Associazione Alessandro Scarlatti
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LE STAGIONI DEL BAROCCO – Aversa Viti

LE STAGIONI DEL BAROCCO
Aversa – Napoli
27 aprile – 17 giugno 2023

 

Venerdì 9 giugno 2023 – Aversa, Chiesa di San Giovanni Evangelista – ore 19.30
PIERO VITI, chitarra
Vaghe bellezze…: Segovia e le antiche musiche per chitarra
nei 130 anni dalla nascita di Andrés Segovia (1893-1987)
Anonimo – 5 brani da un “Codice del Cinquecento” per liuto; Luis de Milán – 2 Pavane; Luis de Narváez – Deferencias sobre “Guardames las vacas”; John DowlandMelancholy Galliard, Lady Hundson’s Puffe ; Robert de Visée – Suite in re minore per chitarra barocca; Niccolò Paganini – Sonata in do maggiore (M.S. 85 n°5), Minuetto dalla Sonata n. 34, Minuetto dalla Sonata n. 21; Mauro Giuliani – 4 Variazioni su “È nato miezo mare” op. 143; Ferdinando Carulli – Tarantella, Danse Napolitaine dall’op. 73, Divertissement à l’Espagnole op. 138

PIERO VITI
Chitarra d’Oro 2020 per la “Promozione della Chitarra” conferitagli dal Convegno Internazionale della Chitarra di Milano, è uno dei chitarristi più attivi e poliedrici sulla scena musicale italiana. Nato a Napoli, ha studiato con Stefano Aruta e Angelo Gilardino, diplomandosi in chitarra con il massimo dei voti e la lode presso il Conservatorio di Avellino, dove ha anche conseguito la Laurea Biennale. Si è perfezionato con Maria Luisa Anido, Manuel Barrueco, il Duo Assad, Oscar Ghiglia, Marco della Chiesa d’Isasca (Analisi Musicale) e Nuccio D’Angelo (Composizione).
Vincitore di numerosi concorsi nazionali ed internazionali, tiene da anni un’intensa attività concertistica accolta da unanimi consensi di pubblico e critica come solista e solista con orchestra e in affermati insiemi cameristici nelle maggiori istituzioni internazionali (USA, Russia, Germania, Austria, Spagna, Francia, Svizzera, Belgio, Ungheria, Polonia, Slovenia, Romania); ha collaborato, inoltre, con vari artisti, tra cui, Michele Placido, Pamela Villoresi, Ambra Angiolini, Patrizio Rispo. Numerose, anche, le partecipazioni a programmi radiofonici e televisivi per RAI 3, Radiotre “Suite”, Radio Due, RETE 4, Radio Vaticana, Radio France e reti private.
Ha inciso numerosi CD per la Nuova Era, Kicco Classic, Whell Records, Konsequenz, Niccolò e Suonare Records, tutti favorevolmente accolti dalla critica internazionale.
È docente titolare di Chitarra presso il Conservatorio “N. Sala” di Benevento; tiene, inoltre, seminari in Italia e all’estero ed è regolarmente invitato in giurie di prestigiosi Concorsi.
Come giornalista e musicologo collabora con le riviste dotGuitar, Guitart e Falaut e ha fondato un Convegno Internazionale e un gruppo di ricerca su Ferdinando Carulli; è autore, inoltre, di numerosi articoli e revisioni di pagine chitarristiche pubblicate da note case editrici e dirige una collana dedicata a inediti dell’Ottocento, “Guitar Rarities”, per le edizioni Ut Orpheus di Bologna. Per la stessa casa editrice ha di recente pubblicato il libro “Ferdinando Carulli, maestro napolitano”, ampia monografia aggiornata sull’autore.
Intensa anche la sua attività in campo organizzativo, come ideatore e direttore artistico di numerose manifestazioni di successo, tra cui l’Autunno Chitarristico del Conservatorio “Sala” di Benevento, il Premio Internazionale Cimarosa di Aversa, il Festival Jommelli-Cimarosa 2021, il Festival Ventoclassic di Ventotene.
Dal 2013 è endorser delle Aquila Corde Armoniche.

Il concerto è gratuito.

 

 

LE STAGIONI DEL BAROCO – Aversa Rossi, Robinson, Varone

LE STAGIONI DEL BAROCCO
Aversa – Napoli
27 aprile – 17 giugno 2023

Venerdì 26 maggio 2023 – Aversa , Abbazia di San Lorenzo – ore 19.30
TOMMASO ROSSI, flauto
NICHOLAS ROBINSON, violino
PATRIZIA VARONE, clavicembalo
Il barocco tedesco: Bach, Händel, Telemann
Georg Philipp Telemann – Triosonata in la minore per flauto dolce, violino e basso continuo, Triosonata in sol minore per flauto dolce , violino e basso continuo; Johann Sebastian Bach – Triosonata in sol maggiore BWV 1038 per flauto traversiere, violino e basso continuo; Georg Friedrich Händel – Triosonata in fa maggiore op. 2 n. 4 per flauto, violino e basso continuo – Georg Philipp Telemann – Triosonata in re minore per flauto dolce, violino e basso continuo

TOMMASO ROSSI
Si è diplomato in flauto traverso presso il Conservatorio di Napoli, sotto la guida di Pasquale Esposito, perfezionandosi in seguito con Mario Ancillotti presso la Scuola di Musica di Fiesole, dove ha conseguito il diploma finale con il massimo dei voti. Ha conseguito il diploma di flauto dolce con il massimo dei voti, la lode e la menzione d’onore sotto la guida di Paolo Capirci presso il Conservatorio di Latina, perfezionandosi con Pedro Memelsdorff in flauto dolce e con Jesper Christensen in Musica da Camera, presso la Schola Cantorum Basiliensis.
Ha collaborato e collabora con alcuni dei più importanti di musica antica come la Cappella Neapolitana di Antonio Florio con cui ha inciso per OPUS 111, Naïve, Eloquentia, Dynamic, Glossa, Il Complesso Barocco di Alan Curtis, l’Ensemble Risonanze di Carlo Chiarappa, Concerto Italiano di Rinaldo Alessandrini, Les Talens Lyrique di Cristophe Rousset. Nel 2010 ha fondato, con Raffaele Di Donna e Marco Vitali, l’Ensemble Barocco di Napoli, con cui ha pubblicato l’integrale delle cantate di Alessandro Scarlatti per soprano, flauti e basso continuo e, nel 2013, e la prima registrazione assoluta delle Sonate di Leonardo Leo per flauto dolce e basso continuo. Nel 2019, in collaborazione con Abchordis, ha visto la luce per Sony, il CD Il Soffio di Partenope, lavoro antologico sul repertorio per strumenti a fiato nella Napoli del XVIII secolo. Nel 2021 è stato pubblicato un CD dedicato alle Sonate per flauto di Robert Valentine. Si dedica come interprete e organizzatore da anni anche al repertorio contemporaneo. Hanno scritto per lui compositori quali Alessandra Bellino, Carlo Boccadoro, Claudio Lugo, Paolo Marchettini, Claudio Rastelli, Alessandro Solbiati. Con L’Ensemble Dissonanzen, organismo di produzione dell’Associazione, ha suonato presso importanti istituzioni musicali italiane ed internazionali quali Festival di Salisburgo, Ravenna Festival, GOG, incidendo per Niccolò, Mode Records, Die Schachtel. È stato docente di flauto dolce presso i Conservatori di Musica di Cosenza e Benevento. Attualmente è titolare della cattedra di flauto dolce presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli.
Laureato con lode in storia della musica presso l’Università “Federico II” di Napoli, suoi contributi sono apparsi su molte riviste italiane specializzate.
Dal giugno 2016 è direttore artistico dell’Associazione “Alessandro Scarlatti” di Napoli.

NICHOLAS ROBINSON
È uno dei violinisti più richiesti nel campo della musica antica in Italia e all’estero da oltre 25 anni, con un’intensa attività concertistica di più di 50 concerti all’anno e ha registrato più di 60 CD per Deutsche Grammophon, Sony, Virgin, Decca, Harmonia Mundi, Naive, Opus 111 e Alpha.
E’ stato primo violino spalla della Cappella della Pietà dei Turchini dal 1993 al 2003; spalla dell’ensemble Concerto Italiano, diretto da Rinaldo Alessandrini, dal 2004 al 2016; spalla e solista con l’ensemble Zefiro, diretto da Alfredo Bernardini, del gruppo milanese La Risonanza, diretto da Fabio Bonizzoni, e negli ultimi anni è stato invitato come spalla e solista per moltissime orchestre e ensemble da camera in tutto Europa – l’Accademia Bizantina, diretto da Ottavio Dantone la Akadamie fur Alte Musik di Berlino, Les Talens Lyriques di Parigi, diretto da Christophe Rousset, L’Orchestra Barocca Argentina, diretto diretto da Jean Christophe Spinosi, l’Orquesta Barroca Catalana e l’Orchestra Barocca di Oslo. Inoltre, ha suonato insieme a Fabio Biondi, Ton Koopman, Giuliano Carmignola, Monica Hugget, Rachael Podger, Manfred Kraemer e Gustav Leonhardt.
E’ stato membro di English Concert, diretto dal clavicembalista Trevor Pinnock, una delle orchestre barocche più importanti del mondo, e con la quale ha fatto concerti in tutto il mondo e ha partecipato a più di 20 registrazioni per la Deutsche Grammophon. Concerti al Musikverein di Vienna, la Philharmonie di Berlino, il Royal Albert Hall di Londra, la Suntory Hall di Tokyo, Il Teatro Colon di Buenos Aires, Schauspielhaus di Berlin, Cologna Philharmonie. Registrazioni includono l’integrale delle sinfonie di Mozart, le suite di Bach, le opere di Purcell, sinfonie di Haydn, le messe di Haydn e Mozart,e dei concerti di Vivaldi.
E’ attualmente docente di violino barocco al Conservatorio di Palermo.

PATRIZIA VARONE
Diplomata in Pianoforte, Clavicembalo, Musica da Camera, esperta di Basso Continuo, con una carriera concertistica ultraventennale su palcoscenici prestigiosi: Konzerthaus di Vienna, Accademia di S.Cecilia Roma, Società del Quartetto di Milano, Filarmonica di Berlino, Filarmonica di Varsavia, Palau de la Musica di Barcellona, Auditorio Nacional di Madrid, Citè de la Musique di Parigi, Centre Baroque de Versailles, Teatro Colòn di Buenos Aires, Tokyo Theatre, Teatri di Santiago del Cile e di San Paolo del Brasile, De Singel di Anversa, Concertgebouw di Amsterdam, Conservatorio di Stato di S. Pietroburgo. Clavicembalista storica dell’ orchestra barocca “Cappella Neapolitana”- già Cappella della Pietà de’ Turchini -, ensemble tra i più prestigiosi del panorama internazionale, ha anche realizzato decine di incisioni discografiche premiate con importanti riconoscimenti (CHOC MUSIQUE, 10 REPERTOIRE, 5STARS GOLDBERG, DIAPASON D’OR) e registrazioni per le maggiori radio e televisioni europee.
Specialista di musica del periodo barocco, ha partecipato alla produzione di diverse opere in qualità di maestro sostituto e di primo cembalo. Ha collaborato con l’Orchestra del Teatro S.Carlo di Napoli, l’Ensemble Aurora di Enrico Gatti, l’ensemble Elyma di Gabriel Garrido, la Nuova Orchestra Scarlatti di Napoli, l’ensemble Accordone di Guido Morini, il Ghislieri Consort, la Real Filarmonica de Galicia (E), l’ Orchestra de la Comunidad de Madrid (E), l’Orchestra Sinfonica de Galicia (E), l’Ensemble Barocco di Napoli. Per diversi anni è stata docente di “Laboratorio di Basso Continuo” presso il Master di Musica Antica del Conservatorio di Napoli. Vincitrice del Concorso Ordinario 2016, insegna Pianoforte presso il Liceo Musicale “Polo Bianciardi” di Grosseto, città in cui risiede con la sua famiglia.

Il concerto è gratuito

 

LE STAGIONI DEL BAROCCO – Napoli Scarlatti Baroque Sinfonietta

LE STAGIONI DEL BAROCCO
Aversa – Napoli
27 aprile – 17 giugno 2023

 

 

Mercoledì 3 maggio 2023 – Napoli, Chiesa dei SS Marcellino e Festo – ore 17.30

SCARLATTI BAROQUE SINFONIETTA
363 candeline per Alessandro Scarlatti 
concerto celebrativo nell’anniversario della nascita

Alessandro Scarlatti – Concerto IX in la minore per flauto dolce, due violini e basso continuo; Arcangelo Corelli  – Sonata a tre in re minore op. III n. 5; Tomaso Albinoni – Sonata in re minore op. I n. 1; Johann Sebastian Bach – Concerto brandeburghese n. 5 in re maggiore BWV 1050

SCARLATTI BAROQUE SINFONIETTA

La Scarlatti Baroque Sinfonietta nasce all’interno del progetto dell’Orchestra Barocca della Associazione Alessandro Scarlatti varato a dicembre 2019, nell’anno del Centenario della nostra Associazione,  con l’dea di formare un’orchestra di solisti che riunisse giovani artisti italiani ed europei specializzati nel repertorio barocco utilizzando gli strumenti originali e la prassi esecutiva storicamente informata. Il gruppo ha esordito in un prestigioso concerto inaugurale diretto da Leonardo Muzii che si è tenuto nella Basilica di San Paolo Maggiore il 12 dicembre 2019. Il programma, di cui è stato protagonista il celebre soprano Maria Grazia Schiavo, prevedeva cantate natalizie di Johann Sebastian Bach, ed ha ricevuto un lusinghiero successo di pubblico e critica. Secondo appuntamento è stato un concerto straordinario dal suggestivo titolo “Altri 100!” con il sostegno dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli che ha concluso le celebrazioni del Centenario della Associazione. Diretta da Leonardo Muzii con i solisti Enrico Baiano al clavicembalo e Giorgio Sasso al violino, anche in questa occasione ha dedicato il programma a Johann Sebastian Bach e Alessandro Scarlatti. Successivamente nel dicembre 2022 alla Chiesa Anglicana di Napoli la Scarlatti Baroque Sinfonietta è stata protagonista di un innovativo   concerto dedicato a Bach con prove aperte al pubblico.

Il concerto è gratuito su prenotazione

prenotazioniscarlatti@gmail.com

 

 

LE STAGIONI DEL BAROCCO – AVERSA Scarlatti Baroque Sinfonietta

LE STAGIONI DEL BAROCCO
Aversa – Napoli
27 aprile – 17 giugno 2023

Martedì 2 maggio 2023 – Aversa, Chiesa di San Francesco – ore 19.30
SCARLATTI BAROQUE SINFONIETTA
363 candeline per Alessandro Scarlatti
concerto celebrativo nell’anniversario della nascita
Alessandro Scarlatti – Concerto IX in la minore per flauto dolce, due violini e basso continuo; Arcangelo Corelli – Sonata a tre in re minore op. III n. 5; Tomaso Albinoni – Sonata in re minore op. I n. 1; Johann Sebastian Bach
Concerto brandeburghese n. 5 in re maggiore BWV 1050

SCARLATTI BAROQUE SINFONIETTA

La Scarlatti Baroque Sinfonietta nasce all’interno del progetto dell’Orchestra Barocca della Associazione Alessandro Scarlatti varato a dicembre 2019, nell’anno del Centenario della nostra Associazione,  con l’dea di formare un’orchestra di solisti che riunisse giovani artisti italiani ed europei specializzati nel repertorio barocco utilizzando gli strumenti originali e la prassi esecutiva storicamente informata. Il gruppo ha esordito in un prestigioso concerto inaugurale diretto da Leonardo Muzii che si è tenuto nella Basilica di San Paolo Maggiore il 12 dicembre 2019. Il programma, di cui è stato protagonista il celebre soprano Maria Grazia Schiavo, prevedeva cantate natalizie di Johann Sebastian Bach, ed ha ricevuto un lusinghiero successo di pubblico e critica. Secondo appuntamento è stato un concerto straordinario dal suggestivo titolo “Altri 100!” con il sostegno dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli che ha concluso le celebrazioni del Centenario della Associazione. Diretta da Leonardo Muzii con i solisti Enrico Baiano al clavicembalo e Giorgio Sasso al violino, anche in questa occasione ha dedicato il programma a Johann Sebastian Bach e Alessandro Scarlatti. Successivamente nel dicembre 2022 alla Chiesa Anglicana di Napoli la Scarlatti Baroque Sinfonietta è stata protagonista di un innovativo   concerto  con prove aperte al pubblico dedicato a Bach.

Il concerto è gratuito

 

LE STAGIONI DEL BAROCCO – AVERSA Mauro Castaldo

LE STAGIONI DEL BAROCCO
Aversa – Napoli
27 aprile – 17 giugno 2023

Giovedì 27 aprile 2023 – Aversa, Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo – ore 19.30
MAURO CASTALDO, organo
Xàcara, un racconto musicale: dal ricercare alla sonata.
Jan Pieterszoon Sweelinck – More palatino; Jacopo da Fogliano – Recerchare & Recerchada; Marco Antonio Cavazzoni – Madame vous aves mon cuor; Antonio de Cabezòn – Diferencias sobre el Canto Llano del Caballero; Giovanni Maria Trabaci – dal Libro II 1615 Gagliarda Prima à 4 detto il Galluccio, Gagliarda Seconda à 4 detta la Morosetta, Gagliarda Quinta Cromatica à 5 detta la Trabacina; Juan Bautista Cabanilles – Xàcara; Domenico Cimarosa – Sonata n°2 del m.s. in la minore, Sonata. n°3 del m.s. in la maggiore, Sonata n°15 del m.s. in sol maggiore, Sonata n°20 del m.s. in la minore, Sonata n°46 del m.s. in la minore, Sonata n°32 del m.s. in sol maggiore

MAURO CASTALDO
È docente di Organo al Conservatorio di Musica “Nicola Sala” di Benevento. Insegna presso i conservatori di musica dall’anno accademico 1989/1990, ha vinto il concorso nazionale per esami e titoli D.M. del 18.07.1990 per Armonia Complementare. È fondatore e presidente dell’Associazione Organistica “Giovanni Maria Trabaci” di Napoli. È autore del libro “Il giardino dei silenziosi – Iuppiter Edizioni” dedicato agli organi delle chiese di Napoli. È diplomato in Pianoforte, Organo e Composizione Organistica, Clavicembalo, Composizione e Direzione d’Orchestra. Ha frequentato, altresì, i corsi di perfezionamento all’Accademia Musicale Chigiana di Siena di Clavicembalo con Kenneth Gilbert e Musica per Film con Ennio Morricone. Nel 1991 ha vinto, presso il Conservatorio “San Pietro a Majella di Napoli”, il Premio di Composizione “Terenzio Gargiulo” con: Interludio per Orchestra, Quartetto per Archi, Suite per Fiati. Nel 1997 ha inciso un CD, interamente dedicato alle sue composizioni per organo, recensito da “The American Organist Magazine” di New York. Nel corso di una lunga attività musicale, che ha avuto inizio nel 1984, ha preso parte in qualità di organista pianista clavicembalista compositore e direttore di coro a rassegne e festival in Italia, Germania, Spagna, Austria.

Il concerto è gratuito

Concerto 13 aprile

Giovedì 13 aprile 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
STEFANO DI BATTISTA, sax
DANIELE SORRENTINO, contrabbasso
ANDREA REA, pianoforte
LUIGI DEL PRETE, batteria


Morricone Stories
una selezione in chiave jazz tra le oltre 500 colonne sonore di Ennio Morricone da film come “C’era una volta in America”, “Il buono, il brutto e il cattivo”, “The Mission” e “Veruschka” fino al brano “Flora” che il Maestro scrisse proprio a Di Battista.


Note di sala
di Stefano Valanzuolo*
Come in una celebre intervista resa da Massimo Troisi in occasione del primo scudetto vinto dal Napoli, anche noi rischiamo di prendere la parola troppo tardi e non poter dire quasi nulla, sulla musica di Ennio Morricone, che non sia stato già detto e stradetto, soprattutto negli ultimi tre anni, seguiti alla sua morte. Pochi musicisti del Novecento (e oltre) possono vantare oggi la sua stessa popolarità e persino – come “la Settimana enigmistica” – un numero altrettanto consistente di tentativi di imitazione. Per numero di esecuzioni, Morricone viaggia al livello di Verdi e Puccini: fa già parte della coscienza collettiva, insomma.
Il mercato, intanto, è passato da un tempo in cui le colonne sonore erano oggetto per cultori della materia a un altro, il nostro, in cui la musica per immagini (mettiamoci dentro pure le serie tv) ha acquisito ben altro spessore mediatico. Semmai, continua a stupire che per scoprire quale e di chi sia la musica, alla fine di un film, lo spettatore curioso debba ancora scorrere quasi tutti i titoli di coda, visto che esecutori e brani solitamente compaiono dopo attrezzisti e catering. Ma questo non c’entra.
In epoca non sospetta, dunque, Ennio Morricone ha cominciato ad affiancare sempre più spesso e volentieri il proprio nome a quello di registi celebri e celeberrimi, contribuendo al successo di molti di loro e provvedendo, nel frattempo, ad affinare un “mestiere” di musicista che non solo di allori – o almeno, non subito – si sarebbe potuto cingere. In sessant’anni di attività, Morricone ha messo assieme diverse centinaia di colonne sonore (quasi mezzo migliaio, riportano le fonti), ha venduto settanta milioni di dischi e vinto due Oscar (uno alla carriera e l’altro per “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino, nel 2016), tre Grammy, quattro Golden Globe, un Leone d’Oro, cinque Bafta, dieci David di Donatello, undici Nastri d’Argento e altre inezie, che inezie non sono. Senza smettere di provare orgoglio, oltre che per questo mostruoso palmares, per l’altra sua dimensione d’autore, legata alla produzione cosiddetta “colta” (come se “C’era una volta in America”, poi, fosse una cosa triviale…) e infine – perché no – per il suo status illustre di Accademico di Santa Cecilia.
Nel mondo della musica, del resto, Morricone era entrato – più o meno alla fine degli anni Cinquanta – da una porta spaziosa, quella del Conservatorio di Roma, con tre diplomi: in Tromba, in Strumentazione per banda e in Composizione; l’ultimo conseguito sotto la guida di Petrassi. Il posto in Rai lo lascia quasi subito, perché l’idea di fare il ghost writer e non firmare col proprio nome le musiche per la radio e la tv lo irrita troppo. Quello in RCA, invece, casa discografica nascente con varie star in scuderia, lo accetta con piacere, accogliendo l’invito di un dirigente acuto, Vincenzo Micocci, al quale molti anni dopo il cantautore Alberto Fortis avrebbe riservato strali da hit ingenerosi. Garinei e Giovannini, che lo notano come trombettista in orchestra, gli affidano l’arrangiamento e la direzione di alcune commedie e da lì – siamo nel 1961 (“Enrico ‘61” con Rascel, appunto) – decolla la carriera di Morricone. Le premesse per la futura gloria ci sono già tutte, o quasi: l’attività di arrangiatore, infatti, porterà presto Morricone a impadronirsi dei meccanismi orchestrali, rivelandogli timbri e potenzialità cui poter accedere, poi, con disinvoltura sempre maggiore; la RCA sarà una palestra pop che, attraverso la cura della forma canzone (e la possibilità di collaborare con Mina, Paoli e Morandi, giusto per fare tre nomi grossi), ne farà un instancabile creatore di melodie straordinarie, tra i massimi al mondo; il rapporto con la scena teatrale è il primo passo verso una musica che rappresenti l’immagine: il cinema verrà appena dopo e sarà una conseguenza quasi ovvia. E poi la tromba, strumento amatissimo per discendenza paterna, che segnerà i primi exploit di Morricone. A Sandro Verzari, trombettista di fiducia (ma il compositore amava dire “trombista”), sarà dato un ruolo di punta nelle colonne sonore degli spaghetti western; le stesse in cui compare pure il fischiatore Alessandro Alessandroni (quello dei “Cantori moderni”).
Perché tutta questa ampia premessa “storica”? Per tratteggiare –si spera- il contesto nel quale prendono corpo e trovano forza un progetto discografico e un concerto come quelli creati dall’ottimo Stefano Di Battista, romano come Morricone e amico di ultima generazione del compositore; il quale, appunto, dopo una cena tra amici per festeggiare il primo Oscar, a bruciapelo gli aveva detto: «Hai il sax con te, Stefano? Be’, allora prendilo, ché ti scrivo un brano»; così nacque “Flora”, giustamente inserito in scaletta. Il contesto, allora (ché è di quello che stavamo parlando), rimanda a un universo sonoro morriconiano molto composito, quasi trasversale, comprendente linguaggi e approcci complementari (“Suono comunicante” si intitola, non a caso, una recente monografia sull’autore scritta da Marco Ranaldi). Un universo, cioè, declinabile non secondo una linea univoca e integralista di pensiero e di stile; ecumenico, aperto a prospettive differenti, percorribile senza scandalo attraverso i sentieri del jazz: così si fa con gli standard consolidati dal tempo, dal gusto comune e dal consenso.
A sostegno di un’ipotesi del genere, va ricordato pure come, parallelamente alla carriera di compositore per immagini, Morricone abbia sempre alimentato una confessata passione per la musica “assoluta”, sviluppata e coltivata all’interno del gruppo romano “Nuova Consonanza”, tra autori ed esecutori che dell’improvvisazione, come atteggiamento espressivo, hanno fatto (e fanno) uso ampio e consapevole. La qual riflessione varrà a ridurre ancor più le distanze tra l’immagine ufficiale del compositore, non più circoscrivibile al grande schermo da Oscar, e le “Stories” raccontate in jazz da Di Battista, felicemente in bilico tra l’omaggio e lo studio.
La riscrittura per quartetto di musiche concepite per organico orchestrale rappresenta una sfida nella sfida, oltre che la chiave di volta dell’intero progetto. «Ho cercato di mettere al centro il valore melodico e armonico – spiega Di Battista – di quello che aveva scritto il maestro, senza intervenire troppo. Sapevo che in queste operazioni è importante essere essenziali, che correvo il rischio di esagerare. Ho cercato di calmare i vari Coltrane, Parker e Gillespie e Miles che entravano nel mio cervello. L’idea era far respirare il tema e trattare ogni assolo come se fosse una linea melodica già scritta. Sembra complesso, ma non lo è stato». Per cercare “il valore melodico e armonico” dei lavori firmati da Morricone, non si è reso necessario citare unicamente i capolavori assodati, quelli cioè conosciuti, premiati, fischiettati e imitati in un modo o nell’altro. Alcuni di essi compaiono in scaletta, sì, per offrire una traccia al pubblico meno militante, ma non pretendono di esaurire il senso dell’intera operazione.
La lista degli highlights irrinunciabili, allora, comprende piccoli (nemmeno tanto) capolavori come il “Tema di Deborah” brano principale di “C’era una volta in America” (capolavoro e basta, senza “piccolo”!) o, ancora, “Gabriel’s oboe”, basato su una melodia che resta geniale ad onta dell’abuso perpetrato nei suoi confronti da pubblicità televisive e cerimonie in chiesa (il film è “Mission”; la parte dell’oboe, stasera, la fa il sax soprano). Altri pezzi famosi sono “Il buono, il brutto e il cattivo” (quello con gli ululati del coyote a conferire ritmo al racconto) e “Metti, una sera a cena”, di Peppino Patroni Griffi, che quasi sembra un compendio nitidissimo della migliore musica leggera italiana degli anni Sessanta (il film è del 1969). Ma – come si diceva poco fa – Di Battista col suo quartetto ha scelto, a ragione, anche titoli assai meno celebrati, laddove la fama della partitura si lega a quella della pellicola: “Peur sur la ville” deriva, per esempio, da una produzione con Belmondo del 1975, “Il poliziotto della brigata criminale”, diretta da Henri Verneuil, già in coppia con Morricone ne “Il clan dei siciliani. E, a proposito di film non epocali, facciamoci una domanda: se non fosse per la bellissima modella protagonista (e per la colonna sonora, si capisce), in quanti terrebbero a mente “Veruschka”, di Franco Rubartelli (tre titoli dimenticabili in carriera: questo, “Simplicio” e “Ya Koo”)? Andando avanti, troviamo “Apertura della caccia”, brano che Morricone avrebbe proposto in numerose occasioni dal vivo, da direttore d’orchestra: possiede i connotati dell’affresco corale, in ciò coerente con il film imponente da cui è tratto, ossia “Novecento” di Bertolucci. “Il grande silenzio”, invece, è un western girato da Sergio Corbucci a Cortina d’Ampezzo e dintorni (!), nel 1968, ma la sua musica rimanda forse più allo stile di “Metti, una sera a cena” che alla cosiddetta “Trilogia del dollaro” firmata da Leone. “Cosa avete fatto a Solange?” e “La cosa buffa”, per concludere, sono due tipici titoli italiani degli anni Settanta, il secondo con Gianni Morandi, nuovamente in veste di attore dopo i vari musicarelli del decennio precedente (invero, più adatti alle sue corde). Sono entrambi pezzi molto riconoscibili, in cui Morricone fa ampio uso di effetti vocali e crea situazioni stranianti inserendo, talvolta, bruschi scarti ritmici all’interno di una trama apparentemente patinata. Ne viene fuori, in fondo, il ritratto sonoro di una borghesia vacillante, minacciata nelle proprie certezze: un racconto in linea coi tempi.
La miscela sapiente di film più o meno famosi (ma le musiche appaiono originali, sempre) ha il merito di prevenire un equivoco possibile. Limitarsi a sottolineare le frequentazioni cinematografiche più roboanti di Morricone (Leone, Pasolini, De Palma, Tornatore, Tarantino ecc. ecc.), infatti, equivarrebbe a fissare la fatidica punta dell’iceberg, distogliendo l’attenzione dalla parte più massiccia di una vicenda artistica esclusiva, innervata dalla volontà, invece, di mantenere in comunicazione i suoni, i linguaggi, i modi della musica, sotto le sembianze di un unico nobilissimo “mestiere”.
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Biglietti

Concerto 6 aprile

Giovedì 6 aprile 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
AMATIS PIANO TRIO
Lea Hausmann, violino
Samuel Shepherd, violoncello
Mengjie Han, pianoforte


Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Trio in si bemolle maggiore op. 11 Gassenhauer

Dmitrij Šostakovič (1906 – 1975)
Trio in do minore op. 8

Franz Schubert (1797 – 1828)
Trio in mi bemolle maggiore op. 100 D.929

Note di sala
di Gianluca D’Agostino*

Composto da Beethoven tra 1797-98 e pubblicato prima a Vienna in parti staccate nell’ottobre 1798, quindi in partitura in Germania, il Trio op. 11 fu, con ogni probabilità, concepito originariamente per clarinetto, violoncello e pianoforte ed eventualmente pensato per sostituire il primo strumento con il violino. Si tratta di un’opera appartenente al periodo ancora giovanile del maestro, e come tale convenzionalmente suddivisa in tre movimenti: Allegro con brio, Adagio, Allegretto-Tema con variazioni.
La sua dedica alla nobildonna Marie Wilhelmine, contessa di Thun-Hohenstein (Vienna 1744-1800) consente di riferire informazioni generali sul conto di quest’ultima, la quale fu una ricca viennese mecenate di musicisti (del calibro di Mozart, ma anche di Haydn e Gluck), ben edotta nell’arte dei suoni (come tale elogiata dal musicologo inglese Charles Burney), ma anche di sottolineare il fatto che tale famiglia era imparentata con altri due importanti committenti del musicista, il principe Lichnowsky e il conte Waldstein: tutti segni evidenti che qui gravitiamo in un’orbita circoscritta di personaggi strettamente a contatto con Beethoven e che, se di “musica d’occasione” si tratti, essa fu comunque concepita per un ben preciso pubblico di intenditori.
Anche il soprannome con cui il Trio è comunemente noto, “Gassenhauer”, ossia Trio della canzone di strada, dovuto al fatto che il suo terzo movimento fu ricavato da un tema popolare (la canzone “Pria ch’io l’impegno”, dall’opera L’amore marinaro, ossia II corsaro di Joseph Weigl, rappresentata con gran successo nella capitale austriaca nell’ottobre 1797), si deve probabilmente a qualcuno di quella ristretta cerchia viennese. Tale circostanza, in ogni caso, getta luce ed apre un interessante spaccato sui contatti intercorrenti, in quel preciso contesto geo-storico, tra musica popolare e musica colta; e peraltro sappiamo che quella melodia fu particolarmente popolare, visto che la ritroviamo utilizzata in singspiel successivi ed anche in musiche composte da svariati altri autori minori, sempre come tema per variazioni.
Si è parlato di opera ancora giovanile, nel senso che vi è abbastanza convenzionale la perfetta simmetria delle frasi ed il pieno rispetto della logica sonatistica, così come la predetta “indifferenza” rispetto alla designazione del primo strumento “cantante”, o in fondo la stessa prevalenza della scrittura pianistica rispetto agli altri strumenti.
Ciò detto, non si possono non riconoscere in essa fremiti tipicamente preromantici e stilemi già propri della maturità del maestro. Questo è visibile nel primo movimento, dove peraltro Beethoven indugia in una certa ambiguità armonico-tonale (soprattutto tra il si bemolle maggiore, tonalità d’impianto, e il sol, passando per il do ed il fa), e dove è notevole soprattutto il secondo tema, o secondo gruppo tematico, per la sua ben marcata fisionomia ritmico-armonica; così come colpisce che nella coda finale, dopo la ripresa dei due temi principali, si riusi un piccolissimo inciso già udito in precedenza, a cui viene improvvisamente conferita una certa prominenza. Meno originale è il successivo Adagio, parimenti basato su un gioco di motivi piuttosto rassomiglianti. Mentre il finale, con le sue nove variazioni sul tema popolare cui si è già accennato, se da un lato è certamente debitore della tradizione della “aria variata”, dall’altro esibisce una struttura estremamente compatta e, specialmente nelle ultime variazioni, la più grande indipendenza e la più varia distribuzione tematica tra le diverse entrate degli strumenti.

Franz Schubert eccelse per il dono dell’invenzione melodica. Liszt lo definì “il musicista più poetico che sia mai esistito”, e la dimensione intima fu privilegiata dalla sua sensibilità. La sua vita, la sua attività di compositore, la sua posizione sociale, presentano i contrasti tipici del periodo romantico: spesso visse ospite di amici, poeti, artisti per i quali compose delle musiche intime, delicate, che animarono le famose Schubertiaden (le serate dedicate a Schubert). La leggerezza e il disimpegno sono però intimamente connessi con l’amara consapevolezza di non appartenere al mondo, di non poter aspirare alla felicità. Schubert fu dunque un “viandante” che vide il bello ma anche tutto il male e il dolore della vita, sentendosi inadeguato a viverla con quella libertà individuale che pur desiderava fortemente, e concependo un pessimismo esistenziale pari a quello di Leopardi o Schopenhauer, entrambi suoi contemporanei.
Gli ultimi due anni di vita e di attività compositiva rappresentano un mistero. Nei diciotto mesi che intercorrono tra la morte di Beethoven e la propria aumentò l’attenzione da lui rivolta alle forme e alle strumentazioni classiche, la sinfonia, il quartetto, il quintetto d’archi e quel trio con pianoforte di cui non si era ancora occupato.
Beethoven aveva dedicato una grande attenzione a tale organico, da vero tedesco, sebbene vivesse a Vienna, ma comunque possedendo un’etica e una severità di stampo luterano, in netto contrasto alla leggerezza viennese. Per contro Schubert, da fiero viennese, affonda le sue radici in Haydn e Mozart e nel canto popolare accompagnato.
Dall’estate al dicembre del 1827 (Beethoven era morto il 26 marzo di quell’anno), nascono i due grandi Trii, op. 100 e op. 99. La composizione dell’op.100 si intreccia con quella dell’op.99, anzi addirittura la precede.
Iniziato nel novembre 1827, questo Trio è completato in meno di un mese ed eseguito subito, il 26 dicembre, per il Musikverein di Vienna e da musicisti di gran nome. La composizione ebbe anche tanto successo da essere rieseguita durante l’unico, grande concerto monografico che Schubert ebbe in vita sua, organizzato dalla Società degli Amici della Musica il 26 marzo 1828, in occasione del primo anniversario della morte di Beethoven. Si trattava di un simbolico e inatteso passaggio di testimone, reso purtroppo vano dalla morte di Schubert stesso, il 13 novembre di quell’anno. A completare il quadro di questo successo, l’op.100 venne immediatamente pubblicata da un importante editore, Probst di Lipsia, mentre per l’op.99 bisognerà attendere fino al 1836.
Il primo movimento del Trio op.100 è assai ampio nelle sue proporzioni: 633 battute, circa un quarto d’ora di durata, una volta e mezza quella del primo tempo dell’op.99. La cellula iniziale è un unisono dei tre strumenti che si evolve in valori sempre più corti, come un continuo alternarsi di brevi frammenti e di pause, fino a partire definitivamente. Dalla tonica (mi bemolle maggiore) ci si allontana andando a sol bemolle, a re bemolle e qui cade poi sulla cellula tematica di un apparente secondo tema, che si trova nel tono lontanissimo di si minore.
Quando finalmente si giunge con stabilità nel tono di dominante, e noi pensiamo sia giunta l’ora di un vero secondo tema, ecco che la cellula base, la nota di volta inferiore, si rivela vistosamente “figlia” della prima area tematica, e ciò accentua la vertigine delle mille possibili interpretazioni formali. E infine, quando dopo ben 140 battute il clima si distende in quello che ad orecchio sarebbe un vero secondo tema, ecco che ci accorgiamo che si tratta ancora della stessa nota di volta inferiore rallentata. E siamo in coda della lunga Esposizione. Segue un enorme sviluppo.
L’Andante con moto inizia con un canto di violoncello. Il ritmo del pianoforte è cupo, con quell’accento asimmetrico posto sull’ultima croma della battuta di due quarti. E il canto di violoncello, un lungo soliloquio che si avvolge su se stesso, proviene da una melodia popolare svedese dal titolo “Vedi, il sole declina” ascoltata a Vienna. Lo sviluppo di tale tema raggiungerà momenti angoscianti.
Lo Scherzo sembra uscire sorridente lieto dall’oscurità profonda del secondo movimento. Mentre il quarto movimento, l’Allegro moderato, inizia con una cellula lineare e giocosa. Si introduce subito un secondo elemento veloce, che tocca tutti e tre gli strumenti con vari sviluppi e riprese. Anche qui c’è un ampio sviluppo che sembra quasi non aver mai fine. Ma il finale invece arriva, ed è il ritorno del canto drammatico e profondo del violoncello del secondo movimento, che in questo modo sembra chiudere il cerchio.

Impressiona sempre, parlando di musica e di compositori, che un ragazzino di soli sedici-diciassette anni padroneggi già così bene la tecnica compositiva, da saper dar vita ad un brano che vada ben oltre le mire di “saggio di conservatorio” e si proponga, invece, come vera e propria opera cameristica. Tale è il caso del primo Trio in do minore op. 8 per violino, violoncello e pianoforte di Dmitri Shostakovich (1906-1975), che fu composto nel 1923 in Crimea, dove il nostro si era recato per curarsi la tubercolosi, e proposto l’anno successivo appunto come saggio per passare dal Conservatorio di Pietrogrado (nome con cui fu nota, dal 1914 al ’24, la città di San Pietroburgo, poi Leningrado) a quello di Mosca. Le cronache narrano (per bocca della sorella del compositore, nonché un po’ sua agiografa) che allora il giovane si era innamorato di una collega sua coetanea, certa Tatyana Glivenko, la quale infatti fu la dedicataria della composizione, romanticamente denominata “Poème”: la giovane sarebbe poi stata corteggiata a lungo dal compositore, ma a quel che sembra invano. Inoltre pare che il Trio fu assemblato da Shostakovich e provato insieme a due suoi colleghi musicisti, in un cinema moscovita durante la proiezione di un film muto; e in effetti molti critici sono concordi nell’associare una partitura così piena di improvvisi contrasti agogici, dinamici e soprattutto tematici, com’è questa, allo scorrere cangiante di immagini cinematografiche.
Il carattere di “saggio” è ravvisabile nell’essere il Trio formato da un solo movimento, con un’alternanza di sezioni dall’andamento sempre contrastante, generalmente la prima lenta e patetica, la successiva più vivace e drammatica. L’Andante iniziale principia con un motivo discendente di semitoni a carattere doloroso, esposto dal violoncello e ripreso dal violino su un pedale armonico del pianoforte: questa successione di semitoni, secondo una tradizione musicale tipicamente romantica che trova nel Tristano e Isotta wagneriano il massimo esempio, evocherebbe, in senso descrittivo, il desiderio amoroso. Il tema viene ripreso ed espanso dal pianoforte, per poi accendersi improvvisamente nella successiva sezione Molto più mosso, introdotta da ampi intervalli melodici e ruvide dissonanze, tipici del registro “grottesco”. Non siamo lontanissimi, qui, dallo Shostakovich impareggiabile sinfonista.
Una ripresa variata del primo tema precede l’Allegro, caratterizzato da un ritmo angoloso e da un profilo melodico, direi, tipicamente slavo: questa sezione accelera progressivamente fino a culminare con la sezione Più mosso, una specie di moto perpetuo eseguito dal violino e sorretto dal pianoforte. Essa si spegne su accordi cullanti dello strumento a tastiera.
L’Andante successivo è forse da considerarsi il fulcro emotivo del Trio: una sorta di “ninna nanna” dal sapore vagamente lisztiano, esposta dal violoncello e accompagnata dallo strumento a tastiera, con il tema poi ripreso dal violino. Segue un ritorno del tema dell’Allegro, su cui si innesta un tema ancor più vivace (Prestissimo fantastico) di carattere veramente virtuosistico e dove è molto serrata la dialettica tra le parti.
Una gran pausa drammatica introduce la ripresa con il ritorno dei temi, già tutti uditi e abilmente cuciti insieme: il languido motivo introduttivo, la “ninna ninna”, l’Allegro da noi definito “slavo”, il moto perpetuo.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 23 marzo

Giovedì 23 marzo 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
QUARTETTO ADORNO
SANDRO DE PALMA, pianoforte

Camille Saint-Saëns (1835 – 1921)
Quintetto in la minore op. 14
***
César Franck (1822 – 1890)
Quintetto in fa minore

Note di sala
di Gianluca D’Agostino*

È stato notato che nel repertorio cameristico il genere del quintetto per pianoforte e archi non è molto rappresentato e che in ogni caso esso fu poco frequentato fuori dalla tradizione austro-tedesca, tradizione che in questo caso si compendia nei nomi esemplari di Schumann e Brahms.
Questi modelli, in effetti, rimasero e rimangono insuperabili dal punto di vista formale, cioè riguardo alla soluzione del “problema” di base posto dal genere, quello della dialettica intercorrente tra il quartetto d’archi, concepito come “piccola orchestra”, ed il pianoforte, pensato invece come “solista” e impegnato, essenzialmente, nello sfoggio virtuosistico e brillante.
A tali modelli e in questa prospettiva guardò, inevitabilmente, anche il francese Camille Saint-Saëns (Parigi 1853 – Algeri 1921) il quale, da parte sua, oltre ad essere un gran virtuoso della tastiera, fu anche un compositore molto versatile, fermo restando che fu essenzialmente un compositore-pianista e dunque a suo agio completo nella scrittura per tastiera, come dimostrano soprattutto i cinque Concerti per pianoforte e orchestra. Il problema del confronto-scontro con i tedeschi fu sempre una delle sue preoccupazioni, visto che il compositore si pose, o meglio di sarebbe posto come massimo alfiere della scuola nazionale locale, nonché come principale artefice (con Franck, d’Indy, Lalo, Fauré, suoi colleghi e co-fondatori della “Société Nationale de Musique”) del rinnovamento e del rilancio della cosiddetta “Ars gallica”.
Ben prima che ciò accadesse, cioè intorno ai vent’anni, il musicista aveva già composto questo suo Quintetto in La minore op. 14, intendendo l’opera appunto come occasione di sfoggio solistico sulla base di un accompagnamento di una (piccolissima) orchestra d’archi: in questo senso, proprio allo scopo di enfatizzare il ruolo degli archi, nella pubblicazione finale fu inclusa una parte opzionale di contrabasso. Significativa è anche la dedica dell’opera a Charlotte Gayard Masson, la prozia che, dalla morte del padre, era andata a vivere con Camille e con la sua mamma, e che aveva avuto il merito di avviarlo (e molto bene) allo studio serio del pianoforte: significativa perché ci apre uno spaccato sulla formazione del giovane compositore e sulla dimensione “domestica” di questa pagina.
In questo caso, tuttavia, domestica non vuol dire acerba, poiché anzi questa composizione appare curatissima e anzi impeccabile da un punto di vista formale, come subito notarono, concordemente, un po’ tutti i primi critici e recensori.
La serissima e drammatica introduzione accordale del primo movimento, Allegro moderato e maestoso, forma un motivo che ricorrerà durante tutto il suo svolgimento e che verrà ripreso anche in seguito. Dopo degli arabeschi del pianoforte e dopo una sorta di coda solistica molto brillante, la risposta affidata agli archi è più lirica e delicata e solo a quel punto si dà il via ad una pagina splendidamente strutturata, dove si evidenziano almeno tre idee tematiche ottimamente messe in contrasto tra loro. Una lunga sezione che potremmo chiamare di sviluppo è dedicata all’elaborazione tematica e più ancora al rovesciamento delle parti, nel senso, per esempio, che il memorabile tema iniziale è affidato questa volta agli archi e con la risposta del solista. La ripresa e ancor più la coda del movimento conoscono, sul finire, un’inaspettata accensione ritmica ma soprattutto armonica, che prende una piega ancor più drammatica rispetto al principio e direi quasi esasperata.
Il secondo movimento, Andante sostenuto, ha un respiro che potrebbe dirsi liturgico, più da un punto di vista armonico che melodico, conferito in generale dalle delicate note ribattute degli archi su arpeggi del pianoforte o, ancora, da certe volatine sempre degli archi, ma ancor più, appunto, dalle audaci modulazioni del brano e dalle sue inusuali digressioni armoniche.
Ma è il successivo Presto a colpire l’attenzione dell’ascoltatore, grazie in particolare al carattere di brillantissimo perpetuum mobile del pianoforte (molto lisztiano), nel quale fa capolino a un certo punto il serio motivo di apertura del Quintetto. Questo elemento ci ricorda che la ciclicità – oltre all’ordine e all’equilibrio formale di stampo quasi “neo-classici” – era un altro fondamento dell’ideale compositivo dell’autore e che in questo egli, come peraltro molti altri autori di quella generazione, fu molto debitore appunto verso Liszt.
Il finale, Allegro assai ma tranquillo, può definirsi un saggio accademico: un severo fugato che coinvolge all’inizio solo gli archi e che poi apre la via ad una nobile melodia di nuovo enunciata dagli archi e poi ripresa, e variata, dal pianoforte.
Composto tra 1878 e 1879, il Quintetto in fa minore per pianoforte e archi di César Franck (Liegi 1822 – Parigi 1890) risulta nel complesso più “concertante” e decisamente più complesso di quello di Saint-Saëns precedentemente analizzato. Esso comprende tre lunghi movimenti, con i due esterni più impetuosi, e quello centrale, di carattere molto vario e più meditativo. Alla drammatica introduzione degli archi al primo movimento, Molto moderato quasi lento, risponde il pianoforte in modo più solenne e più calmo, con prolungati arpeggi: questi due temi contrastanti formano il corpo principale del primo movimento, ma subito essi prendono a suonare simultaneamente e a fondersi l’uno nell’altro, secondo una tecnica che evidentemente doveva essere molto cara al compositore. Inoltre lo sviluppo vede un intensissimo lavorio di elaborazione tematica, con delle pause improvvise molto “a effetto” alternate ad improvvise accensioni, mentre il finale tocca livelli di alto lirismo e di pathos trascinante.
L’amplissimo secondo movimento, Lento, con molto sentimento, è probabilmente la parte più bella dell’opera, anch’essa giocata, almeno inizialmente, sulla logica del contrasto: quello derivante tra l’andamento ripetuto e monocorde del pianoforte e le brevi impennate melodiche degli archi. Ben presto, però, il gioco dialettico tra le parti aumenta e si complica, fino a dar corpo ad uno straordinario caleidoscopio di trame motiviche, di dinamiche, di sfumature armoniche, davvero complicato a descriversi, se non ricorrendo ad immagini extra-musicali, come quella delle onde del mare che continuamente di frangono e ritornano indietro. Oltretutto anche qui si riaffaccia lo stratagemma delle pause, dopo ognuna delle quali sembrano ripartire nuove digressioni tematiche che conducono lontano da dove si era partiti.
Enigmatico, al limite del pauroso, è infine l’incipit dell’ultimo movimento, Allegro non troppo, ma con fuoco, eseguito dal primo violino. Il prosieguo è all’insegna dell’alternanza tra blocchi tematici, dove comunque spicca il carattere meramente ritmico di una melodia prevalentemente condotta dagli archi, su accompagnamento pianistico, comunque sempre cangiante.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 16 marzo

Giovedì 16 marzo 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
JAN LISIECKI, pianoforte


Fryderyk Chopin (1810 – 1849)
Studio in do maggiore op. 10 n. 1
Notturno in do minore op. post.
Studio in la minore op. 10 n. 2
Notturno in mi maggiore op. 62 n. 2
Studio in mi maggiore op. 10 n. 3
Studio in do diesis minore op. 10 n. 4
Notturno in do diesis minore op. 27 n. 1
Notturno in re bemolle maggiore op. 27 n. 2
Studio in sol bemolle maggiore op. 10 n. 5
Studio in mi bemolle minore op. 10 n. 6
Notturno in mi bemolle maggiore op. 9 n. 2
Notturno in do minore op. 48 n. 1
***
Notturno in sol minore op. 15 n. 3
Studio in do maggiore op. 10 n. 7
Notturno in fa maggiore op. 15 n. 1
Studio in fa maggiore op. 10 n. 8
Studio in fa minore op. 10 n. 9
Notturno in si bemolle minore op. 9 n. 1
Studio in la bemolle maggiore op. 10 n. 10
Notturno in la bemolle maggiore op. 32 n. 2
Studio in mi bemolle maggiore op. 10 n. 11
Notturno in do diesis minore op. post.
Studio in do minore op. 10 n. 12

Note di sala
di  Pierpaolo De Martino*
Il programma interamente dedicato a Chopin proposto stasera da Jan Lisiecki ha un’articolazione inconsueta: la raccolta degli Studi op.10 viene eseguita non inanellando i dodici pezzi uno dietro l’altro in successione, ma in combinazione con undici Notturni, in modo da formare un ciclo più ampio. Muovendo dalla tonalità di do maggiore del primo Studio e giungendo fino al do minore dell’ultimo, attraverso una trama di affinità tonali (relazioni di quinta e di modo maggiore-minore) si delinea un percorso che intreccia due generi di solito considerati assai distanti fra loro ma che in realtà incarnano due aspetti contigui del modus operandi di Chopin.
Considerati oggi pilastri del pianismo professionistico, banchi di prova pressoché d’obbligo per qualsiasi candidato nei concorsi internazionali, gli Studi inizialmente non erano stati pensati da Chopin per la sala da concerto ma per sé stesso. Si dimentica troppo spesso, infatti, che la formazione pianistica di Chopin fu quella di un sostanziale autodidatta: il suo maestro Wojceck Zywny, modesto didatta-pianista-violinista, era certamente armato di una tecnica poco avanzata e i primi studi scritti dal suo allievo nel 1829 nacquero come esercizi preparatori, prendendo a esempio gli Studi op.20 di Joseph Kessler. La raccolta così come noi la conosciamo oggi, pubblicata nel 1833 e dedicata a Liszt, non ci sarebbe stata però senza la folgorazione ricevuta ascoltando Paganini a Varsavia (che negli stessi anni folgorò anche Schumann e Liszt) e senza il viaggio che condusse Chopin a Parigi nell’autunno del 1831. La capitale francese a quel tempo pullulava di pianisti-compositori in lizza fra loro – Kalkbrenner, Herz, Pixis, Dreyschock, Hiller, Liszt e Thalberg – tutti orientati verso un nuovo virtuosismo funambolico. Alcuni di loro si erano già messi in evidenza come autori di Studi da concerto, benché nessuno, a parte di Liszt, fosse stato capace di elaborare una tecnica innovativa che potesse stare al pari con quella elaborata dal semisconosciuto ventenne polacco, il quale peraltro, non amava particolarmente le esibizioni concertistiche e preferiva farsi ascoltare nelle dimensioni più intime dei salotti privati.
Le clamorose novità degli Studi op.10 (e dei successivi Studi dell’op.25) derivarono in parte dalle caratteristiche delle mani di Chopin: mani “da serpente” secondo Stephen Heller – non grandi, ma affusolate ed estremamente flessibili, con un pollice molto distanziato dalle altre dita – che lo spinsero verso la sperimentazione di un’ampia gamma di tecniche del tocco: dalla rotazione del polso all’uso sistematico del pollice sui tasti neri; dalla posizione bassa rispetto alla tastiera all’attacco del tasto con polso alto e dita allungate; dall’uso del dito medio come perno negli spostamenti laterali alle diteggiature di sostituzione. Tecniche tanto inusuali ed eterodosse da indurre l’autorevole critico Ludwig Rellstab a dichiarare velenosamente che con quegli strani studi chi aveva le dita storte se le sarebbe raddrizzate, ma chi le aveva dritte avrebbe fatto bene a lasciarli perdere, a meno che non avesse a portata di mano un paio di chirurghi. La verità è che gli Studi chopiniani tendevano a oltrepassare del tutto la dimensione “meccanica” degli analoghi lavori scritti dai tanti acrobati della tastiera attivi nella Parigi degli anni Trenta. Chopin avrebbe scritto poi: «per la borghesia ci vuole sempre qualcosa di straordinario e di meccanico che io non posseggo»; e in effetti l’essenza profonda del suo virtuosismo era di una natura del tutto particolare, mossa com’era dall’attitudine a sperimentare sonorità e soluzioni timbriche inedite.
In quest’ottica gli Studi appariranno dunque non molto dissimili dai Notturni, che richiedono un’arte del tocco estremamente sofisticata. Chopin a questi ultimi si dedicò fin dal 1827 sotto l’influsso di John Field, pianista-compositore irlandese allievo di Clementi, che aveva guadagnato larga notorietà europea proprio grazie ai suoi Nocturnes, inizialmente intitolati Romances. Denominazione quest’ultima che lasciava intendere manifestamente i legami con la musica vocale di brani fondati su melodie cantabili, con accompagnamenti arpeggiati e regolari e con articolazioni formali semplici legate alla forma di canzone ABA. L’impronta di Field si coglie con evidenza nelle melodie di tipo vocalistico e nelle formule di accompagnamento affidate alla mano sinistra che ritroviamo nel Notturno op. postuma in do diesis minore, che Chopin dedicò alla sorella maggiore Ludwika nel 1830, così come nei Notturni op.9 n.1 e n.2, pubblicati nel 1832. Ma già in queste prime prove la gamma armonica impiegata da Chopin appariva di gran lunga più varia di quella del modello, superato anche nell’opulenza dell’ornamentazione che guardava allo stile esecutivo dei grandi cantanti italiani dell’epoca, Giuditta Pasta, Maria Malibran, Giovan Battista Rubini.
Nei Notturni seguenti la ricerca chopiniana, pur senza alterare mai del tutto i connotati fondamentali del genere, ne ampliò enormemente le potenzialità allontanandosi dai tratti belcantistici e sperimentando forme sempre più sofisticate di cantabilità puramente pianistica, non escludente il ricorso a un liberissimo contrappunto. L’inventiva di Chopin incise anche sul piano formale, adottando strutture come quella del rondò – nel Notturno in re bemolle maggiore op.27 n.2 – o introducendo varianti nel tradizionale schema ABA, come accade nei Notturni op.15 n.1, op.27 n.1, op.32 n.2 nei quali anziché tre sezioni placidamente consequenziali, sia ha una forte intensificazione emotiva nella parte centrale, del tutto contrastante con quanto precede e segue. Né Chopin mancò di ricorrere a soluzioni più sofisticate come nel sorprendente Notturno op.15 n.3, (1833) mai divenuto popolare, dove le sezioni sono solamente due: un “Lento” languido e rubato che cede il passo a un “religioso” “sotto voce”; o come nel Notturno op.48 n.1 (1841) la cui sezione centrale, costituita da un intenso corale, attraverso una progressiva crescita di energia sonora, con eclatanti passi di doppie ottave, sfocia in una ripresa grandiosamente trasfigurata. La tinta maestosa e potente del finale di questo Notturno costituisce un picco drammatico memorabile che contrasta vivamente con la tendenza alla rarefazione presente negli omonimi lavori successivi e pienamente percepibile nella purezza crepuscolare del Notturno op.62 n.2, dato alle stampe nel 1846, tre anni prima della morte; l’ ultima fra le tante, diversissime, gradazioni espressive che Chopin fu capace di esplorare nel caleidoscopico percorso dei suoi Notturni.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 23 febbraio

Giovedì 23 febbraio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
QUINTETTO BARTHOLDY
Anke Dill e Ulf Schneider, violino
Barbara Westphal, viola
Volker Jacobsen, viola
Gustav Rivinius violoncello


Alexander Zemlinsky (1871 – 1942)
Due movimenti per quintetto in re minore

Wolfgang Amadeus Mozart (1756 – 1791)
Quintetto in si bemolle maggiore K. 174

Johannes Brahms (1833-1897)
Quintetto in sol maggiore op. 111


Note di sala
di Massimo Loiacono*

Alexander von Zemlinsky (Vienna 1871- Larchmont, N.Y. 1942) è compositore poco noto alla maggior parte del pubblico dei concerti e del teatro d’opera, vieppiù. Per tanti anni nelle storie/cronache della musica era ricordato (dettaglio di cronaca inutile e/o fuorviante, pure se veritiero) quale congiunto di Schoenberg: ne derivava il timore di ascoltarne pagine dissonanti, ermetiche etc.. Ed invece con turgido ed avvincente cromatismo, sensuale o tragico, con esiti anche espressionistici, Zemlinsky era/è compositore più vicino a Chausson, di recente ascoltato in questa stagione, a Franck magari (opera dello Zeitgeist, verosimilmente, con Wagner sullo sfondo). Dagli anni Settanta del passato secolo, con interesse dapprima crescente poi calante, le case discografiche ed interpreti autorevoli e qualche teatro d’opera ne hanno riproposto le suggestive partiture. Anche al San Carlo qualche anno fa , pure se in forma di concerto ne è stata proposta un’opera lirica. Cresciuto con formazione classicistica, nel mondo artistico che si ispirava a Brahms, operoso e stimato direttore d’orchestra nei teatri di Vienna, anche per un breve periodo all’Opera Imperiale, durante la presenza di Mahler al vertice di quel teatro, poi in Germania, Boemia etc.., fu costretto ad emigrare negli U.S.A. Di lui restano pochi titoli ufficiali e molti pezzi cameristici in forma anche di frammento, composti negli anni Ottanta e Novanta del secolo XIX. Sono oggetto di progressivo studio e recupero alla vita concertistica. Tra essi va annoverato il dittico da quintetti proposto in questa locandina. Ovviamente si spera che da questi frammenti balzi fuori una musica bella come quella contenuta nel frammento “movimento letto di quartetto” di Webern, scoperta da tutti negli anni Settanta del passato secolo e proposta più volte nei concerti della Scarlatti.
Il primo dei quintetti per archi di Mozart K 174 (1773), scritto molti anni prima delle opere grandissime che musicista affiderà a questa formazione diventata un genere, è da gustare nel suo ampio e festoso respiro, godendone l’aspetto dotto, il brio e la tenerezza della serenata, le invenzioni strumentali proprie della serenata (il dialogo tra gli strumenti), l’ambizione sinfonica sottesa al finale. E’ documentato che Mozart abbia realizzato due stesure del lavoro, e ne restano le prove per i due movimenti conclusivi. Ispirandosi ad insoliti, per l’epoca sperimentali, quintetti di Michael Haydn, appena composti. Mozart nel 1773, di ritorno da viaggi culturalmente importanti ma poco soddisfacenti dal punto di vista lavorativo, suggestionato da significative esperienze che si univano alle novità musicali prodotte dall’amico di famiglia Michael Haydn, si cimentò con questa formazione/genere. Risultato: una composizione festosa come tutte quelle scritte allora a Salisburgo, che per lui pure era una sorta di “natio borgo selvaggio”. Ricchissimo di temi il movimento di apertura, ma di tanto tripudio di fantasia Mozart poco si giova, limitando l’uso a pochi ”personaggi”; il secondo movimento ripropone la magia delle serenate per archi, ed il terzo il garbo incipriato delle danze d’epoca. Il quarto movimento, quello più vistosamente rifatto, rivela un’elaborazione formale complessa insolita per Mozart, soprattutto in gioventù, e diventa il fulcro del lavoro.

Il concerto si conclude con il bellissimo Quintetto n.2 op. 111 di Brahms. Con il precedente lavoro di Brahms per quest’organico/formazione e con il quintetto di Bruckner di poco precedente (lavoro di rarissima esecuzione presentato qualche volta anche dalla “Scarlatti”), si conclude la storia breve del quintetto per archi nella cultura austro-tedesca, per mancanza di altri capolavori. I quintetti di Boccherini sono un cosmo felice a sé stante. Da Michael Haydn, al suo fratello famoso autore di un solo quintetto, ai compositori appena citati, passando per i capolavori della maturità di Mozart, per un lavoro poco significativo di Beethoven, per un quintetto di Schubert sublime, ma con organico appena diverso, questi quintetti mantengono il difficilissimo equilibrio tra accademia dotta, propria dei quartetti, quelli di Beethoven esclusi, ed il gusto per il divertimento fantasioso. Nei quattro movimenti dell’op.111 di Brahms è sottinteso un elemento esotico (secondo il principe di Metternich, “l’Oriente inizia(va) alla Landstrasse”, quella che va a tutt’oggi in Ungheria), slavo, o magiaro che si percepisce a tratti, ora nel disegno ritmico ora melodico, mirabilmente intessuto nel resto del discorso musicale. Il primo movimento con due temi ben sbalzati avvince per uno slancio eroico inconsueto nelle ultime composizioni di Brahms: è l’effetto del primo tema, secondo molti studiosi progettato per una irrealizzata sinfonia n.5, ed è bello l’intreccio delle voci dei singoli strumenti. Nel secondo movimento, un tema con variazioni, l’ultima variazione è anche una coda, con uso lieve ed un poco trasgressivo delle buone maniere curiali; il terzo movimento è di fatto un intermezzo che partecipa del mondo poetico della pagina che lo precede. Il fascino del movimento finale è l’andamento rapsodico, con densa scrittura che può fare pensare ai posteri, Zemlinsky, ai contemporanei Franck e Chausson. E perfino a taluni momenti del quintetto con clarinetto, op.115 in cui culmina tutta la produzione di Brahms, evocandosi perfino la magica serena n.2, del tempo che fu.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti