Associazione Alessandro Scarlatti
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Concerto 24 marzo 2022 Katia e Marielle Labeque

IGOR STRAVINSKIJ (1882 – 1971)
La sagra della primavera (versione per due pianoforti)
PHILIP GLASS (1937)
Les Enfants Terribles – arrangiamento Michael Riesman

Note di Sala
di Stefano Valanzuolo*

Igor Stravinskij – La sagra della primavera (versione per due pianoforti)
All’origine de “La sagra della primavera” (Le sacre du printemps) sta una visione folgorante, uno spunto onirico sulla quale lo stesso Stravinskij si sofferma nel volume “Cronache della mia vita”. «Un giorno – scrive il compositore – in modo assolutamente inatteso (perché lo spirito era occupato in cose del tutto differenti ), intravidi nella mia immaginazione lo spettacolo di un grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, che osservano la danza fino alla morte di una giovinetta che essi sacrificano per rendersi propizio il dio della primavera. Ecco il tema del Sacre du printemps». Siamo nel 1910, in primavera, e la cosa del tutto differente con cui Stravinskij sta occupando il proprio spirito è “L’uccello di fuoco”. Sarà dopo questo sogno ad occhi aperti che nella mente dell’autore prende forma un’altra impresa musicale, destinata a scuotere dalle fondamenta la cultura del Novecento: “La sagra della primavera”, appunto. Nella nuova creazione, Stravinskij coinvolge due complici preziosi quali l’amico pittore Nikolaj Roerich e Sergej Djagilev, mente e motore dei Ballets Russes. Leggiamo ancora un passaggio dalle “Cronache” stravinskiane: «Nel luglio 1911, dopo le prime rappresentazioni di “Petruška”, partii alla volta della tenuta di campagna della principessa Teniševa, per incontrare Roerich e progettare la sceneggiatura della Sagra. Mi misi al lavoro e in pochi giorni il piano d’azione e i titoli delle danze furono pronti. Mentre eravamo là, Roerich abbozzò i suoi famosi fondali di tipo polovesiano, e disegnò i costumi basandosi su quelli della collezione della principessa. A quel punto, il titolo per il balletto era Vesna Svjaschennaja (“Primavera sacra“ o “Primavera santa”). Il titolo Le sacre du printemps è di Bakst. In inglese, The Coronation of Spring si avvicinerebbe più di The Rite of Spring al senso originario».
Ciò che avvenne al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi il 29 maggio del 1913, in occasione del debutto dello spettacolo (coreografie di Vaslav Nijinskij, direttore Pierre Monteux) è scandalosamente rimasto nella storia. Spiazzato già dall’incipit, affidato ad una melodia di fagotto del tutto irrituale, il pubblico cominciò a prorompere prima in risatine, poi in dissensi più o meno palesi, infine in urla dissennate. Nel “chiasso infernale” della sala, Stravinskij resta dietro le quinte «Ero costretto – racconterà – a tenere per il vestito Nijinskij, fuori di sé dalla rabbia e pronto a balzare in scena per fare una scenata. Djagilev, per far cessare il fracasso, dava ordini agli elettricisti, ora di accendere, ora di spegnere la luce nella sala. Ed è tutto ciò che ricordo di quella prima».
Molto altro avrebbero annotato le cronache dell’epoca. Spettatore tra i più zelanti ed arguti, il ventitreenne Jean Cocteau scrive: «Pubblico mondano con vesti scollate, stracarico di perle, di pennacchi, di piume di struzzo; gomito a gomito con le marsine e i tulles, ecco le giubbe e gli stracci di quella razza di esteti che acclamano il nuovo per diritto e per traverso in odio ai palchettisti… mille sfumature di snobismo, di supersnobismo, di antisnobismo». La contessa René de Pourtalés, con la tiara di traverso, grida brandendo il proprio ventaglio: «Ho sessant’ anni e questa è la prima volta che mi si prende in giro!». Il compositore Florent Schmitt si rivolge alle vicine di posto chiamandole “sgualdrine”. «Per tutto lo spettacolo – avrebbe rimarcato Gertrude Stein – non si riuscì letteralmente a sentire la musica». La qual cosa non impedisce, però, a Ravel di apprezzare fino in fondo la novità di Stravinskij e all’ormai anziano Saint-Saëns, invece, di scappare via inorridito. Mentre in platea si arriva addirittura ai ceffoni, Monteux procede dal podio “impervio e impassibile come un coccodrillo”, come nota Stravinskij. Ogni tanto – dirà Casella – il baccano infernale del pubblico accennava a placarsi. Ma allora emergevano fuori dall’orchestra sonorità così spaventose e dissonanti che il chiasso riprendeva peggio di prima».
«La Sagra – sottolinea Alex Ross nel suo bellissimo libro “Il resto è rumore” – profetizzava un nuovo tipo di arte popolare: cruda ma al tempo stesso raffinata, scaltramente barbarica (“selvaggia e organizzata”, citando Cocteau; ndr), un intreccio inestricabile di stile e di muscoli. Per gran parte del Diciannovesimo secolo, la musica era stata teatro della mente; adesso i compositori avrebbero creato una musica per il corpo». Forse anche per via di quel debutto tumultuoso, il Sacre «…rimase a lungo – secondo Sergio Sablich – il simbolo della musica moderna, in ogni senso: se da un lato la sua apparizione parve sconvolgere tutti i canoni della bellezza e del gusto per l’inaudita violenza con cui si evocava l’irruzione di forze selvagge e primordiali, d’altro canto l’originalità della sua lingua barbarica e “primitiva” esercitò un influsso notevole, e non solo tra le avanguardie musicali del tempo. La radicale novità della partitura, percepibile soprattutto nell’invenzione ritmica, di una ricchezza e complessità senza precedenti, ma estendibile anche ai parametri armonici e melodici, si basava su una visione formale profondamente emotiva, ma improntata anche a una evidenza insieme classica e popolare». Barbaro ma non troppo, se Alberto Savinio nel 1941 aggiunge: «Stravinskij non è una mente primordiale. È un musico educato e spiritoso, che con le sue grosse e nodose mani da giocoliere giapponese, sa costruire dei meccanismi sonori molto curiosi e attraenti».
C’era anche Claude Debussy, quella sera al Théâtre des Champs-Elysées, e sostenne con convinzione la causa del Sacre. Lui e Stravinskij si erano incontrati nel 1910: lo testimonia una fotografia scattata da Erik Satie, in cui compaiono fianco a fianco. Si sarebbero rivisti a Parigi, nel 1912, in casa di Louis Laloy, biografo di Debussy al quale lasciamo il resoconto del rendez vous: «Facevo due passi nel mio giardino di Bellevue con Debussy. Stavamo aspettando Stravinskij. Come ci vide, il musicista russo corse ad abbracciare il maestro francese che, sopra la sua spalla, mi gettò uno sguardo divertito e al tempo stesso commosso. Egli aveva portato con sé la riduzione per pianoforte a quattro mani del suo nuovo lavoro, “Le sacre du printemps”. Debussy acconsentì a suonare il basso sul Pleyel che ancora oggi possiedo. Stravinskij aveva domandato il permesso di togliersi il colletto. Con lo sguardo, immobilizzato dagli occhiali, che dal naso puntava verso il pianoforte, a momenti accennando con la voce una parte, egli trascinava in un torrente sonoro le mani agili e molli del suo collega che seguiva senza intoppi e sembrava infischiarsene delle difficoltà. Quando ebbero terminato, non ci fu più ragione di abbracci e neppure di complimenti. Eravamo muti, messi a terra come dopo un uragano giunto, dalla profondità dei tempi, a strappare la nostra vita alle radici». Dunque, prima ancora che il Sacre debuttasse in teatro, erano stati due geni a tenerlo a battesimo, in forma privata.
La versione a quattro mani del lavoro apparve in stampa il 23 maggio 1913, pochi giorni prima che debuttasse il balletto. Fino al 1922, anno della pubblicazione della partitura orchestrale, essa rappresentò l’unica fonte di studio sul Sacre. Stravinskij aveva approntato pure una trascrizione a due mani (poi perduta), utilizzata forse per presentare il lavoro a Monteux e a Diaghilev, in vista della produzione teatrale. Sarebbe improprio, allora, parlare di versione ridotta dell’opera orchestrale, poiché il prototipo della “Sagra”, appunto, è pianistico e in quanto tale vive di vita propria. Più che una copia in scala piccola, dunque, il Sacre a quattro mani si presenta quale studio di struttura, rimandando alla partitura orchestrale e riproducendone l’idea portante in una forma che stempera, inevitabilmente, il complicato gioco di armonie e ritmi sovrapposti nell’omogeneità offerta dal ricorso ad un unico tipo di strumento.
Nel 1967, Stravinskij avrebbe riscoperto la “Sagra” eseguita a quattro mani da Michael Tilson Thomas e Ralph Grierson e poi incisa, per la prima volta, con la sua stessa approvazione. Della performance condivisa con Debussy, invece, l’autore non avrebbe fatto cenno nelle proprie memorie, diversamente dal compositore francese il quale, invece, nei mesi successivi avrebbe scritto a Stravinskij: «Ho ancora in mente il ricordo dell’esecuzione del vostro Sacre du printemps in casa di Laloy. Mi ossessiona come un bell’incubo e inutilmente cerco di riprovare la terribile impressione. Per questo ne attendo la rappresentazione come un bambino goloso al quale sia stata promessa della marmellata». “La sagra della primavera”, nella sua autorevole forma cameristica, si esegue normalmente sia a quattro mani su un unico strumento (in ciò riproponendo filologicamente la versione autografa dell’autore), sia nella trascrizione ricavata per due pianoforti.

Philip GlassLes enfants terrible (suite per due pianoforti)
Philip Glass, come può testimoniare chi l’abbia conosciuto, è una persona deliziosa. Gentile e schivo, ad onta del carisma che emana, il compositore non ama lo si dica padre nobile di questa o quella corrente. Che poi è quasi sempre la stessa, cioè il minimalismo, alle cui radici egli si pone, inequivocabilmente, insieme a Terry Riley, La Monte Young e ancora Steve Reich e Michael Nyman – le omissioni sono frutto di mera dimenticanza -, ognuno con meriti (ed esiti) diversi e diversamente ragguardevoli. Ben più nutrita risulterebbe la schiera degli adepti e aggregati alla categoria: abbondano, infatti, i minimalisti di tendenza e d’occasione con motivazioni meno credibili, quasi sempre, di quelle degli “ideologi”.
«Non mi sono mai piaciute le etichette – ha spiegato Glass in varie occasioni – però capisco che offrano ai media e ai giornalisti la possibilità di parlare di un grande gruppo di lavoro sfruttando certe somiglianze superficiali. Secondo me non si tratta di una catalogazione efficace: è comoda forse, ma limitante».
Ecco allora che, a un tratto della propria vita e di una vicenda artistica gloriosa (cominciata negli anni Settanta con la fondazione del Philip Glass Ensemble e con l’epocale – almeno in musica – “Einstein on the beach”), Glass abiura il credo minimal integralista per sperimentare soluzioni espressive diverse. È in questa fase di passaggio che prendono forma e consistenza alcune teorie compositive di matrice orientale (la musica indiana e Ravi Shankar, la contemporanea giapponese), soprattutto perseguite in termini di approfondimento ritmico.
La svolta di Glass – al di là delle suggestioni d’Oriente- si sostanzia nell’individuazione non di nuovi modelli compositivi, intesi come presupposti di stile e forma, ma nella scelta di associare la propria musica a intenti descrittivi dichiarati, con ciò sfuggendo ai rischi dell’indeterminatezza, dell’astrazione. «Provo il massimo appagamento – spiega l’autore – nel collaborare con altri artisti: registi, coreografi, pittori o scultori… solo così riesco a conferire un senso reale alla mia musica». È chiara, in questo approccio dichiarato, la volontà di scardinare le barriere tra l’idea creativa e il pubblico. «Alla fine degli anni Sessanta – spiega Glass – uscivamo dalle Avanguardie. Non posso dire che la musica di Stockhausen, per esempio, non fosse interessante, ma talvolta risultava poco coinvolgente. Io e quelli della mia generazione, invece, partivamo dal presupposto di dover scrivere qualcosa che non apparisse astratto e difficile, che facesse breccia nel corpo e nella mente del pubblico».
Da un certo punto in poi, Glass lega assiduamente la propria opera all’immagine – nasce e cresce il filone importante delle colonne sonore – e a spunti letterari scelti per affinità elettiva e trasformati in riferimento creativo. Non è il suo modo di scrivere che cambia veramente, non almeno nelle fondamenta che rimandano ancora, pur nell’evoluzione dei parametri ritmici, all’applicazione di formule iterative irrinunciabili, come un marchio di fabbrica. Diverso, semmai, è il rapporto con il fruitore, che si apre ad una dimensione vagamente pop e non più ostentatamente elitaria. Questo atteggiamento attirerà su Glass gli strali dei “contemporaneisti” senza compromessi, che lo giudicheranno commerciale; ma anche quelli di una componente – per così dire – pigra del pubblico, ossia incapace di cogliere il cambiamento, per cui resterà un autore di nicchia con derive radical chic. Il resto della platea – che non è poi così marginale – continua a considerarlo autore intelligente, interessante e decisamente sopra la media.
