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LE STAGIONI DEL BAROCCO – AVERSA Mauro Castaldo

LE STAGIONI DEL BAROCCO
Aversa – Napoli
27 aprile – 17 giugno 2023

Giovedì 27 aprile 2023 – Aversa, Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo – ore 19.30
MAURO CASTALDO, organo
Xàcara, un racconto musicale: dal ricercare alla sonata.
Jan Pieterszoon Sweelinck – More palatino; Jacopo da Fogliano – Recerchare & Recerchada; Marco Antonio Cavazzoni – Madame vous aves mon cuor; Antonio de Cabezòn – Diferencias sobre el Canto Llano del Caballero; Giovanni Maria Trabaci – dal Libro II 1615 Gagliarda Prima à 4 detto il Galluccio, Gagliarda Seconda à 4 detta la Morosetta, Gagliarda Quinta Cromatica à 5 detta la Trabacina; Juan Bautista Cabanilles – Xàcara; Domenico Cimarosa – Sonata n°2 del m.s. in la minore, Sonata. n°3 del m.s. in la maggiore, Sonata n°15 del m.s. in sol maggiore, Sonata n°20 del m.s. in la minore, Sonata n°46 del m.s. in la minore, Sonata n°32 del m.s. in sol maggiore

MAURO CASTALDO
È docente di Organo al Conservatorio di Musica “Nicola Sala” di Benevento. Insegna presso i conservatori di musica dall’anno accademico 1989/1990, ha vinto il concorso nazionale per esami e titoli D.M. del 18.07.1990 per Armonia Complementare. È fondatore e presidente dell’Associazione Organistica “Giovanni Maria Trabaci” di Napoli. È autore del libro “Il giardino dei silenziosi – Iuppiter Edizioni” dedicato agli organi delle chiese di Napoli. È diplomato in Pianoforte, Organo e Composizione Organistica, Clavicembalo, Composizione e Direzione d’Orchestra. Ha frequentato, altresì, i corsi di perfezionamento all’Accademia Musicale Chigiana di Siena di Clavicembalo con Kenneth Gilbert e Musica per Film con Ennio Morricone. Nel 1991 ha vinto, presso il Conservatorio “San Pietro a Majella di Napoli”, il Premio di Composizione “Terenzio Gargiulo” con: Interludio per Orchestra, Quartetto per Archi, Suite per Fiati. Nel 1997 ha inciso un CD, interamente dedicato alle sue composizioni per organo, recensito da “The American Organist Magazine” di New York. Nel corso di una lunga attività musicale, che ha avuto inizio nel 1984, ha preso parte in qualità di organista pianista clavicembalista compositore e direttore di coro a rassegne e festival in Italia, Germania, Spagna, Austria.

Il concerto è gratuito

Concerto 13 aprile

Giovedì 13 aprile 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
STEFANO DI BATTISTA, sax
DANIELE SORRENTINO, contrabbasso
ANDREA REA, pianoforte
LUIGI DEL PRETE, batteria


Morricone Stories
una selezione in chiave jazz tra le oltre 500 colonne sonore di Ennio Morricone da film come “C’era una volta in America”, “Il buono, il brutto e il cattivo”, “The Mission” e “Veruschka” fino al brano “Flora” che il Maestro scrisse proprio a Di Battista.


Note di sala
di Stefano Valanzuolo*
Come in una celebre intervista resa da Massimo Troisi in occasione del primo scudetto vinto dal Napoli, anche noi rischiamo di prendere la parola troppo tardi e non poter dire quasi nulla, sulla musica di Ennio Morricone, che non sia stato già detto e stradetto, soprattutto negli ultimi tre anni, seguiti alla sua morte. Pochi musicisti del Novecento (e oltre) possono vantare oggi la sua stessa popolarità e persino – come “la Settimana enigmistica” – un numero altrettanto consistente di tentativi di imitazione. Per numero di esecuzioni, Morricone viaggia al livello di Verdi e Puccini: fa già parte della coscienza collettiva, insomma.
Il mercato, intanto, è passato da un tempo in cui le colonne sonore erano oggetto per cultori della materia a un altro, il nostro, in cui la musica per immagini (mettiamoci dentro pure le serie tv) ha acquisito ben altro spessore mediatico. Semmai, continua a stupire che per scoprire quale e di chi sia la musica, alla fine di un film, lo spettatore curioso debba ancora scorrere quasi tutti i titoli di coda, visto che esecutori e brani solitamente compaiono dopo attrezzisti e catering. Ma questo non c’entra.
In epoca non sospetta, dunque, Ennio Morricone ha cominciato ad affiancare sempre più spesso e volentieri il proprio nome a quello di registi celebri e celeberrimi, contribuendo al successo di molti di loro e provvedendo, nel frattempo, ad affinare un “mestiere” di musicista che non solo di allori – o almeno, non subito – si sarebbe potuto cingere. In sessant’anni di attività, Morricone ha messo assieme diverse centinaia di colonne sonore (quasi mezzo migliaio, riportano le fonti), ha venduto settanta milioni di dischi e vinto due Oscar (uno alla carriera e l’altro per “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino, nel 2016), tre Grammy, quattro Golden Globe, un Leone d’Oro, cinque Bafta, dieci David di Donatello, undici Nastri d’Argento e altre inezie, che inezie non sono. Senza smettere di provare orgoglio, oltre che per questo mostruoso palmares, per l’altra sua dimensione d’autore, legata alla produzione cosiddetta “colta” (come se “C’era una volta in America”, poi, fosse una cosa triviale…) e infine – perché no – per il suo status illustre di Accademico di Santa Cecilia.
Nel mondo della musica, del resto, Morricone era entrato – più o meno alla fine degli anni Cinquanta – da una porta spaziosa, quella del Conservatorio di Roma, con tre diplomi: in Tromba, in Strumentazione per banda e in Composizione; l’ultimo conseguito sotto la guida di Petrassi. Il posto in Rai lo lascia quasi subito, perché l’idea di fare il ghost writer e non firmare col proprio nome le musiche per la radio e la tv lo irrita troppo. Quello in RCA, invece, casa discografica nascente con varie star in scuderia, lo accetta con piacere, accogliendo l’invito di un dirigente acuto, Vincenzo Micocci, al quale molti anni dopo il cantautore Alberto Fortis avrebbe riservato strali da hit ingenerosi. Garinei e Giovannini, che lo notano come trombettista in orchestra, gli affidano l’arrangiamento e la direzione di alcune commedie e da lì – siamo nel 1961 (“Enrico ‘61” con Rascel, appunto) – decolla la carriera di Morricone. Le premesse per la futura gloria ci sono già tutte, o quasi: l’attività di arrangiatore, infatti, porterà presto Morricone a impadronirsi dei meccanismi orchestrali, rivelandogli timbri e potenzialità cui poter accedere, poi, con disinvoltura sempre maggiore; la RCA sarà una palestra pop che, attraverso la cura della forma canzone (e la possibilità di collaborare con Mina, Paoli e Morandi, giusto per fare tre nomi grossi), ne farà un instancabile creatore di melodie straordinarie, tra i massimi al mondo; il rapporto con la scena teatrale è il primo passo verso una musica che rappresenti l’immagine: il cinema verrà appena dopo e sarà una conseguenza quasi ovvia. E poi la tromba, strumento amatissimo per discendenza paterna, che segnerà i primi exploit di Morricone. A Sandro Verzari, trombettista di fiducia (ma il compositore amava dire “trombista”), sarà dato un ruolo di punta nelle colonne sonore degli spaghetti western; le stesse in cui compare pure il fischiatore Alessandro Alessandroni (quello dei “Cantori moderni”).
Perché tutta questa ampia premessa “storica”? Per tratteggiare –si spera- il contesto nel quale prendono corpo e trovano forza un progetto discografico e un concerto come quelli creati dall’ottimo Stefano Di Battista, romano come Morricone e amico di ultima generazione del compositore; il quale, appunto, dopo una cena tra amici per festeggiare il primo Oscar, a bruciapelo gli aveva detto: «Hai il sax con te, Stefano? Be’, allora prendilo, ché ti scrivo un brano»; così nacque “Flora”, giustamente inserito in scaletta. Il contesto, allora (ché è di quello che stavamo parlando), rimanda a un universo sonoro morriconiano molto composito, quasi trasversale, comprendente linguaggi e approcci complementari (“Suono comunicante” si intitola, non a caso, una recente monografia sull’autore scritta da Marco Ranaldi). Un universo, cioè, declinabile non secondo una linea univoca e integralista di pensiero e di stile; ecumenico, aperto a prospettive differenti, percorribile senza scandalo attraverso i sentieri del jazz: così si fa con gli standard consolidati dal tempo, dal gusto comune e dal consenso.
A sostegno di un’ipotesi del genere, va ricordato pure come, parallelamente alla carriera di compositore per immagini, Morricone abbia sempre alimentato una confessata passione per la musica “assoluta”, sviluppata e coltivata all’interno del gruppo romano “Nuova Consonanza”, tra autori ed esecutori che dell’improvvisazione, come atteggiamento espressivo, hanno fatto (e fanno) uso ampio e consapevole. La qual riflessione varrà a ridurre ancor più le distanze tra l’immagine ufficiale del compositore, non più circoscrivibile al grande schermo da Oscar, e le “Stories” raccontate in jazz da Di Battista, felicemente in bilico tra l’omaggio e lo studio.
La riscrittura per quartetto di musiche concepite per organico orchestrale rappresenta una sfida nella sfida, oltre che la chiave di volta dell’intero progetto. «Ho cercato di mettere al centro il valore melodico e armonico – spiega Di Battista – di quello che aveva scritto il maestro, senza intervenire troppo. Sapevo che in queste operazioni è importante essere essenziali, che correvo il rischio di esagerare. Ho cercato di calmare i vari Coltrane, Parker e Gillespie e Miles che entravano nel mio cervello. L’idea era far respirare il tema e trattare ogni assolo come se fosse una linea melodica già scritta. Sembra complesso, ma non lo è stato». Per cercare “il valore melodico e armonico” dei lavori firmati da Morricone, non si è reso necessario citare unicamente i capolavori assodati, quelli cioè conosciuti, premiati, fischiettati e imitati in un modo o nell’altro. Alcuni di essi compaiono in scaletta, sì, per offrire una traccia al pubblico meno militante, ma non pretendono di esaurire il senso dell’intera operazione.
La lista degli highlights irrinunciabili, allora, comprende piccoli (nemmeno tanto) capolavori come il “Tema di Deborah” brano principale di “C’era una volta in America” (capolavoro e basta, senza “piccolo”!) o, ancora, “Gabriel’s oboe”, basato su una melodia che resta geniale ad onta dell’abuso perpetrato nei suoi confronti da pubblicità televisive e cerimonie in chiesa (il film è “Mission”; la parte dell’oboe, stasera, la fa il sax soprano). Altri pezzi famosi sono “Il buono, il brutto e il cattivo” (quello con gli ululati del coyote a conferire ritmo al racconto) e “Metti, una sera a cena”, di Peppino Patroni Griffi, che quasi sembra un compendio nitidissimo della migliore musica leggera italiana degli anni Sessanta (il film è del 1969). Ma – come si diceva poco fa – Di Battista col suo quartetto ha scelto, a ragione, anche titoli assai meno celebrati, laddove la fama della partitura si lega a quella della pellicola: “Peur sur la ville” deriva, per esempio, da una produzione con Belmondo del 1975, “Il poliziotto della brigata criminale”, diretta da Henri Verneuil, già in coppia con Morricone ne “Il clan dei siciliani. E, a proposito di film non epocali, facciamoci una domanda: se non fosse per la bellissima modella protagonista (e per la colonna sonora, si capisce), in quanti terrebbero a mente “Veruschka”, di Franco Rubartelli (tre titoli dimenticabili in carriera: questo, “Simplicio” e “Ya Koo”)? Andando avanti, troviamo “Apertura della caccia”, brano che Morricone avrebbe proposto in numerose occasioni dal vivo, da direttore d’orchestra: possiede i connotati dell’affresco corale, in ciò coerente con il film imponente da cui è tratto, ossia “Novecento” di Bertolucci. “Il grande silenzio”, invece, è un western girato da Sergio Corbucci a Cortina d’Ampezzo e dintorni (!), nel 1968, ma la sua musica rimanda forse più allo stile di “Metti, una sera a cena” che alla cosiddetta “Trilogia del dollaro” firmata da Leone. “Cosa avete fatto a Solange?” e “La cosa buffa”, per concludere, sono due tipici titoli italiani degli anni Settanta, il secondo con Gianni Morandi, nuovamente in veste di attore dopo i vari musicarelli del decennio precedente (invero, più adatti alle sue corde). Sono entrambi pezzi molto riconoscibili, in cui Morricone fa ampio uso di effetti vocali e crea situazioni stranianti inserendo, talvolta, bruschi scarti ritmici all’interno di una trama apparentemente patinata. Ne viene fuori, in fondo, il ritratto sonoro di una borghesia vacillante, minacciata nelle proprie certezze: un racconto in linea coi tempi.
La miscela sapiente di film più o meno famosi (ma le musiche appaiono originali, sempre) ha il merito di prevenire un equivoco possibile. Limitarsi a sottolineare le frequentazioni cinematografiche più roboanti di Morricone (Leone, Pasolini, De Palma, Tornatore, Tarantino ecc. ecc.), infatti, equivarrebbe a fissare la fatidica punta dell’iceberg, distogliendo l’attenzione dalla parte più massiccia di una vicenda artistica esclusiva, innervata dalla volontà, invece, di mantenere in comunicazione i suoni, i linguaggi, i modi della musica, sotto le sembianze di un unico nobilissimo “mestiere”.
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Biglietti

Concerto 6 aprile

Giovedì 6 aprile 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
AMATIS PIANO TRIO
Lea Hausmann, violino
Samuel Shepherd, violoncello
Mengjie Han, pianoforte


Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Trio in si bemolle maggiore op. 11 Gassenhauer

Dmitrij Šostakovič (1906 – 1975)
Trio in do minore op. 8

Franz Schubert (1797 – 1828)
Trio in mi bemolle maggiore op. 100 D.929

Note di sala
di Gianluca D’Agostino*

Composto da Beethoven tra 1797-98 e pubblicato prima a Vienna in parti staccate nell’ottobre 1798, quindi in partitura in Germania, il Trio op. 11 fu, con ogni probabilità, concepito originariamente per clarinetto, violoncello e pianoforte ed eventualmente pensato per sostituire il primo strumento con il violino. Si tratta di un’opera appartenente al periodo ancora giovanile del maestro, e come tale convenzionalmente suddivisa in tre movimenti: Allegro con brio, Adagio, Allegretto-Tema con variazioni.
La sua dedica alla nobildonna Marie Wilhelmine, contessa di Thun-Hohenstein (Vienna 1744-1800) consente di riferire informazioni generali sul conto di quest’ultima, la quale fu una ricca viennese mecenate di musicisti (del calibro di Mozart, ma anche di Haydn e Gluck), ben edotta nell’arte dei suoni (come tale elogiata dal musicologo inglese Charles Burney), ma anche di sottolineare il fatto che tale famiglia era imparentata con altri due importanti committenti del musicista, il principe Lichnowsky e il conte Waldstein: tutti segni evidenti che qui gravitiamo in un’orbita circoscritta di personaggi strettamente a contatto con Beethoven e che, se di “musica d’occasione” si tratti, essa fu comunque concepita per un ben preciso pubblico di intenditori.
Anche il soprannome con cui il Trio è comunemente noto, “Gassenhauer”, ossia Trio della canzone di strada, dovuto al fatto che il suo terzo movimento fu ricavato da un tema popolare (la canzone “Pria ch’io l’impegno”, dall’opera L’amore marinaro, ossia II corsaro di Joseph Weigl, rappresentata con gran successo nella capitale austriaca nell’ottobre 1797), si deve probabilmente a qualcuno di quella ristretta cerchia viennese. Tale circostanza, in ogni caso, getta luce ed apre un interessante spaccato sui contatti intercorrenti, in quel preciso contesto geo-storico, tra musica popolare e musica colta; e peraltro sappiamo che quella melodia fu particolarmente popolare, visto che la ritroviamo utilizzata in singspiel successivi ed anche in musiche composte da svariati altri autori minori, sempre come tema per variazioni.
Si è parlato di opera ancora giovanile, nel senso che vi è abbastanza convenzionale la perfetta simmetria delle frasi ed il pieno rispetto della logica sonatistica, così come la predetta “indifferenza” rispetto alla designazione del primo strumento “cantante”, o in fondo la stessa prevalenza della scrittura pianistica rispetto agli altri strumenti.
Ciò detto, non si possono non riconoscere in essa fremiti tipicamente preromantici e stilemi già propri della maturità del maestro. Questo è visibile nel primo movimento, dove peraltro Beethoven indugia in una certa ambiguità armonico-tonale (soprattutto tra il si bemolle maggiore, tonalità d’impianto, e il sol, passando per il do ed il fa), e dove è notevole soprattutto il secondo tema, o secondo gruppo tematico, per la sua ben marcata fisionomia ritmico-armonica; così come colpisce che nella coda finale, dopo la ripresa dei due temi principali, si riusi un piccolissimo inciso già udito in precedenza, a cui viene improvvisamente conferita una certa prominenza. Meno originale è il successivo Adagio, parimenti basato su un gioco di motivi piuttosto rassomiglianti. Mentre il finale, con le sue nove variazioni sul tema popolare cui si è già accennato, se da un lato è certamente debitore della tradizione della “aria variata”, dall’altro esibisce una struttura estremamente compatta e, specialmente nelle ultime variazioni, la più grande indipendenza e la più varia distribuzione tematica tra le diverse entrate degli strumenti.

Franz Schubert eccelse per il dono dell’invenzione melodica. Liszt lo definì “il musicista più poetico che sia mai esistito”, e la dimensione intima fu privilegiata dalla sua sensibilità. La sua vita, la sua attività di compositore, la sua posizione sociale, presentano i contrasti tipici del periodo romantico: spesso visse ospite di amici, poeti, artisti per i quali compose delle musiche intime, delicate, che animarono le famose Schubertiaden (le serate dedicate a Schubert). La leggerezza e il disimpegno sono però intimamente connessi con l’amara consapevolezza di non appartenere al mondo, di non poter aspirare alla felicità. Schubert fu dunque un “viandante” che vide il bello ma anche tutto il male e il dolore della vita, sentendosi inadeguato a viverla con quella libertà individuale che pur desiderava fortemente, e concependo un pessimismo esistenziale pari a quello di Leopardi o Schopenhauer, entrambi suoi contemporanei.
Gli ultimi due anni di vita e di attività compositiva rappresentano un mistero. Nei diciotto mesi che intercorrono tra la morte di Beethoven e la propria aumentò l’attenzione da lui rivolta alle forme e alle strumentazioni classiche, la sinfonia, il quartetto, il quintetto d’archi e quel trio con pianoforte di cui non si era ancora occupato.
Beethoven aveva dedicato una grande attenzione a tale organico, da vero tedesco, sebbene vivesse a Vienna, ma comunque possedendo un’etica e una severità di stampo luterano, in netto contrasto alla leggerezza viennese. Per contro Schubert, da fiero viennese, affonda le sue radici in Haydn e Mozart e nel canto popolare accompagnato.
Dall’estate al dicembre del 1827 (Beethoven era morto il 26 marzo di quell’anno), nascono i due grandi Trii, op. 100 e op. 99. La composizione dell’op.100 si intreccia con quella dell’op.99, anzi addirittura la precede.
Iniziato nel novembre 1827, questo Trio è completato in meno di un mese ed eseguito subito, il 26 dicembre, per il Musikverein di Vienna e da musicisti di gran nome. La composizione ebbe anche tanto successo da essere rieseguita durante l’unico, grande concerto monografico che Schubert ebbe in vita sua, organizzato dalla Società degli Amici della Musica il 26 marzo 1828, in occasione del primo anniversario della morte di Beethoven. Si trattava di un simbolico e inatteso passaggio di testimone, reso purtroppo vano dalla morte di Schubert stesso, il 13 novembre di quell’anno. A completare il quadro di questo successo, l’op.100 venne immediatamente pubblicata da un importante editore, Probst di Lipsia, mentre per l’op.99 bisognerà attendere fino al 1836.
Il primo movimento del Trio op.100 è assai ampio nelle sue proporzioni: 633 battute, circa un quarto d’ora di durata, una volta e mezza quella del primo tempo dell’op.99. La cellula iniziale è un unisono dei tre strumenti che si evolve in valori sempre più corti, come un continuo alternarsi di brevi frammenti e di pause, fino a partire definitivamente. Dalla tonica (mi bemolle maggiore) ci si allontana andando a sol bemolle, a re bemolle e qui cade poi sulla cellula tematica di un apparente secondo tema, che si trova nel tono lontanissimo di si minore.
Quando finalmente si giunge con stabilità nel tono di dominante, e noi pensiamo sia giunta l’ora di un vero secondo tema, ecco che la cellula base, la nota di volta inferiore, si rivela vistosamente “figlia” della prima area tematica, e ciò accentua la vertigine delle mille possibili interpretazioni formali. E infine, quando dopo ben 140 battute il clima si distende in quello che ad orecchio sarebbe un vero secondo tema, ecco che ci accorgiamo che si tratta ancora della stessa nota di volta inferiore rallentata. E siamo in coda della lunga Esposizione. Segue un enorme sviluppo.
L’Andante con moto inizia con un canto di violoncello. Il ritmo del pianoforte è cupo, con quell’accento asimmetrico posto sull’ultima croma della battuta di due quarti. E il canto di violoncello, un lungo soliloquio che si avvolge su se stesso, proviene da una melodia popolare svedese dal titolo “Vedi, il sole declina” ascoltata a Vienna. Lo sviluppo di tale tema raggiungerà momenti angoscianti.
Lo Scherzo sembra uscire sorridente lieto dall’oscurità profonda del secondo movimento. Mentre il quarto movimento, l’Allegro moderato, inizia con una cellula lineare e giocosa. Si introduce subito un secondo elemento veloce, che tocca tutti e tre gli strumenti con vari sviluppi e riprese. Anche qui c’è un ampio sviluppo che sembra quasi non aver mai fine. Ma il finale invece arriva, ed è il ritorno del canto drammatico e profondo del violoncello del secondo movimento, che in questo modo sembra chiudere il cerchio.

Impressiona sempre, parlando di musica e di compositori, che un ragazzino di soli sedici-diciassette anni padroneggi già così bene la tecnica compositiva, da saper dar vita ad un brano che vada ben oltre le mire di “saggio di conservatorio” e si proponga, invece, come vera e propria opera cameristica. Tale è il caso del primo Trio in do minore op. 8 per violino, violoncello e pianoforte di Dmitri Shostakovich (1906-1975), che fu composto nel 1923 in Crimea, dove il nostro si era recato per curarsi la tubercolosi, e proposto l’anno successivo appunto come saggio per passare dal Conservatorio di Pietrogrado (nome con cui fu nota, dal 1914 al ’24, la città di San Pietroburgo, poi Leningrado) a quello di Mosca. Le cronache narrano (per bocca della sorella del compositore, nonché un po’ sua agiografa) che allora il giovane si era innamorato di una collega sua coetanea, certa Tatyana Glivenko, la quale infatti fu la dedicataria della composizione, romanticamente denominata “Poème”: la giovane sarebbe poi stata corteggiata a lungo dal compositore, ma a quel che sembra invano. Inoltre pare che il Trio fu assemblato da Shostakovich e provato insieme a due suoi colleghi musicisti, in un cinema moscovita durante la proiezione di un film muto; e in effetti molti critici sono concordi nell’associare una partitura così piena di improvvisi contrasti agogici, dinamici e soprattutto tematici, com’è questa, allo scorrere cangiante di immagini cinematografiche.
Il carattere di “saggio” è ravvisabile nell’essere il Trio formato da un solo movimento, con un’alternanza di sezioni dall’andamento sempre contrastante, generalmente la prima lenta e patetica, la successiva più vivace e drammatica. L’Andante iniziale principia con un motivo discendente di semitoni a carattere doloroso, esposto dal violoncello e ripreso dal violino su un pedale armonico del pianoforte: questa successione di semitoni, secondo una tradizione musicale tipicamente romantica che trova nel Tristano e Isotta wagneriano il massimo esempio, evocherebbe, in senso descrittivo, il desiderio amoroso. Il tema viene ripreso ed espanso dal pianoforte, per poi accendersi improvvisamente nella successiva sezione Molto più mosso, introdotta da ampi intervalli melodici e ruvide dissonanze, tipici del registro “grottesco”. Non siamo lontanissimi, qui, dallo Shostakovich impareggiabile sinfonista.
Una ripresa variata del primo tema precede l’Allegro, caratterizzato da un ritmo angoloso e da un profilo melodico, direi, tipicamente slavo: questa sezione accelera progressivamente fino a culminare con la sezione Più mosso, una specie di moto perpetuo eseguito dal violino e sorretto dal pianoforte. Essa si spegne su accordi cullanti dello strumento a tastiera.
L’Andante successivo è forse da considerarsi il fulcro emotivo del Trio: una sorta di “ninna nanna” dal sapore vagamente lisztiano, esposta dal violoncello e accompagnata dallo strumento a tastiera, con il tema poi ripreso dal violino. Segue un ritorno del tema dell’Allegro, su cui si innesta un tema ancor più vivace (Prestissimo fantastico) di carattere veramente virtuosistico e dove è molto serrata la dialettica tra le parti.
Una gran pausa drammatica introduce la ripresa con il ritorno dei temi, già tutti uditi e abilmente cuciti insieme: il languido motivo introduttivo, la “ninna ninna”, l’Allegro da noi definito “slavo”, il moto perpetuo.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 23 marzo

Giovedì 23 marzo 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
QUARTETTO ADORNO
SANDRO DE PALMA, pianoforte

Camille Saint-Saëns (1835 – 1921)
Quintetto in la minore op. 14
***
César Franck (1822 – 1890)
Quintetto in fa minore

Note di sala
di Gianluca D’Agostino*

È stato notato che nel repertorio cameristico il genere del quintetto per pianoforte e archi non è molto rappresentato e che in ogni caso esso fu poco frequentato fuori dalla tradizione austro-tedesca, tradizione che in questo caso si compendia nei nomi esemplari di Schumann e Brahms.
Questi modelli, in effetti, rimasero e rimangono insuperabili dal punto di vista formale, cioè riguardo alla soluzione del “problema” di base posto dal genere, quello della dialettica intercorrente tra il quartetto d’archi, concepito come “piccola orchestra”, ed il pianoforte, pensato invece come “solista” e impegnato, essenzialmente, nello sfoggio virtuosistico e brillante.
A tali modelli e in questa prospettiva guardò, inevitabilmente, anche il francese Camille Saint-Saëns (Parigi 1853 – Algeri 1921) il quale, da parte sua, oltre ad essere un gran virtuoso della tastiera, fu anche un compositore molto versatile, fermo restando che fu essenzialmente un compositore-pianista e dunque a suo agio completo nella scrittura per tastiera, come dimostrano soprattutto i cinque Concerti per pianoforte e orchestra. Il problema del confronto-scontro con i tedeschi fu sempre una delle sue preoccupazioni, visto che il compositore si pose, o meglio di sarebbe posto come massimo alfiere della scuola nazionale locale, nonché come principale artefice (con Franck, d’Indy, Lalo, Fauré, suoi colleghi e co-fondatori della “Société Nationale de Musique”) del rinnovamento e del rilancio della cosiddetta “Ars gallica”.
Ben prima che ciò accadesse, cioè intorno ai vent’anni, il musicista aveva già composto questo suo Quintetto in La minore op. 14, intendendo l’opera appunto come occasione di sfoggio solistico sulla base di un accompagnamento di una (piccolissima) orchestra d’archi: in questo senso, proprio allo scopo di enfatizzare il ruolo degli archi, nella pubblicazione finale fu inclusa una parte opzionale di contrabasso. Significativa è anche la dedica dell’opera a Charlotte Gayard Masson, la prozia che, dalla morte del padre, era andata a vivere con Camille e con la sua mamma, e che aveva avuto il merito di avviarlo (e molto bene) allo studio serio del pianoforte: significativa perché ci apre uno spaccato sulla formazione del giovane compositore e sulla dimensione “domestica” di questa pagina.
In questo caso, tuttavia, domestica non vuol dire acerba, poiché anzi questa composizione appare curatissima e anzi impeccabile da un punto di vista formale, come subito notarono, concordemente, un po’ tutti i primi critici e recensori.
La serissima e drammatica introduzione accordale del primo movimento, Allegro moderato e maestoso, forma un motivo che ricorrerà durante tutto il suo svolgimento e che verrà ripreso anche in seguito. Dopo degli arabeschi del pianoforte e dopo una sorta di coda solistica molto brillante, la risposta affidata agli archi è più lirica e delicata e solo a quel punto si dà il via ad una pagina splendidamente strutturata, dove si evidenziano almeno tre idee tematiche ottimamente messe in contrasto tra loro. Una lunga sezione che potremmo chiamare di sviluppo è dedicata all’elaborazione tematica e più ancora al rovesciamento delle parti, nel senso, per esempio, che il memorabile tema iniziale è affidato questa volta agli archi e con la risposta del solista. La ripresa e ancor più la coda del movimento conoscono, sul finire, un’inaspettata accensione ritmica ma soprattutto armonica, che prende una piega ancor più drammatica rispetto al principio e direi quasi esasperata.
Il secondo movimento, Andante sostenuto, ha un respiro che potrebbe dirsi liturgico, più da un punto di vista armonico che melodico, conferito in generale dalle delicate note ribattute degli archi su arpeggi del pianoforte o, ancora, da certe volatine sempre degli archi, ma ancor più, appunto, dalle audaci modulazioni del brano e dalle sue inusuali digressioni armoniche.
Ma è il successivo Presto a colpire l’attenzione dell’ascoltatore, grazie in particolare al carattere di brillantissimo perpetuum mobile del pianoforte (molto lisztiano), nel quale fa capolino a un certo punto il serio motivo di apertura del Quintetto. Questo elemento ci ricorda che la ciclicità – oltre all’ordine e all’equilibrio formale di stampo quasi “neo-classici” – era un altro fondamento dell’ideale compositivo dell’autore e che in questo egli, come peraltro molti altri autori di quella generazione, fu molto debitore appunto verso Liszt.
Il finale, Allegro assai ma tranquillo, può definirsi un saggio accademico: un severo fugato che coinvolge all’inizio solo gli archi e che poi apre la via ad una nobile melodia di nuovo enunciata dagli archi e poi ripresa, e variata, dal pianoforte.
Composto tra 1878 e 1879, il Quintetto in fa minore per pianoforte e archi di César Franck (Liegi 1822 – Parigi 1890) risulta nel complesso più “concertante” e decisamente più complesso di quello di Saint-Saëns precedentemente analizzato. Esso comprende tre lunghi movimenti, con i due esterni più impetuosi, e quello centrale, di carattere molto vario e più meditativo. Alla drammatica introduzione degli archi al primo movimento, Molto moderato quasi lento, risponde il pianoforte in modo più solenne e più calmo, con prolungati arpeggi: questi due temi contrastanti formano il corpo principale del primo movimento, ma subito essi prendono a suonare simultaneamente e a fondersi l’uno nell’altro, secondo una tecnica che evidentemente doveva essere molto cara al compositore. Inoltre lo sviluppo vede un intensissimo lavorio di elaborazione tematica, con delle pause improvvise molto “a effetto” alternate ad improvvise accensioni, mentre il finale tocca livelli di alto lirismo e di pathos trascinante.
L’amplissimo secondo movimento, Lento, con molto sentimento, è probabilmente la parte più bella dell’opera, anch’essa giocata, almeno inizialmente, sulla logica del contrasto: quello derivante tra l’andamento ripetuto e monocorde del pianoforte e le brevi impennate melodiche degli archi. Ben presto, però, il gioco dialettico tra le parti aumenta e si complica, fino a dar corpo ad uno straordinario caleidoscopio di trame motiviche, di dinamiche, di sfumature armoniche, davvero complicato a descriversi, se non ricorrendo ad immagini extra-musicali, come quella delle onde del mare che continuamente di frangono e ritornano indietro. Oltretutto anche qui si riaffaccia lo stratagemma delle pause, dopo ognuna delle quali sembrano ripartire nuove digressioni tematiche che conducono lontano da dove si era partiti.
Enigmatico, al limite del pauroso, è infine l’incipit dell’ultimo movimento, Allegro non troppo, ma con fuoco, eseguito dal primo violino. Il prosieguo è all’insegna dell’alternanza tra blocchi tematici, dove comunque spicca il carattere meramente ritmico di una melodia prevalentemente condotta dagli archi, su accompagnamento pianistico, comunque sempre cangiante.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 16 marzo

Giovedì 16 marzo 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
JAN LISIECKI, pianoforte


Fryderyk Chopin (1810 – 1849)
Studio in do maggiore op. 10 n. 1
Notturno in do minore op. post.
Studio in la minore op. 10 n. 2
Notturno in mi maggiore op. 62 n. 2
Studio in mi maggiore op. 10 n. 3
Studio in do diesis minore op. 10 n. 4
Notturno in do diesis minore op. 27 n. 1
Notturno in re bemolle maggiore op. 27 n. 2
Studio in sol bemolle maggiore op. 10 n. 5
Studio in mi bemolle minore op. 10 n. 6
Notturno in mi bemolle maggiore op. 9 n. 2
Notturno in do minore op. 48 n. 1
***
Notturno in sol minore op. 15 n. 3
Studio in do maggiore op. 10 n. 7
Notturno in fa maggiore op. 15 n. 1
Studio in fa maggiore op. 10 n. 8
Studio in fa minore op. 10 n. 9
Notturno in si bemolle minore op. 9 n. 1
Studio in la bemolle maggiore op. 10 n. 10
Notturno in la bemolle maggiore op. 32 n. 2
Studio in mi bemolle maggiore op. 10 n. 11
Notturno in do diesis minore op. post.
Studio in do minore op. 10 n. 12

Note di sala
di  Pierpaolo De Martino*
Il programma interamente dedicato a Chopin proposto stasera da Jan Lisiecki ha un’articolazione inconsueta: la raccolta degli Studi op.10 viene eseguita non inanellando i dodici pezzi uno dietro l’altro in successione, ma in combinazione con undici Notturni, in modo da formare un ciclo più ampio. Muovendo dalla tonalità di do maggiore del primo Studio e giungendo fino al do minore dell’ultimo, attraverso una trama di affinità tonali (relazioni di quinta e di modo maggiore-minore) si delinea un percorso che intreccia due generi di solito considerati assai distanti fra loro ma che in realtà incarnano due aspetti contigui del modus operandi di Chopin.
Considerati oggi pilastri del pianismo professionistico, banchi di prova pressoché d’obbligo per qualsiasi candidato nei concorsi internazionali, gli Studi inizialmente non erano stati pensati da Chopin per la sala da concerto ma per sé stesso. Si dimentica troppo spesso, infatti, che la formazione pianistica di Chopin fu quella di un sostanziale autodidatta: il suo maestro Wojceck Zywny, modesto didatta-pianista-violinista, era certamente armato di una tecnica poco avanzata e i primi studi scritti dal suo allievo nel 1829 nacquero come esercizi preparatori, prendendo a esempio gli Studi op.20 di Joseph Kessler. La raccolta così come noi la conosciamo oggi, pubblicata nel 1833 e dedicata a Liszt, non ci sarebbe stata però senza la folgorazione ricevuta ascoltando Paganini a Varsavia (che negli stessi anni folgorò anche Schumann e Liszt) e senza il viaggio che condusse Chopin a Parigi nell’autunno del 1831. La capitale francese a quel tempo pullulava di pianisti-compositori in lizza fra loro – Kalkbrenner, Herz, Pixis, Dreyschock, Hiller, Liszt e Thalberg – tutti orientati verso un nuovo virtuosismo funambolico. Alcuni di loro si erano già messi in evidenza come autori di Studi da concerto, benché nessuno, a parte di Liszt, fosse stato capace di elaborare una tecnica innovativa che potesse stare al pari con quella elaborata dal semisconosciuto ventenne polacco, il quale peraltro, non amava particolarmente le esibizioni concertistiche e preferiva farsi ascoltare nelle dimensioni più intime dei salotti privati.
Le clamorose novità degli Studi op.10 (e dei successivi Studi dell’op.25) derivarono in parte dalle caratteristiche delle mani di Chopin: mani “da serpente” secondo Stephen Heller – non grandi, ma affusolate ed estremamente flessibili, con un pollice molto distanziato dalle altre dita – che lo spinsero verso la sperimentazione di un’ampia gamma di tecniche del tocco: dalla rotazione del polso all’uso sistematico del pollice sui tasti neri; dalla posizione bassa rispetto alla tastiera all’attacco del tasto con polso alto e dita allungate; dall’uso del dito medio come perno negli spostamenti laterali alle diteggiature di sostituzione. Tecniche tanto inusuali ed eterodosse da indurre l’autorevole critico Ludwig Rellstab a dichiarare velenosamente che con quegli strani studi chi aveva le dita storte se le sarebbe raddrizzate, ma chi le aveva dritte avrebbe fatto bene a lasciarli perdere, a meno che non avesse a portata di mano un paio di chirurghi. La verità è che gli Studi chopiniani tendevano a oltrepassare del tutto la dimensione “meccanica” degli analoghi lavori scritti dai tanti acrobati della tastiera attivi nella Parigi degli anni Trenta. Chopin avrebbe scritto poi: «per la borghesia ci vuole sempre qualcosa di straordinario e di meccanico che io non posseggo»; e in effetti l’essenza profonda del suo virtuosismo era di una natura del tutto particolare, mossa com’era dall’attitudine a sperimentare sonorità e soluzioni timbriche inedite.
In quest’ottica gli Studi appariranno dunque non molto dissimili dai Notturni, che richiedono un’arte del tocco estremamente sofisticata. Chopin a questi ultimi si dedicò fin dal 1827 sotto l’influsso di John Field, pianista-compositore irlandese allievo di Clementi, che aveva guadagnato larga notorietà europea proprio grazie ai suoi Nocturnes, inizialmente intitolati Romances. Denominazione quest’ultima che lasciava intendere manifestamente i legami con la musica vocale di brani fondati su melodie cantabili, con accompagnamenti arpeggiati e regolari e con articolazioni formali semplici legate alla forma di canzone ABA. L’impronta di Field si coglie con evidenza nelle melodie di tipo vocalistico e nelle formule di accompagnamento affidate alla mano sinistra che ritroviamo nel Notturno op. postuma in do diesis minore, che Chopin dedicò alla sorella maggiore Ludwika nel 1830, così come nei Notturni op.9 n.1 e n.2, pubblicati nel 1832. Ma già in queste prime prove la gamma armonica impiegata da Chopin appariva di gran lunga più varia di quella del modello, superato anche nell’opulenza dell’ornamentazione che guardava allo stile esecutivo dei grandi cantanti italiani dell’epoca, Giuditta Pasta, Maria Malibran, Giovan Battista Rubini.
Nei Notturni seguenti la ricerca chopiniana, pur senza alterare mai del tutto i connotati fondamentali del genere, ne ampliò enormemente le potenzialità allontanandosi dai tratti belcantistici e sperimentando forme sempre più sofisticate di cantabilità puramente pianistica, non escludente il ricorso a un liberissimo contrappunto. L’inventiva di Chopin incise anche sul piano formale, adottando strutture come quella del rondò – nel Notturno in re bemolle maggiore op.27 n.2 – o introducendo varianti nel tradizionale schema ABA, come accade nei Notturni op.15 n.1, op.27 n.1, op.32 n.2 nei quali anziché tre sezioni placidamente consequenziali, sia ha una forte intensificazione emotiva nella parte centrale, del tutto contrastante con quanto precede e segue. Né Chopin mancò di ricorrere a soluzioni più sofisticate come nel sorprendente Notturno op.15 n.3, (1833) mai divenuto popolare, dove le sezioni sono solamente due: un “Lento” languido e rubato che cede il passo a un “religioso” “sotto voce”; o come nel Notturno op.48 n.1 (1841) la cui sezione centrale, costituita da un intenso corale, attraverso una progressiva crescita di energia sonora, con eclatanti passi di doppie ottave, sfocia in una ripresa grandiosamente trasfigurata. La tinta maestosa e potente del finale di questo Notturno costituisce un picco drammatico memorabile che contrasta vivamente con la tendenza alla rarefazione presente negli omonimi lavori successivi e pienamente percepibile nella purezza crepuscolare del Notturno op.62 n.2, dato alle stampe nel 1846, tre anni prima della morte; l’ ultima fra le tante, diversissime, gradazioni espressive che Chopin fu capace di esplorare nel caleidoscopico percorso dei suoi Notturni.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 23 febbraio

Giovedì 23 febbraio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
QUINTETTO BARTHOLDY
Anke Dill e Ulf Schneider, violino
Barbara Westphal, viola
Volker Jacobsen, viola
Gustav Rivinius violoncello


Alexander Zemlinsky (1871 – 1942)
Due movimenti per quintetto in re minore

Wolfgang Amadeus Mozart (1756 – 1791)
Quintetto in si bemolle maggiore K. 174

Johannes Brahms (1833-1897)
Quintetto in sol maggiore op. 111


Note di sala
di Massimo Loiacono*

Alexander von Zemlinsky (Vienna 1871- Larchmont, N.Y. 1942) è compositore poco noto alla maggior parte del pubblico dei concerti e del teatro d’opera, vieppiù. Per tanti anni nelle storie/cronache della musica era ricordato (dettaglio di cronaca inutile e/o fuorviante, pure se veritiero) quale congiunto di Schoenberg: ne derivava il timore di ascoltarne pagine dissonanti, ermetiche etc.. Ed invece con turgido ed avvincente cromatismo, sensuale o tragico, con esiti anche espressionistici, Zemlinsky era/è compositore più vicino a Chausson, di recente ascoltato in questa stagione, a Franck magari (opera dello Zeitgeist, verosimilmente, con Wagner sullo sfondo). Dagli anni Settanta del passato secolo, con interesse dapprima crescente poi calante, le case discografiche ed interpreti autorevoli e qualche teatro d’opera ne hanno riproposto le suggestive partiture. Anche al San Carlo qualche anno fa , pure se in forma di concerto ne è stata proposta un’opera lirica. Cresciuto con formazione classicistica, nel mondo artistico che si ispirava a Brahms, operoso e stimato direttore d’orchestra nei teatri di Vienna, anche per un breve periodo all’Opera Imperiale, durante la presenza di Mahler al vertice di quel teatro, poi in Germania, Boemia etc.., fu costretto ad emigrare negli U.S.A. Di lui restano pochi titoli ufficiali e molti pezzi cameristici in forma anche di frammento, composti negli anni Ottanta e Novanta del secolo XIX. Sono oggetto di progressivo studio e recupero alla vita concertistica. Tra essi va annoverato il dittico da quintetti proposto in questa locandina. Ovviamente si spera che da questi frammenti balzi fuori una musica bella come quella contenuta nel frammento “movimento letto di quartetto” di Webern, scoperta da tutti negli anni Settanta del passato secolo e proposta più volte nei concerti della Scarlatti.
Il primo dei quintetti per archi di Mozart K 174 (1773), scritto molti anni prima delle opere grandissime che musicista affiderà a questa formazione diventata un genere, è da gustare nel suo ampio e festoso respiro, godendone l’aspetto dotto, il brio e la tenerezza della serenata, le invenzioni strumentali proprie della serenata (il dialogo tra gli strumenti), l’ambizione sinfonica sottesa al finale. E’ documentato che Mozart abbia realizzato due stesure del lavoro, e ne restano le prove per i due movimenti conclusivi. Ispirandosi ad insoliti, per l’epoca sperimentali, quintetti di Michael Haydn, appena composti. Mozart nel 1773, di ritorno da viaggi culturalmente importanti ma poco soddisfacenti dal punto di vista lavorativo, suggestionato da significative esperienze che si univano alle novità musicali prodotte dall’amico di famiglia Michael Haydn, si cimentò con questa formazione/genere. Risultato: una composizione festosa come tutte quelle scritte allora a Salisburgo, che per lui pure era una sorta di “natio borgo selvaggio”. Ricchissimo di temi il movimento di apertura, ma di tanto tripudio di fantasia Mozart poco si giova, limitando l’uso a pochi ”personaggi”; il secondo movimento ripropone la magia delle serenate per archi, ed il terzo il garbo incipriato delle danze d’epoca. Il quarto movimento, quello più vistosamente rifatto, rivela un’elaborazione formale complessa insolita per Mozart, soprattutto in gioventù, e diventa il fulcro del lavoro.

Il concerto si conclude con il bellissimo Quintetto n.2 op. 111 di Brahms. Con il precedente lavoro di Brahms per quest’organico/formazione e con il quintetto di Bruckner di poco precedente (lavoro di rarissima esecuzione presentato qualche volta anche dalla “Scarlatti”), si conclude la storia breve del quintetto per archi nella cultura austro-tedesca, per mancanza di altri capolavori. I quintetti di Boccherini sono un cosmo felice a sé stante. Da Michael Haydn, al suo fratello famoso autore di un solo quintetto, ai compositori appena citati, passando per i capolavori della maturità di Mozart, per un lavoro poco significativo di Beethoven, per un quintetto di Schubert sublime, ma con organico appena diverso, questi quintetti mantengono il difficilissimo equilibrio tra accademia dotta, propria dei quartetti, quelli di Beethoven esclusi, ed il gusto per il divertimento fantasioso. Nei quattro movimenti dell’op.111 di Brahms è sottinteso un elemento esotico (secondo il principe di Metternich, “l’Oriente inizia(va) alla Landstrasse”, quella che va a tutt’oggi in Ungheria), slavo, o magiaro che si percepisce a tratti, ora nel disegno ritmico ora melodico, mirabilmente intessuto nel resto del discorso musicale. Il primo movimento con due temi ben sbalzati avvince per uno slancio eroico inconsueto nelle ultime composizioni di Brahms: è l’effetto del primo tema, secondo molti studiosi progettato per una irrealizzata sinfonia n.5, ed è bello l’intreccio delle voci dei singoli strumenti. Nel secondo movimento, un tema con variazioni, l’ultima variazione è anche una coda, con uso lieve ed un poco trasgressivo delle buone maniere curiali; il terzo movimento è di fatto un intermezzo che partecipa del mondo poetico della pagina che lo precede. Il fascino del movimento finale è l’andamento rapsodico, con densa scrittura che può fare pensare ai posteri, Zemlinsky, ai contemporanei Franck e Chausson. E perfino a taluni momenti del quintetto con clarinetto, op.115 in cui culmina tutta la produzione di Brahms, evocandosi perfino la magica serena n.2, del tempo che fu.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 16 febbraio


Giovedì 16 febbraio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
TRIO JEAN PAUL
Ulf Schneider, violino
Martin Löhr, violoncello
Eckart Heiligers, pianoforte

Integrale dei Trii di Robert Schumann, Felix Mendelssohn e Johannes Brahms (I concerto)

Robert Schumann (1810 – 1856)
Trio in fa maggiore op.80

Johannes Brahms (1833-1897)
Trio in do minore op. 101

Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809 – 1847)
Trio in do minore op. 66

Note di sala
di Simone Ciolfi*

Trii ed eroici furori
La cultura romantica si trovò a dovere bilanciare l’aspirazione a considerare la musica un linguaggio filosofico e cosmopolita, con la tendenza a riscoprire lo spirito dei singoli popoli, generalmente legata alle tradizioni nazionali. Negli ultimi anni della sua vita, Robert Schumann visse con sempre maggiore tensione l’aspirazione cosmopolita che si ricollegava al classicismo viennese con quella nazionalistica legata alla tradizione tedesca. Per cui, in opere come il Trio n. 2 op. 80 si respira la volontà di gestire il tessuto musicale con mezzi ormai identificati in toto con la cultura tedesca, come il contrappunto, tentando, però, di dare al tutto il tono dell’universalismo beethoveniano. Ne risultò la rinuncia a quell’estro giovanile che caratterizzava le opere degli anni Trenta dell’Ottocento. Questo non vuol certo significare che tali opere siano meno interessanti di quelle giovanili, ma che vi è diffusa la tendenza alla raffinatezza musicale più che il contrasto tra impulso e malinconia, tipico del giovane Schumann.
Con il Trio op. 80 siamo nel 1847 e la titolazione dei movimenti è (si noti) in tedesco, non in italiano. Dei quattro movimenti, il primo è giocato su un ritmo ternario che ha un tono popolare nell’andamento di danza ma non nella cantabilità. In essa, infatti, Schumann riversa la sua vena fantastica, per cui i suoi disegni melodici sono sempre sorprendenti. L’episodio contrappuntistico che si impone al centro del movimento rivela la profonda coerenza tematica e strutturale del brano e il suo legame con un ideale arte germanica che ha in Bach il suo testimone. Certi ritmi e certi tratti tematici ricordano, infatti, il celebre compositore, riletto, però, alla luce di un magico furore romantico che solo Schumann sa evocare con discordanti sfaccettature.
Il secondo movimento sembra fare il verso alla cantabilità operistica, ma l’intrecciarsi dei temi è in cerca di una stratificazione espressiva densa più che di toni teatrali. Anche lo scherzo in terza posizione, dal tempo insolitamente lento per il genere, ricerca la stratificazione contrappuntistica, quasi che la mira di Schumann in questa composizione fosse cercare un nuovo taglio espressivo per lo stile imitativo tramite la ricombinazione dei materiali creati dal suo genio tematico e ritmico. L’idea dello “scherzo” è più nelle combinazioni insolite di ritmo e melodia che non nel brillante andamento che caratterizza, di solito, il genere. L’ultimo movimento è giocoso e vivace, vi predomina il pianoforte e vi fa capolino lo Schumann giovanile con le sue creature tematiche dall’insolito serpeggiare. L’ascesa, la volontà di raggiungere alture emotive insolite, nonché lo sforzo per raggiungerle, spesso mimate dalla musica, sono tutte di Schumann, e qui appaiono in piena chiarezza, sebbene ve ne siano stati segni anche nei tre brani precedenti.
La tonalità tragica di do minore, tanto amata da Beethoven, torna con il Trio op. 101 di Brahms a incarnare i toni grandiosi e tragici del Romanticismo. Gesto potente e sontuose esitazioni aprono questa composizione realizzata nell’estate del 1886, la cui temperatura rovente appare subito nell’indugiare drammatico e sognante che si dipana dalla partitura. Nell’Allegro energico iniziale, un fare imperioso (derivato da Beethoven) si alterna a rari momenti cantabili, quasi questi fossero sezioni di riposo fra un atto costruttivo poderoso e l’altro. Nel Presto assai che segue, il senso del tragico è raggiunto con l’essenzialità dei mezzi in campo, quasi Brahms prendesse le mosse da un’esile danza barocca in punto di morte. Gli strumenti ad arco dialogano quasi a cercare una soluzione a qualcosa. Il pianoforte pare dissuaderli dal risolvere un ipotetico problema. L’organicità misteriosa di tale brano è tipica di Brahms. Anche questo movimento, che dovrebbe essere uno scherzo, è assai singolare per il suo tono e per il suo ritmo, perché invece di evocare dinamismo, materializza una strana leggerezza dal retrogusto di irresoluzione.
L’andamento salottiero dell’Andante grazioso ci comunica un senso di pace e di convivialità. Ha un tono vagamente settecentesco, viennese nel senso del classicismo di Haydn e Mozart, un gusto che diventerà di moda dopo la morte di Brahms, più o meno nel Primo Novecento (compare in tanti melodrammi di fine Ottocento e oltre). L’ultimo movimento, Allegro molto, è schumanniano per via delle insolite “storpiature” del tessuto sonoro che suonano come geniali storture, che escono fuori da una dimensione cantabile prevedibile e inventano percorsi sorprendenti per chi ascolta. A volte, l’andamento della musica sembra punteggiato da strani pertichini all’acuto. Il tutto risulta veramente innovativo per Brahms, colui che viene indicato come il continuatore della tradizione classica viennese, e in verità, è autore anche in linea con la modernità che si annunciava trasgressiva e dirompente. Il Trio piacque molto a Clara Schumann così come all’amico violinista Joseph Joachim proprio per le sue caratteristiche di potenza ed estrosità.
Spesso definito come il più classico tra i romantici, Felix Mendelssohn tradisce questa definizione proprio nei Trii, genere le cui origini sono legate all’intrattenimento salottiero e al quale l’autore, di contro, conferisce l’impeto del verbo romantico. Il Trio in do minore op. 66 è del 1845, due anni precedente il Trio di Schumann, e subisce influssi di scrittura dalla produzione cameristica di Franz Schubert, autore tenuto in grande stima da Mendelssohn e del quale promosse, da organizzatore, l’esecuzione della musica. Se schubertiana è in parte la scrittura pianistica, il tono impetuoso della composizione è beethoveniano e nervosamente motorio, aspetto tipico di Mendelssohn. Nell’Allegro energico e con fuoco iniziale, il pianoforte innesca un dinamismo inesausto sul quale si innestano le febbrili melodie degli archi. Tale alta temperatura è generata dalla divergenza tra parte pianistica, che furoreggia senza sosta con arpeggi e accordi, e archi, che tentano di sottrarre a un metaforico naufragio il materiale tematico. La tensione melodica da ciò provocata continua anche nell’apparente pace dell’Andante espressivo, nel quale però il pianoforte continua a essere il buco nero che sembra assorbire la luce della cantabilità del brano. Nel sagace Scherzo, questo si animato da un ritmo sostenuto e coinvolgente contrariamente ai due precedenti trii, qualcosa di volante e demoniaco si impossessa della musica. Il Finale, in forma di rondò, approda a toni sinfonici, densi e talvolta festosi, a testimoniare l’alto impegno messo dall’autore in questa partitura cameristica.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 9 febbraio

Giovedì 9 febbraio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
GRAZIA RAIMONDI, violino
LUIGI PIOVANO, violoncello 

Georg Philipp Telemann (1681 – 1767)
Fantasia n. 9 in si minore per violino solo

Alfred Schnittke (1934 – 1998)
Madrigal in memoriam Oleg Kagan per violino solo

Johann Sebastian Bach (1685 – 1750)
Suite per violoncello solo n. 1 in sol maggiore BWV 1007

Arcangelo Corelli  (1653 – 1713)
Sonata a violino e violone in re minore op. 5 n. 12 La Follia

Zoltán Kodály (1882 – 1967)
Duo per violino e violoncello op. 7

Note di sala 
di Salvatore Morra*
Il programma in duo di violino e violoncello è da suggestioni intime, da camera, con un confronto tra brani solistici, con accompagnamento strumentale, suite, fantasie e danze. Nel 1765, all’età di ottantaquattro anni, Georg Philipp Telemann (1861-1767), era semplicemente sopravvissuto alla sua epoca, uno dei più longevi. Pochi amici e colleghi musicali che lo conoscevano fin dall’inizio della sua carriera erano ancora vivi: Bach, Fasch, Handel, Hebenstreit, Keiser, Mattheson, Pisendel, Stölzel e Zelenka, la maggior parte dei quali nati dopo Telemann, erano già scomparsi. Altri contemporanei degni di nota come Albinoni, Geminiani, Rameau, Scarlatti e Vivaldi erano anche deceduti. Haydn aveva già trent’anni, C.P.E. Bach, Gluck e Jommelli sulla cinquantina e Hasse e Sammartini nella sessantina. Mozart, allora nove anni, era nel bel mezzo della sua grande tournée in tutta Europa. Di Telemann si lodava l’inventiva melodica, l’abilità contrappuntistica nei cori, ricchi accompagnamenti strumentali nelle opere vocali, ottima declamazione nei recitativi, nelle cantate sacre e negli oratori successivi al 1730. Caratteristiche anche evidenti nella Siciliana della Fantasia n. 9 in si minore per violino solo che apre il concerto: le terzine, l’accostamento delle frasi ricche di trilli, spesso con cambi di ottava, che generano effetti di domanda e risposta fra voci diverse, e la condotta di due linee melodiche simultanee che lasciano le note in battere per una voce e quelle in levare per un’altra, mostrano l’inesauribile riserva di idee, così come nel Vivace, e finale Allegro. 
L’accostamento del brano di Alfred Schnittke (1934-1998) – degno erede di Shostakovich per senso dell’ironia e dell’alienazione – Madrigal in memoriam Oleg Kagan per violino solo, fornisce un punto focale sul carattere evocativo del violino. Da un lato abbiamo il genere del madrigale, nel quale si è sempre annidato un particolare tipo di sogno musicale, nel senso di un desiderio irraggiungibile, registrando i più piccoli e massicci tremori di ogni parola e inflessione di significato; dall’altro ciò che Schnittke insegue disperatamente e vuole possedere, non più un testo, ma una vita perduta: quella dell’amico intimo, il violinista russo Oleg Kagan. La morte di Kagan nel 1990 colpì profondamente Schnittke, e il compositore scrisse immediatamente questo lavoro di quasi otto minuti in memoria. È prosaico, estremamente duttile, segue la traiettoria espressiva ovunque debba andare, dal recitativo grave più lugubre ai momenti di stridore quasi intollerabile, nei registri più acuti del violino; sembra svolgersi come l’esperienza del trauma stesso, in respiri profondi che iniziano con grandi, lunghi, tristi colpi, e precipitano rapidamente in un momento di dolore acuto e di angosciata rassegnazione. Il brano suggerisce come il sogno-madrigale segue così da vicino l’esperienza extramusicale tanto da sostituirla, rendendo il violino uno strumento indissolubilmente legato al memoriale. 
Cambio di scena e si passa ad uno strumento per il quale gli studiosi hanno da decenni iniziato non solo a rivalutare la nostra idea di ciò che il “violone” avrebbe potuto essere, ma anche a ridefinire le nostre nozioni circa il “violoncello” nei secoli XVII e XVIII, termine con il quale non si denotava in Europa esclusivamente il piccolo violino basso a quattro corde suonato in posizione “da gamba”, con presa dell’arco sopra la mano, come mostra Michel Corrette nel 1741. Le Suite di Johann Sebastian Bach (1685-1750) per violoncello non accompagnato presentano diversi momenti in cui aspetti del tessuto musicale, della struttura tonale, della struttura formale sono in stretta relazione con le tecniche esecutive ed il tipo di strumento utilizzato. In particolare, nella Suite per violoncello solo n. 1 in Sol maggiore, BWV 1007, la progressione armonica iniziale del Preludio su un punto di pedale di tonica, in tutta la sua semplicità, unifica le diverse forme danzanti dall’inizio alla fine. Quasi un approccio compositivo in stile sonata per le suite da ballo, che crea uno strato di complessità dall’Allemanda e Courante in poi. Ma Il cuore della Suite è la Sarabanda, con una scrittura quasi polifonica simile a quella per violino solo. Dopo i Minuetti, la Giga è il più enigmatico dei movimenti per il suo spostamento in sol minore.
Nella stessa cornice temporale e strumentale è la Sonata a violino e violone in re minore, op. 5 n. 12, “La Follia” di Arcangelo Corelli (1653-1713) composta tra il 1680 e 1690. Il corpus di sonate op. 5, dopo la loro pubblicazione, raggiunse lo status di “classici”, e nel 1800 era stato ripubblicato più di 50 volte, ad Amsterdam, Bologna, Firenze, Londra, Madrid, Milano, Napoli, Parigi, Roma, Rouen e Venezia. Questa frequente ripubblicazione e la sopravvivenza di centinaia di copie manoscritte e decine di arrangiamenti documentano il fatto che quest’opera continuò ad essere eseguita ed utilizzata con funzione didattica. Il suo valore pedagogico consisteva, presumibilmente, in due aspetti: quello di Studi contenenti musica finemente lavorata con molti movimenti alla portata anche di violinisti novizi; e quello di base per l’improvvisazione, perché la precisione di certi movimenti li rendeva veicoli ideali per esercitarsi nell’ornamentazione melodica, sia quella cosiddetta “necessaria”, sia quella più libera, ornamenti su larga scala o parafrasi musicali. 
Il programma si conclude con tendenze musicali neoclassiche, sicuramente antiromantiche con il Duo per violino e violoncello, op. 7 di Zoltán Kodály (1882-1967). Compositore, etnomusicologo e insegnante, Kodály ha contribuito a rinvigorire la cultura musicale della sua nazione e, in particolare, attraverso la promozione dei cori comunitari e la raccolta e sistematizzazione della musica popolare ungherese ha fornito un meccanismo di educazione. Il Duo per violino e violoncello del  1914 modella perfettamente l’influenza incrociata dei materiali popolari ungheresi e le strutture formali della musica d’arte. La sua melodia pentatonica di apertura cade nel modo dorico, mentre un tema contrastante alterna frasi melodiche e accompagnamento pizzicato. Un lirismo intensamente sentito, che a volte esplode in un profondo tormento, scorre attraverso l’Adagio. Il finale simula radicali cambi di tempo con la sua eccitante alternanza di sezioni lente e rapide.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 26 gennaio

Giovedì 26 gennaio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
QUARTETTO EOS
DAVIDE ALOGNA, violino,
ENRICO PACE, pianoforte

Franz Joseph Haydn (1732 – 1809)
Quartetto per archi n. 32 in do maggiore, op. 20 n. 2, Hob: III:32 “Sonnenquartette”
Ernest Chausson (1855 – 1899)
Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op. 21

Biglietti

Note di sala
di Gianluca D’Agostino*

Nel 1761, poco meno che trentenne, Haydn fu assunto ufficialmente dai principi Esterházy, una delle più ricche famiglie di “nuovi nobili”, di origine ungherese, come vice maestro di cappella operante nelle loro lussuose dimore di Eisenstadt, di Vienna e di Pressburg, e poi nell’ancor più fiabesco castello di Esterháza. Tra le tante clausole presenti nell’interessantissimo documento costituente il contratto di assunzione si può leggere la seguente, che prevedeva che “il detto Vice-Kappellmeister avrà l’obbligo di comporre tutta la musica che a Sua Altezza Serenissima piacerà ordinargli e si guarderà bene dal passare queste composizioni a chicchessia o dal farla copiare, ma dovrà lasciarla a completa disposizione di Sua Altezza”. Un membro in particolare di questa dinastia, e cioè il conte Nicolaus, conosciuto anche con il soprannome “Il Magnifico”, diventerà il padrone di Haydn per ben trent’anni, e cioè dal 1762 al 1790, data di morte del nobiluomo, che tra l’altro era stato un grande appassionato di musica e un buon musicista dilettante lui stesso. Egli tenne sempre il suo fidato maestro in grande considerazione, che promosse a Kappellmeister già nel ’66, e sotto la sua protezione Haydn affinò l’arte dell’ottimo cortigiano, il che nella fattispecie significava fungere da cuscinetto tra i musicisti assoldati, tutti cantanti e strumentisti di prim’ordine, e l’amministrazione del principe. Inoltre il maestro doveva sovrintendere all’opera dei copisti e supervisionare tutti i conti relativi all’organizzazione musicale dei principi; ma soprattutto, com’è ovvio, egli doveva comporre, tanto e di frequente.
Quest’improvvisa svolta di tranquillità nella vita di Haydn incise profondamente sul repertorio musicale e sui generi da lui coltivati, che da tanti e vari che erano stati durante la fase precedente e giovanile, divennero progressivamente di meno e più concentrati: essenzialmente dominarono la sua fantasia creatrice la sinfonia e il quartetto d’archi, in parte anche la musica sacra e in misura minore le sonate per clavicembalo e la musica da camera per archi e cembalo.
Haydn, che nei concerti suonava abitualmente da violinista, compose in vita oltre ottanta quartetti e per questo egli è comunemente e a ragione ritenuto “il padre” del quartetto classico di forma moderna, nonché il modello imitato da molti altri autori coevi e successivi. Al genere, così come poi verrà concepito e sviluppato da Mozart e da Beethoven, il maestro austriaco arrivò comunque per gradi, dopo che ne aveva scritti, prima del 1771, ben trentadue di stampo barocco, sostanzialmente non diversi da quelle forme musicali che andavano sotto il nome di divertimenti, cassazioni e serenate. Nei quartetti strumentali egli apportò sostanziali novità, ad esempio la viola viene trasformata nel suo ruolo e trasferita dalla posizione di raddoppio a quella autonoma; molti motivi di accompagnamento salirono in grado, per così dire, venendo usati melodicamente. E ancora, rispetto alla musica barocca la scrittura quartettistica previde l’impiego di moltissime pause di varia durata atte sia ad amplificare l’effetto drammatico, come in Mozart, sia semplicemente a chiarire l’enunciato delle varie voci.
Questo è ben visibile nei quartetti dell’op. 20 del 1772 e in particolare nel numero 2, nella classicissima tonalità di do maggiore, quello eseguito stasera. L’Allegro iniziale principia con una frase gentile e affettuosa che si dipana lievemente tra i quattro strumenti, non senza qualche slancio del primo violino. L’esposizione procede tranquilla e si ripete una prima volta, mentre lo sviluppo successivo, anch’esso sottoposto a ripetizione, risulta essere più concitato, benché l’invenzione melodica rimanga sostanzialmente quella dell’inizio, con qualche accenno di fuga e canoni, mentre alcune pause e brevi modulazioni al minore imprimono una certa drammaticità.
L’Adagio ha un andamento pensoso: dopo i trilli iniziali la melodia è affidata al violoncello e poi ripresa collettivamente, poi di nuovo eseguita al violoncello. Segue un cantabile del primo violino che ha tutte le movenze di una romantica barcarola ma la cui ispirazione appare alquanto convenzionale. Assai scorrevole è il successivo Menuetto con Trio, invero anch’esso molto convenzionale, concepito come momento di riposo prima dell’Allegro finale che risulta in una Fuga a quattro soggetti, un autentico saggio accademico in cui Haydn mostra tutta la sua abilità di contrappuntista strumentale.

La vicenda umana di Chausson è indubbiamente contrassegnata dal suo ultimo e tragico fotogramma, quello, per intenderci, del fatale incidente in bicicletta in cui egli perse la vita dopo essersi fracassato contro un muro (lo strano è che non si ravvisarono segni di frenata). L’intera sua vita, tuttavia, si direbbe avvolta da un velo di mistero e quasi di sottile maledizione, scaturiti dal fatto che egli, pur essendo nato da famiglia facoltosa e colta e pur avendo contratto un ricco matrimonio che lo mise al riparo da preoccupazioni contingenti, e pur essendo precocemente sensibile e dotato per ogni forma d’arte (letteratura e pittura, oltre alla musica), nei confronti della complessa arte dei suoni nutrì sempre come un senso di inferiorità, dovuto probabilmente al fatto che approdò alla musica relativamente tardi, il che gli fece nutrire sempre profondi dubbi sulla propria statura professionale, e alla fine incise facendo sì che nel suo catalogo restassero solo poche decine di composizioni, peraltro frutto di gestazioni lunghe e travagliate.
La sua formazione comunque era stata completa e avvenne all’ombra di un “grande” della musica francese, ossia César Frank, che peraltro lo ebbe come uno degli allievi prediletti e che lo seguì passo dopo passo. Inoltre il fatto di essere stato nominato segretario della Société Nationale de Musique e di essere in frequente contatto con protagonisti del post-romanticismo francese del calibro di Massenet, Chabrier, Fauré, Debussy, Dukas, Albeniz, D’Indy, collocò Chausson al centro di molte fruttuose relazioni con i colleghi e lo mise in condizione di essere fortemente influenzato e continuamente arricchito da stimoli, consigli, incoraggiamenti.
Si dice comunemente che la musica di Chausson abbia il temperamento lirico e contemplativo appunto di un Franck, e che anticipi soluzioni armoniche e timbriche di Debussy; ma il Concerto in re maggiore per pianoforte, violino e quartetto d’archi op. 21, composto tra il 1889 e il 1891, deve comunque molto alla tradizione tedesca, e direi principalmente a Brahms, benché anche l’influenza del cromatismo lisztiano sia evidentissima. Anche la gestazione di questa bellissima opera, autentico capolavoro del repertorio cameristico, ma che come forma è un po’ un ibrido nel senso che non è da considerarsi un sestetto ma nemmeno un pezzo strettamente solistico, fu alquanto tormentata e impegnò il compositore per quasi tre anni. I primi abbozzi furono presentati da Chausson al proprio maestro Franck nel 1889 (il grande compositore scomparirà nel 1890), e la corrispondenza con vari artisti fa proprio intravvedere le difficoltà che il musicista incontrò nel portare a termine la composizione. Egli si lamentava che il concerto «non va avanti» («ne marche pas du tout») e poi, nonostante vari incoraggiamenti, più volte esclamò che la questione gli faceva “perdere la testa”, aggiungendo: «Bisogna aspettare con pazienza … smettere di disperarsi e lavorare. Il lavoro, ma è il lavoro manuale di cui avrei bisogno. Spinoza faceva occhiali, Tolstoj s’immaginava calzolaio. La musica non mi dà pace; semmai il contrario».
Nell’autunno del 1891 il compositore compie il suo secondo lungo viaggio in Italia: Roma, la musica di Palestrina, la Cappella Sistina, Michelangelo, il Foro Romano. L’anno seguente porta a termine il Concerto, la cui prima esecuzione riscuote un grande successo di pubblico e di critica. A partire dallo stesso anno inizia a redigere il suo secondo diario (journal intime) nel quale annoterà riflessioni interessanti come la seguente: «sempre lottare, ed essere vinti, così spesso. Come sono lontano dall’essere colui che vorrei essere. È creare se stessi, è là tutto lo sforzo della vita». Circa poi la prima esecuzione del Concerto affidata al grande Ysaye, egli dirà: «Tutto funziona a meraviglia. Tutti [gli interpreti] sono amabili e amichevoli, e pieni di talento. Ysaÿe mi sconvolge per la sua comprensione. E trova il concerto molto bello. Ne sono lieto. …Tutti sono entusiasti. Mi sembra prodigiosamente di amare tutti. …Tutti hanno l’aria di trovare il Concerto molto bello. Esecuzione molto buona, in certi momenti ammirevole, e sempre molto artistica. Mi sento leggero e gioioso, come non mi sentivo da tempo. Questo mi fa bene, e mi dà coraggio».
Decidè
Movimento di ampie dimensioni con continui cambi di atmosfera intensificazioni, pause, squarci lirici; il che deve molto, senz’altro, al magistero di Franck ma anche, per loro inequivocabile immediatezza, a Jules Massenet, il primo maestro di Chausson. Il primo tema, subito introdotto dal pianoforte, è composto da sole tre note e ha un carattere fortemente drammatico, appare come un emblema dell’opera ed è, di fatto, il principio germinale dei temi del Concerto. Da questa cellula iniziale scaturisce una straordinaria abbondanza di vicende musicali i cui protagonisti principali sono il violino e il pianoforte.
Sicilienne
Il secondo movimento doveva in origine essere sottotitolato “Île heureuse” (Isola felice), il che giova a farsi un’idea del brano. È essenzialmente un momento di pacificazione: non statico, tuttavia in quanto i due elementi melodici principali scandiscono il ritmo di siciliana, con un effetto decisamente cullante.
Grave
Cuore espressivo dell’opera e movimento molto ben riuscito, per intensità tragica e quasi inesorabile, e per sapienza costruttiva. All’ostinato iniziale del pianoforte si sovrappone una sorta di lamento del violino.
Finale – Très animé
I contrasti fin qui evidenziati e l’accumulo di tensione precipitano positivamente nel quarto movimento, dove sembra riacquistarsi quella fiducia messa in discussione dal Grave precedente. Tematicamente si assiste ad una sorta di ricapitolazione che culmina in un grandioso finale, totalmente privo comunque di retorica, ma al contrario sempre intimamente partecipato e pregnante.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

LO SGUARDO E IL SUONO – 10 GENNAIO 2023

Lo Sguardo e il Suono
20 DICEMBRE 2022 – 10 GENNAIO 2023
Gallerie d’Italia-Napoli
Sala Grande
I concerti sono ad ingresso gratuito fino ad esaurimento posti


10 gennaio 2023 Gallerie d’Italia-Napoli ‒ ore 17.00
Artemisia Gentileschi/Corisca e il satiro
Introduzione di Giuseppe Porzio

Otello Calbi (1917-1995)
Voice di Pan

Toru Takemitsu (1930-1996)
Voice

Claude Debussy (1862-1918)
Syrinx

Eugène Bozza (1905-1991)
Phorbèia

Marin Marais (1656-1728)/Pierre Boulez (1925-2016)
Les Folies d’Espagne

Astor Piazzolla (1921-1992)
Tango étude n. 1

CRISTIAN LOMBARDI, flauto