acustico, il sintetizzatore e all’occorrenza il trombone. Attivo dal 1970, da quando cioè decise di lasciare la sua città natale Cannes per dedicarsi alla musica da professionista, negli anni ha raccolto collaborazioni discografiche e concertistiche di ogni tipo Juliette Greco, Joe Zawinul, Palle Danielsson, Martial Solal, lo stesso Piazzolla, gli italiani Enrico Rava, Rita Marcotulli, Gabriele Mirabassi. La musica di Galliano è una mescolanza di tango (si badi quello argentino), danze europee, reminiscenze swing e ovviamente di musica francese, soprattutto del genere derivato dall’antica “musette” a cui Galliano si è dedicato da quando il suo maestro e amico Piazzolla gli assicurò che per trovare la sua strada sarebbe dovuto partire dalle sue origini musicali così come lui era partito dal tango argentino. Passion Galliano contempla composizioni originali del francese come “Chat Pître”, “Tango Pour Claude”, “La Valse à Margaux”, immancabili pezzi del repertorio piazzolliano “Vuelvo al Sur”, “Chiquilin de Bachin”, “Milonga del Angel”, “Oblivion” e brani del canzoniere francese come “Ô Toulouse”, “Ma plus Belle Histoire d’Amour”, “Les Feuilles Mortes”. La musica di Galliano possiede la peculiarità di essere reversibile, proponendosi come un raffinato gioco linguistico. Un brano di Galliano scegli tu stesso come ascoltarlo: se chiudi un canale è jazz, se ne apri un altro ti trovi in un bistrot della Parigi anni ’50. L’innesto è così compiuto. Ora possono calare le luci perché siamo nel mood del blues parigino.
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti
Concerto 19 ottobre

LEONORA ARMELLINI, pianoforte
ORCHESTRA DI PADOVA E DEL VENETO
ALESSANDRO CADARIO, direttore
Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791)
Concerto n.5 in re maggiore K 175 per pianoforte e orchestra
Allegro
Andante ma un poco Adagio
Allegro
Galimathias musicum K 32 “Quodlibet”
Molto allegro
Andante
Allegro
Pastorella
Allegro
Allegretto
Allegro
Molto adagio
Allegro
Largo
Molto Allegro
Andante
Allegro
Minuetto
Adagio
Presto
Fuga
Concerto n. 27 in si bemolle maggiore K 595
Allegro
Larghetto
Allegro
Note di sala
di Massimo Lo Iacono*
Il numero K 175, mai modificato nel succedersi delle edizioni del catalogo delle opere di Mozart, indica il primo vero concerto per pianoforte ed orchestra scritto, in Salisburgo, dal musicista (1773): cioè, i lavori indicati così, che lo precedono, sono semplicemente elaborazioni di composizioni di Mozart o altri. In questo modo inizia l’avventura di Mozart in un genere di cui ha formalizzato l’impostazione generale, arricchendolo anche con singole felicissime invenzioni melodiche, ritmiche, strumentali, espressive. Il musicista ha eseguito spesso questo concerto, prediligendolo, ed alcune esecuzioni, in tournée, sono documentate. Le più importanti sono quelle a Vienna, dove si era da poco stabilito, nel 1782, in cui Mozart sostituisce al bel finale originario un nuovo brillantissimo pezzo, Rondò K 382, ritenendolo definitivo: tuttavia la diversità stilistica è molto forte. Nel brioso secondo finale, c’è la tenera euforia di quel primo periodo viennese di Mozart che culmina nel “Ratto dal serraglio” (K 384). Inutile parteggiare per l’uno o l’altro movimento conclusivo del concerto: sono, diversamente molto belli entrambi. Tutti e tre i movimenti hanno forma sonata, generosamente con qualche soggetto in più, elegante, e nuova per l’epoca, dialettica solo-tutti. Il ricco organico strumentale è valorizzato in pompa ed esuberanza nei movimenti estremi, valorizzato con diverso approfondimento espressivo delicato nel movimento centrale. Qui ci sono aliti di nuova, romantica sensibilità. Esistono le cadenze di Mozart.
Il Gal(l)imathias musicum “Quidlibet” K 32: indicato con la doppia L negli scritti di Leopold Mozart, è un singolare divertimento, che può sembrare erroneamente una monelleria, un poupurrit di invenzioni, scritto all’Aja in occasione delle feste per l’insediamento del principe d’Orange 1766. È un lavoro di 17 pezzetti vari (conosciuto in varie stesure con problemi filologici), disposti in modo da realizzare contrasti anche buffi, variando spunti di danza e canti popolari noti; all’inizio c’è una parodia da Haendel ed alla fine una fuga su un inno olandese, verosimilmente il più antico d’Europa, già usato da Mozart poco tempo prima in altro lavoro. Si tratta del canto “Wilhlelmus von Nassouwe” attestato dal 1603, e tutt’ora eseguito di frequente. “Quodlibet” significa che i pezzi possono essere eseguiti indipendentemente. Sul bizzarro nome latino della composizione, su cui i più celebrati esegeti di Mozart poco si sono soffermati, si possono consultare in Internet il sito Treccani ed altri, soprattutto uno francese www.cnrtl.fr/definition/galimathias. Ci sono micro invenzioni di alto artigianato che conservano anche temi di Leopold Mozart, noti solo agli specialisti. E molti ritengono il lavoro in gran parte del papà abilissimo di Wolfgang. Composizioni del genere oggi ignote ai più erano allora in voga nella Germania meridionale. A Napoli questo lavoro sembra non sia mai stato eseguito negli ultimi decenni: forse nei concerti del bicentenario della morte di Mozart (1991) ma non se ne trova traccia. Anche l’indicazione K 32 di questo pezzo non ha subito revisioni nelle varie riedizioni del catalogo delle composizioni di Mozart, il che vale pure per l’indicazione K 595 dell’ultimo concerto scritto da Mozart per pianoforte ed orchestra, completato il 5 gennaio 1791. Fu eseguito da Mozart nel ristorante di tal Jahn, in un concerto in cui la star era il clarinettista Baeher. Questo concerto non è un testamento spirituale: ma lo diventa, come le ultime composizioni di Mozart con clarinetto, le ultime pagine per i confratelli massoni e la sublime “Clemenza di Tito”, ancora poco amata e capita, nonostante le molteplici riprese negli ultimi anni. Scritto forse su commissione, il lavoro è di grande difficolta espressiva, scevro da esuberanza virtuosistica. Ne sono peculiarità la presenza di materiale tematico popolare, ovviamente trasfigurato, ed il serrato dialogo solista/tutti, di rara compattezza. Occasionale esuberanza e tanta intima delicatezza che sembra preludere, come in altri lavori coevi di Mozart, agli aspetti più intimi e squisiti dell’emergente Romanticismo. Magari, si intravede l’ispirazione di Schubert, di qualche spunto di Beethoven, ma mai ascoltando questo concerto si immaginerebbero le esplosioni virtuosistiche al pianoforte e tonanti in orchestra dei compositori del pieno Ottocento. Alcuni temi o frammenti di temi sono ben individuati: nel primo movimento uno spunto dall’aria di Osmin proprio dal “Ratto dal serraglio” ed uno dalla sinfonia n.41; nel movimento centrale uno da La fedeltà premiata” di Haydn; nel finale, il tema del tenerissimo Lied K 596, che si vuole composto utilizzando il tema del terzo movimento del concerto, laddove sarebbe più bello immaginare il contrario. Di questo Lied il lettore dovrebbe cercare in Internet l’esecuzione con il soprano Elisabeth Schwarzkopf ed il pianista Walter Gieseking: talvolta la perfezione è di questa terra. O almeno lo sembra.
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti
Concerto 11 ottobre
FEDERICO COLLI, pianoforte
Domenico Scarlatti – Sonata in re minore K. 32; Sonata in do minore K. 40; Sonata in do maggiore K. 95
Wolfgang Amadeus Mozart – Fantasia in do minore K. 475; Sonata in si bemolle maggiore K. 333
Sergej Prokof’ev – Visions Fugitives op. 22; Pierino e il Lupo (trascrizione per pianoforte di Tatiana Nikolayeva)
Note di sala
di Gianluca D’Agostino*
Domenico Scarlatti, Sonate K. 32 in re minore, K. 40 in do minore, K. 95 in Do maggiore
È probabilmente incauto affermare che poco sia noto sulla prima parte della vita di Domenico Scarlatti (Napoli 1685-Madrid 1757), cioè dal suo apprendistato all’ombra del padre Alessandro, fino al periodo di Roma e poi di Lisbona, rispetto a quanto si sa sulla seconda metà di essa, ossia il suo trasferimento in Spagna, al seguito della sua mecenate musicofila, la principessa Maria Barbara di Braganza di Portogallo, e di suo marito Ferdinando delle Asturie (poi Fernando VI re di Spagna). La verità è che Scarlatti rimane pur sempre un enigma, poiché quasi nulla sappiamo della sua personalità e della sua evoluzione interiore, e che questo vale anche per gli anni della maturità “spagnola”, cioè di quel tempo di grandissima creatività (ancorché egli fosse quasi prossimo alla vecchiaia) nel quale pubblicò, a partire dagli Essercizi per Gravicembalo (1738), la quasi totalità delle sue celebri Sonate. Colpiscono una serie di circostanze; per esempio che fosse già circondato da una “fama quasi mitica”, ma che la vivesse sempre in disparte, come se fosse restio ad approfittare delle occasioni di visibilità che la corte spagnola gli offriva; quella stessa corte che, peraltro, aveva portato in auge il celebre castrato Carlo Broschi detto “Farinelli”, amico di Domenico, ma che da parte sua non si fece certo scappare offerte allettanti, come quella di dirigere le opere e gli spettacoli di corte. Colpisce, dunque, il fatto che Scarlatti apparentemente fuggisse dalle ambizioni di gloria e di carriera, ottenendo sì un importante “cavalierato”, ma in fondo contentandosi di restare sempre il didatta privato dei sovrani e maestro di cappella regio. E che in tal veste fu ostinato e monotematico nel comporre essenzialmente per la sola tastiera (clavicembalo o fortepiano, più raramente organo), in un modo didattico e se vogliamo didascalico, eppure proprio per questa via arrivando a formare, alla fine, un poderoso corpus di oltre 550, straordinarie sonate clavicembalistiche, che avrebbero inciso sulla storia della musica e del linguaggio musicale e influenzato i maggiori compositori successivi. E ancora impressiona che il maggior numero di sonate, comprese quelle più elaborate e impegnative, fu pubblicato, se non proprio composto, negli ultimi anni di vita (dal 1752 al 1757): la celebre “serie regale” in tredici volumi dedicati appunto alla regina, poi passata a Bologna, proprio per il tramite di Farinelli, quindi alla Biblioteca Marciana di Venezia. Parimenti stupisce che non un solo autografo scarlattiano ci sia giunto, poiché tutto è frutto del lavoro di copisti, compresi gli altri due volumi che erano stati precedentemente ricopiati, nel ‘42 (Venezia XIV) e nel ‘49 (Venezia XV), e compresa un’altra serie di quindici volumi (non regale), poi confluita alla Biblioteca del Conservatorio di Parma, e altre collezioni minori. In questo enorme corpus, genericamente divisibile (seguo in questo il massimo studioso di Scarlatti, Ralph Kirkpatrick) in “Sonate del primo periodo”, “Sonate in stile ‘flamboyant’” e “Sonate tarde”, si riflette un’enorme varietà di stili (italiani, spagnoli), di fonti (popolari, colte), di ispirazioni (arcaico, stilizzato, elaborato, innovativo) e di atteggiamenti (melodico, lirico, patetico, meditativo, accademico, pomposo, eroico, brillante, virtuosistico, ecc.). Mentre resta sostanzialmente invariato un principio formale, che è quello di un unico movimento bipartito, ossia diviso in due metà da una doppia stanghetta: la prima metà annunzia il materiale tematico nella tonalità fondamentale e poi si sposta fino a definire, tramite cadenze, quella conclusiva (alla dominante, o al relativo maggiore o minore); mentre la seconda metà si allontana da questa tonalità, fa alcune digressioni, infine ristabilisce il tono fondamentale, sempre attraverso cadenze decisive. A questo principio se ne può abbinare un altro di tipo organizzativo, ossia quelle di scrivere le sonate “a coppie” (per contrasto o integrazione reciproca, tipicamente l’una in minore, l’altra in maggiore); ma molte sono anche le infrazioni a questa regola. Pure importante è la costante attitudine allo stile improvvisativo, che apparenta queste sonate al genere della Toccata seicentesca (cui forse il nostro si era avvicinato tramite il padre Alessandro, o tramite altri maestri napoletani, come Gaetano Greco) e che si rileva da quella che il clavicembalista Enrico Baiano (grande conoscitore di questo repertorio) chiama la “gestione spregiudicata ma saldamente razionale di una miriade di materiali eterogenei”; il che poi ci riporta alla memoria il celebre commento che un contemporaneo fece ad un concerto dello stesso Scarlatti: “la sensazione che mille diavoli sedessero allo strumento”. Le tre Sonate eseguite stasera sono comunque appartenenti al “primo periodo” e appaiono tutte ispirate ad un criterio di massima economia e semplicità. La Sonata K. 32 è un’ “Aria”, molto lirica e patetica, che sembra anticipare le atmosfere dei tempi lenti delle sonate mozartiane; nella stessa falsariga la K. 40, un “Minuetto” parimenti semplice ma con figurazioni melodiche composte da capricciosi salti intervallari di quinta e di sesta e da frequenti abbellimenti (appoggiature, trilli). Le due sonate peraltro provengono dalla medesima raccolta “Roseingrave”, che si deve al musicista Thomas Roseingrave, amico e ammiratore di Scarlatti, che fu l’iniziatore del culto scarlattiano oltremanica. Di altro genere è la K. 95 (anche essa proveniente da una raccolta minore, la “Boivin”), che ha invece l’apparenza di esercizio didattico, ma non banale: su un tappeto di terzine della mano sinistra, si eleva una melodia facile e leggera e dall’aspetto decisamente teatrale, eseguita con tipico incrocio della mano destra tra un “botta” (trillo iniziale al registro acuto) e una “risposta” (salto cadenzale al registro grave).
Wolfgang Amadeus Mozart, Fantasia in do minore K. 475
La Fantasia in do minore K. 475 fu completata da Mozart nel maggio del 1785 a Vienna e viene di norma proposta come introduzione o come complemento alla Sonata per pianoforte K 457. Lo stretto legame tra le due è costituito non solo dalla tonalità, ma dall’atmosfera e dalla sonorità d’insieme, da quel clima di inquietudine appassionata che le accomuna e che a tutti fa subito pensare a un’incredibile anticipazione beethoveniana. Fu espressamente concepita per un fortepiano ”con grossa pedaliera”, avendo Mozart ormai da tempo abbandonato il clavicembalo. Ne consegue che le sonorità sono specificatamente pianistiche: Mozart sfrutta le varietà timbriche dello strumento e vi inserisce inusitate figurazioni e particolari effetti cromatici.
Wolfgang Amadeus Mozart, Sonata per pianoforte n. 13 in si bemolle maggiore K. 333
Si è a lungo ritenuto, e molti ancora pensano, che la Sonata in si bemolle maggiore K. 333 faccia parte di un gruppo di sonate per pianoforte composto da Mozart durante il soggiorno parigino nel 1778 (quello durante il quale gli morì la madre), o che al massimo sia stata composta poco tempo, vale a dire a Salisburgo o a Vienna, ai primissimi anni Ottanta. Studi più recenti suggeriscono invece di collocarla ancora oltre, e precisamente al 1783, nel periodo di Linz. Sia come sia, la Sonata è meno brillante delle “consorelle” del predetto gruppo (K. 330, 331, 332), ma non per questo la si dovrà sentire necessariamente come “dolorosa”, cosa che invece sostiene a un certo punto Hermann Abert. Spicca semmai, sin dal primo tempo, “Allegro”, l’impianto formale rigorosamente classico, la perfetta fisionomia dei temi, e soprattutto il magnifico incastro tematico, secondo un meccanismo che ormai Mozart aveva già ampiamente sviluppato al grado più elevato, e che si ritrova, per esempio, in coevi lavori orchestrali come i Divertimenti. La ripetizione con il “da capo” delle prime sezioni, sia nel primo che nel secondo movimento, è un elemento del tutto convenzionale che probabilmente Mozart era il primo a non soffrire più, e che “allunga un po’ il brodo”. Molto brevi, per converso, sono gli sviluppi centrali. D’altra parte il secondo movimento, “Andante Cantabile”, è davvero “cantabile” ed anche elegiaco nel tono generale, ma il bello qui non sta all’inizio, quanto piuttosto dopo la ripetizione della prima sezione, quando si coglie uno scarto ed affiora effettivamente una nota di “dolore”, espressa, dopo sorprendenti modulazioni cromatiche, da una cellula ritmica iterata (le tre crome e la semiminima) che evidentemente per l’autore assumeva una particolare valenza psicologica. Nel finale, “Allegretto grazioso”, lo Abert individuava tratti di “felice e bonaria giovialità”; direi piuttosto che la sua fisionomia generale ricorda il rondò finale dei concerto per pianoforte (ma qui evidentemente, senza orchestra), con un inizio in cui la scrittura è piena di manierismi un po’ leziosi, ed una sezione centrale dove, di nuovo, Mozart è come se innalzasse il registro emotivo, aumentando la frequenza dei salti intervallari, infondendo notevole varietà ritmica, cesurando il discorso con pausa ad effetto molto teatrale. Anche la comparsa di una Cadenza finale assai virtuosistica, imparenta decisamente la Sonata al mondo dei Concerti strumentali.
Sergej Prokof’ev, Visions fugitives, op. 22
Ci spostiamo, al termine di questo concerto, in Russia, in uno dei momenti più decisivi e convulsi della sua storia moderna, quello cioè tra la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione del 1917. Sergej Prokofiev (1891-1953) si affacciava alla ribalta musicale nazionale, forte soprattutto della vittoria conseguita nel 1914 al prestigioso premio pianistico Rubinstein, ma anche della recente conoscenza di veri “big” della musica, come Debussy, Ravel, Strauss e Djagilev. Dopo questi viaggi europei (che compresero anche una tournée a Roma), tornò a Pietroburgo, ma lo scoppio dei moti rivoluzionari lo indusse a sottoporsi a spostarsi, recandosi prima nei pressi della città, poi raggiungendo la madre nel Caucaso. Lì verosimilmente trovò le condizioni idonee per completare alcune opere che aveva già in gestazione, come la Prima Sinfonia “Classica” e come, appunto, questa raccolta di venti brani per pianoforte intitolata Visions fugitives, iniziata già nel 1915 e ispirata, fin dal titolo, ai versi del poeta Konstantin Bal’mont, considerato tra i migliori esponenti del simbolismo russo. Appare lecito guardare a quest’opera come ad un “carnet delle esperienze tecniche e delle caratteristiche del pianismo prokofieviano”, intendendo con ciò soprattutto la caratteristica articolazione energica e motoristica, gli accordi martellati, i ritmi ostinati, le note fortemente puntate, gli accordi in sforzando, ecc. Una certa stratificazione nella composizione sembrerebbe invece ravvisabile, tra le altre cose, dal fatto che alcuni brani sono provvisti di indicazioni sugli “stati d’animo” con cui erano stati concepiti, mentre altri recano soltanto l’indicazione dinamica, senza sovrastrutture espressive. A dispetto del titolo, la critica suggerisce in questo caso di non parlare di “impressionismo musicale” tout court; tuttavia l’influenza di Debussy (i Preludes, in particolare), beninteso attraverso la lezione “esoterica” di Skrjabin, appare evidente.
1.Lentamente. Il primo brano è quasi un preludio: inizia pianissimo, “con una semplicità espressiva”, per poi mutare in “misterioso”, con accordi un po’ arcani ed una scala discendente con cui il pezzo si conclude svanendo;
2. Andante. Una sorta di arabesco con svolazzi improvvisi e rapsodici di note alla mano destra, contrastate da forte acciaccature dissonanti;
3. Allegretto. In forma ternaria, presenta un primo tema con melodia alla mano sinistra e accordi della destra, ed un secondo tema proposto in senso opposto: qui il tema con semiminime puntate ha andamento quasi marziale ed il senso motoristico crea un effetto suggestivo;
4. Animato. Più mosso rispetto ai precedenti, fortemente ritmato, con veloci arpeggi che attraversano la tastiera in modo quasi toccatistico ed una sezione in 3/4 con note ribattute a formare una marcia quasi meccanica;
5. Molto giocoso. Brevissimo pezzo, scherzoso e umoristico;
6. Con eleganza. Ha modalità ritmate e quasi danzanti, l’armonia è come di consueto molto modulante ed il tema ha nei forti salti intervallari la sua cifra distintiva;
7. Pittoresco (“Arpa”). Brano dall’andamento narrativo e perfino descrittivistico (è l’unica delle Visions che abbia un titolo, “Arpa”), costruito su una melodia evanescente di impronta impressionistica, vicina a Debussy; un susseguirsi di arpeggi è interrotto da un accordo su note basse che porta il pezzo a chiudersi pacatamente;
8. Commodo. Moderatamente vivace e armonicamente più tradizionale dei precedenti: il fitto contrappunto della scrittura non oscura, ma anzi fa risaltare la melodia principale, anche stavolta vicina a Debussy;
9. Allegro tranquillo. Una tipica alternanza di accordi ribattuti e spigolosi, con una veloce risposta di quartine di semicrome, alternata fra le due mani con scorrevolezza;
10. Ridicolosamente. Brano nervoso e ritmato, con accompagnamento della mano sinistra in accordi staccati e con una melodia dissonante alla destra;
11. Con vivacità. Rapidi gruppetti di note suonate come appoggiature;
12. Assai moderato. In tempo ternario, più meditativo;
13. Allegretto. Semplice e dal carattere un po’ scherzoso;
14. Feroce. Il brano più dissonante, ritmato e con forti dinamiche della raccolta, ha il tipico andamento ostinato e percussivo dell’autore;
15. Inquieto. Parimenti ritmato e accentato;
16. Dolente. In forma ternaria, costruito su una melodia discendente, un po’ meccanica e statica, fortemente cromatica;
17. Poetico. Inizia con accompagnamento della destra, mentre la “melodia” cromatica, in realtà quasi atonale, è affidata alla sinistra: le due mani poi passano a suonare insieme nelle stesse figurazioni, eseguendo una serie di accordi che portano alla conclusione;
18. Con una dolce lentezza. Brano lirico, con una imponente melodia a curva della mano destra;
19. Presto agitatissimo e molto accentuato. Movimento velocissimo e martellante con accenti in sforzando della mano sinistra;
20. Lento irrealmente. Il brano conclusivo è il più lungo della serie e presenta una melodia di suggestione impressionistica, con terzine spezzate ascendenti e discendenti che imprimono un senso fortemente cullante ed evocativo, quasi come una barca in tempesta.
Sergej Prokof’ev, Pierino e il Lupo (trascrizione per pianoforte di Tatiana Nikolayeva)
Anni luce, piuttosto che i vent’anni che caddero tra le due partiture, sembrano distanziare le Visions dal Pierino e il lupo. Prokof’ev, rientrato definitivamente nel 1932 in quella che nel frattempo era divenuta l’Unione Sovietica, fu presto accusato dalla censura di stato di attentare alla cultura del popolo, e dunque dovette dimostrare di sapere e di volere onorarla con opere che fossero semplici ed orecchiabili. Nacque così il racconto sinfonico per bambini che tutti conoscono (prima esecuzione: maggio 1936) e che sarebbe col tempo divenuto poi famosissimo (ma che all’inizio fu accolto male): esso ha come protagonista il giovane Pierino e come aiutanti i suoi amici animali, l’uccellino, l’anatra e il gatto, come antagonista il lupo, e come comprimari il nonno e i cacciatori. La genialità qui sta nell’aver composto dei ritratti musicali perfetti di ogni personaggio, ciascuno basato su un leitmotiv e ognuno affidato a un determinato strumento musicale. La trascrizione dell’opera che stasera ascoltiamo fu operata dalla grande pianista russa Tatiana Nikolaeva (1924-1993). Essa necessariamente riduce la pluralità degli strumenti ad uno solo, la tastiera, ma senza sacrificare niente, in termini di colori e di virtuosismo. Il tema di Pierino è esposto all’inizio come un minuetto graziosissimo, ma sono le sue successive variazioni a giocare argutamente sul contrasto agogico e dinamico, oltre che sulla tavolozza timbrica. I successivi trilli e gli svolazzamenti dell’uccellino si perdono appena un po’ nella resa pianistica, che tuttavia guadagna per brillantezza; l’andamento lento del tema dell’anatra è accentuato con il suo caratteristico rubato, e poi ne segue un lungo trattamento anche qui molto virtuosistico. Segue ancora il sornione incedere indolente del gatto, sottolineato da note staccate, e poi quello goffo e impacciato del nonno. Il tema del lupo è trattato con uno straniante effetto di marcia, mentre quello dei cacciatori implica una notevolissima ricerca di effetti timbrici, degna del miglior Liszt; concludendosi il tutto, nel modo migliore ed anche pianisticamente più efficace, con la grande Marcia trionfale finale.
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti
Grande Musica a San Giorgio.Progetto Rachmaninov e dintorni
Pronti con la seconda parte di Grande Musica a San Giorgio dedicata al progetto “Rachmaninov e dintorni” in collaborazione con il Conservatorio Giuseppe Martucci di Salerno. Prosegue così il felice rapporto di collaborazione con il Conservatorio di Salerno, e, in particolare, con la sua prestigiosa scuola di pianoforte. Otto giovanissimi allievi proporranno un vero e proprio cartellone di quattro appuntamenti in omaggio a Rachmaninov, il grande compositore di cui nel 2023 si celebra il 150° anniversario della nascita, proponendo non soltanto sue musiche ma anche composizioni di autori russi a lui legati.
SALERNO, CHIESA DI SAN GIORGIO
30 SETTEMBRE – 28 OTTOBRE ore 19.30
Con il patrocinio morale del Comune di Salerno
Sabato 30 settembre ‒ ore 19.30
Luigi Merone, pianoforte
Sergej Prokof’ev – Sonata n. 2 in re minore op. 14
Sergej Rachmaninov – Etudes-tableaux op. 39 nn. 2, 4, 6
Alessandro Volpe, pianoforte
Sergej Rachmaninov – dai Morceaux de salon op. 10
Alexandr Skrjabin – Studio op. 8 n. 12
Sergej Prokof’ev – Sonata n. 7 in si bemolle maggiore op. 83
Sabato 7 ottobre ‒ ore 19.30
Federico Cirillo, pianoforte
Sergej Rachmaninov – 3 Nocturnes
Alexandr Skrjabin – Mazurca WoO 15; Mazurca WoO 16
Sergej Prokof’ev – “Montecchi e Capuleti” dai 10 Pezzi dal balletto Romeo e Giulietta op. 75; Suggestion diabolique op. 4 n. 4
Lorenzo Villani, pianoforte
Sergej Rachmaninov – dai Morceaux de fantaisie op. 3
Alexandr Skrjabin – Sonata n. 3 in fa diesis minore op. 23
Sabato 21 ottobre ‒ ore 19.30
Davide Cesarano, pianoforte
Sergej Rachmaninov – Preludi op. 23 nn. 1-2-3-4-5
Alexandr Skrjabin – Fantasia in si minore op. 28
Sergej Prokof’ev – Toccata op. 11
Giovanna Basile, pianoforte
Sergej Rachmaninov – Preludi op. 23 n. 6-7-8-9-10; Sonata n. 2 in si bemolle minore op. 36
Sabato 28 ottobre ‒ ore 19.30
William Pio Cristiano, pianoforte
Sergej Rachmaninov – 13 Preludi op. 32; Polka de W. R.
Gianantonio Frisone, pianoforte
Sergej Rachmaninov – Six Moments Musicaux, op. 16
Con la Testa nella Musica – Stagione Concertistica 2023/24

Siamo pronti per una nuova intensa stagione concertistica!
Si apre ufficialmente la campagna abbonamenti della stagione 2023-24. Un programma ricco e trasversale costituito da 18 appuntamenti tra Teatro Sannazaro, teatro Acacia e Teatro Mercadante con orchestre e solisti di grandissimo livello : inaugurazione l’11 ottobre con il pianista Alexander Gadjev e poi, tra gli altri, Leonora Armellini con l’Orchestra di Padova e del Veneto, Richard Galliano, Luigi Piovano con l’Orchestra del Mozarteum di Salisburgo, Alexander Lonquich, Nicola Piovani.
Mercoledì 11 ottobre 2023 – Teatro Sannazaro
Concerto inaugurale
ALEXANDER GADJEV, pianoforte
Giovedì 19 ottobre 2023 – Teatro Acacia
LEONORA ARMELLINI, pianoforte
ORCHESTRA DI PADOVA E DEL VENETO
ALESSANDRO CADARIO, direttore
Giovedì 26 ottobre 2023 – Teatro Sannazaro
RICHARD GALLIANO, fisarmonica
Giovedì 2 novembre 2023 – Teatro Sannazaro
ALEXANDER ROMANOVSKY, pianoforte
Giovedì 9 novembre 2023 – Teatro Sannazaro
BEETHOVEN IN VERMONT, spettacolo scritto e diretto da MARIA LETIZIA COMPATANGELO con il TRIO METAMORPHOSI e musiche di LUDWIG VAN BEETHOVEN.
MAURO LOGUERCIO violino ‒ Adolf Busch
FRANCESCO PEPICELLI violoncello ‒ Hermann Busch
ANGELO PEPICELLI pianoforte ‒ Rudolf Serkin
Mercoledì 15 novembre 2023 – Teatro Acacia
OFM – ORCHESTRA FEMMINILE DEL MEDITERRANEO
ANTONELLA DE ANGELIS, direttore
ETTORE PAGANO, violoncello
Mercoledì 6 dicembre 2023 – Teatro Acacia
NICOLA PIOVANI – NOTE A MARGINE
Marina Cesari, sax
Marco Loddo, contrabbasso
Nicola Piovani, pianoforte
Giovedì 14 dicembre 2023 – Teatro Sannazaro
JAVIER COMESANA, violino
MATTEO GIULIANI DIEZ, pianoforte
Giovedì 18 gennaio 2024 – Teatro Sannazaro
TRIO JEAN PAUL
Integrale Trii di Brahms, Mendelssohn e Schumann (secondo concerto)
Giovedì 8 febbraio 2024 ‒ Teatro Sannazaro
YING – LI, pianoforte
Giovedì 15 febbraio 2024 – Teatro Sannazaro
ENSEMBLE ARS LUDI
I due leoni
Antonio Caggiano, Gianluca Ruggeri, Rodolfo Rossi, percussioni
Giovedì 22 febbraio 2024 – Teatro Sannazaro
ALEXANDER LONQUICH, pianoforte
Giovedì 7 marzo 2024 – Teatro Mercadante
ORCHESTRA DEL MOZARTEUM DI SALISBURGO
LUIGI PIOVANO, violoncello solista e direttore
Giovedì 14 marzo 2024 – Teatro Sannazaro
ANIELLO DESIDERIO, chitarra
Mercoledì 20 marzo 2024 – Teatro Acacia
ORCHESTRA LA FILHARMONIE
ENRICO BRONZI, violoncello
NIMA KESHAVARZI, direttore
Giovedì 4 aprile 2024 – Teatro Acacia
FILIPPO GORINI, pianoforte
I SOLISTI AQUILANI
Giovedì 11 aprile 2024 – Teatro Sannazaro
IAN BOSTRIDGE, tenore
CAPPELLA NEAPOLITANA
ANTONIO FLORIO, direttore
Giovedì 18 aprile 2024 – Teatro Sannazaro
ENSEMBLE BAROCCO DI NAPOLI