“Les enfants terribles” rientra in quella corposa tranche di repertorio glassiano innervata da pulsioni eterogenee, nella fattispecie letterarie e cinematografiche. La suite per due pianoforti con questo titolo, pubblicata due anni fa, nasce come arrangiamento dall’omonimo opéra-ballet del 1996, il cui organico originale prevedeva quattro voci e tre pianoforti. Scritta in collaborazione con la coreografa Susan Marshall su libretto, in francese, dello stesso Glass, “Les enfants terribles” prende ispirazione e nome dal racconto teatrale di Jean Cocteau (1929) e successiva trasposizione cinematografica di Jean-Pierre Melville (1950), alla quale Cocteau prestò apporto come cosceneggiatore e voce narrante della vicenda. Lo spettacolo del ‘96, nato su commissione del festival di danza “Steps” e andato in scena per la prima volta in Svizzera, è tranche finale di una trilogia con la quale Glass rendeva omaggio al multiforme ingegno di Cocteau, prendendo le mosse da “Orphée” (1993) per proseguire, nell’anno successivo, con “La Belle et la Bête”; un titolo, quest’ultimo, portato a Napoli, nel 1995, proprio dall’Associazione Scarlattti.
«Per me – spiega Glass – Cocteau ha sempre rappresentato una figura centrale nel movimento creativo del ventesimo secolo». E, certo, ha senso ricordare come Cocteau avesse non casualmente frequentato il sontuoso salotto di Mme Boulanger (non meno selettivo di quello Verdurin), caro anche a Glass, che della Boulanger sarebbe stato allievo negli anni di studio parigini, Insomma, è in quel periodo che sarebbe sbocciato l’amore del compositore, mai celato, nei riguardi del poeta, scrittore, regista (e molte cose ancora) francese.
Michael Riesman, da sempre collaboratore privilegiato di Glass e musicista di solido mestiere (dal 1974 suona nel Philip Glass Ensemble; dal 1976 ne è direttore musicale; ha diretto tutte le colonne sonore più celebri firmate da Glass, che lo considera semplicemente “un genio” ), ha arrangiato l’opéra-ballet per Katia e Marielle Labèque, su richiesta di Glass e sotto la sua supervisione, ricavandone una suite per due pianoforti, appunto, in cui i ventuno numeri musicali d’origine sono stati ridotti a undici: dieci scene più un’ouverture dalle venature swing. Rispetto agli altri tasselli della trilogia Cocteau, qui manca qualsiasi riferimento testuale ed è solo la musica, sfoggiando un campionario di timbri dagli effetti caleidoscopici, a farsi carico della descrizione, evocando inquietudini e illusioni dei due protagonisti, Paul ed Elisabeth, fratello e sorella uniti da un legame morboso, in un intreccio di amore, follia e incesto che all’epoca di Cocteau provocò molto scalpore.
Le connessioni possibili, sul piano musicale, sono tante, e se talvolta la tavolozza di colori usata da Glass fa pensare a Ravel (quello de “L’enfant et les sortilèges”, per esempio), altrove l’impeto percussivo dei due strumenti quasi allude allo Stravinskij de “Les noces”. In questa apparente molteplicità di sfaccettature risiede uno dei tratti distintivi dell’estetica glassiana, che ammette la digressione estemporanea, quale sana concessione alla curiosità, ma fa riferimento, in ogni episodio, ad un nucleo tematico portante, tanto più percepibile quanto più reiterato e alimentato da una lentezza che genera movimento.
La suite “Les enfants terribles” giunge a quattro anni di distanza dal Doppio Concerto per due pianoforti e orchestra, pure dedicato e da Glass al duo Labèque e inciso, tra l’altro, dalle pianiste francesi con la Los Angeles Philharmonic Orchestra diretta da Gustavo Dudamel. A proposito di Katia & Marielle, il compositore americano ha detto: « Le sorelle Labèque sono fantastiche. Sono grandi esecutrici e grandi interpreti. E sanno sostenere in modo meraviglioso la musica; non solo quella moderna, ma tutta quanta la musica, semplicemente».

* Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti