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Concerto 15 febbraio

ENSEMBLE ARS LUDI

Antonio Caggiano, Gianluca Ruggeri, Rodolfo Rossi, Alessio Cavaliere,  percussioni

I due leoni

Giorgio Battistelli – Il libro celibe per 1 performer (1976)

Philipp Glass – Opening da Glassworks(Ars Ludi version) (1981)

Giorgio Battistelli –Orazi e Curiazi per 2 performer (1996)

Steve Reich – Marimba Phase per 2 marimbe (1967)

Giorgio Battistelli –Psychopompos versione per 3 performer di G. Ruggieri (2023)

Steve Reich –Drumming Part 1 per 4 coppie di bongos intonati (1970-71)

 

Note di sala

di *Gregorio Moppi

Un programma, questo, che esplora due tendenze di rilievo nella musica degli ultimi sessant’anni. Da una parte il minimalismo (con gli statunitensi Steve Reich e Philip Glass, oggi entrambi ottantasettenni), dall’altra il teatro strumentale (con Giorgio Battistelli, compositore nato nel 1953). Al centro di tutto stanno le percussioni, cui il ’900 ha concesso sempre più volentieri ruoli da protagonista nelle sale da concerto; e quando suonano le percussioni, lo spettacolo è garantito. A un performer che deve agire su – interagire con – una singolare partitura tridimensionale è affidato Il libro celibe(1976), uno dei primi lavori di Battistelli. Titolo che richiama l’interesse del compositore per le “macchine celibi” di Marchel Duchamp in cui il principio maschile e il femminile si congiungono. L’idea che ‘celibe’ debba essere un libro deriva da una sorta di spiritosa competizione con i molti amici scrittori, tutti allora affaccendati sui loro libri. La partitura è un libro d’artista costruito con carta, cartone, pelle, metallo, legno, che esiste sia in quanto manufatto autonomo, da esporre in gallerie e musei, sia come strumento musicale che pretende di essere sfogliato affinché possa emettere suoni. Dunque opera anfibia, visiva e musicale allo stesso tempo, ispirata a esperienze simili di Dieter Schnebel e Giuseppe Chiari. Ad attivare l’azione teatral-musicale che fa ‘sposare’ il libro all’interprete è il gesto dello sfogliare: ciascuna pagina va manipolata, strappata, appallottolata, sfregata, grattata, percossa con tante e diverse modalità di tocco meticolosamente previste dalla partitura-racconto dell’autore. Il quale all’epoca, di libri celibi ne fabbricò tre. Un esemplare fu esposto in una mostra di libri d’artista a Palermo curata dalla poetessa Mirella Bentivoglio e per una settimana anche nella Galleria dell’oca, a Roma.

Philipp Glass, autore che da fine anni ’60 impiega tecnica minimalista e vocabolario consonante (portato su tale strada dall’ascolto di Piano Phase di Reich), ad affascinare il grande pubblico è arrivato nel 1982 grazie all’album Glassworkspubblicato dall’etichetta Cbs. Sei tracce semplici, orecchiabili, concepite con l’intento di affratellare classica e pop per essere ascoltate anche con il walkman. La prima, per tastiera, si intitola Opening (qui è proposta nella versione di Ars Ludi per le percussioni). Dura sei minuti, nei quali un flusso ritmico ripetitivo, ininterrotto, scorre liscio come l’acqua di un fiume, sempre simile a se stesso, ma mai davvero uguale.

Al 1996 data la composizione di Orazi e Curiazi di Battistelli, commissione del Duo Ars Ludi eseguita la prima volta a Pechino. La partitura porta letteralmente in scena un combattimento tra due percussionisti collocati su un tappeto di ghiaia, loro campo di battaglia, entrambi muniti di una coppia di bongos, quattro tom-tom, piatto sospeso, woodblock, tam-tam, grancassa sinfonica. I due devono pure bisbigliare, fischiare, mormorare, ansimare, tossire, emettere risatine. Nella loro contrapposizione virile, furibonda, brutale, selvaggia, infarcita di suoni onomatopeici, rivive lo scontro fra i tre gemelli Orazi e i tre gemelli Curiazi, scelti rispettivamente come campioni di Roma e di Alba Longa per decidere l’esito della guerra tra le due città. Una leggenda ambientata nel VII secolo a. C. molto cara a Battistelli, nato ad Albano Laziale, non lontano da dove si ritiene sorgesse Alba. Dapprima i Curiazi sembrano aver la meglio, avendo ucciso due Orazi. Il terzo finge la fuga. I Curiazi si pongono allora al suo inseguimento, ma sono feriti e non riescono a procedere uniti. Così l’Orazio può affrontarli uno a uno, facendoli fuori e conquistando la vittoria per Roma. Il pezzo di Battistelli fotografa, appunto, questo drammatico duello finale tra l’ultimo degli Orazi e l’ultimo dei Curiazi. Il perdente, stando alla partitura, “si copre il viso con le mani e lentamente si accascia sulla grancassa”. Il vincitore, “lentamente si volta… poi guarda in alto. Sposta la testa in avanti verso il pubblico e rimane immobile”.

 Marimba Phase (1967) è uno dei primi esempi della tecnica minimalista sviluppata da Steve Reich a partire da un esperimento compositivo su nastro magnetico. Alla fine del 1964, infatti, Reich registra un predicatore nero che parla del diluvio universale nel parco di Union Square a San Francisco. L’incipit di quel sermone (“It’s gonna rain”, sta per piovere) viene poi montato a loop in maniera tale da mettere in risalto le qualità melodiche e ritmiche della voce del predicatore. Durante il lavoro Reich ha un’illuminazione: «Mentre cercavo di allineare due nastri in loop identici, scoprii che il modo più interessante di procedere consisteva nell’allineare i nastri all’unisono, e poi di lasciarli andare gradualmente in sfasatura. Mentre ascoltavo questo processo graduale di “defasaggio”, cominciai a rendermi conto che si trattava di una forma straordinaria di struttura musicale. Era un processo musicale continuo, senza interruzioni e rotture». Dal nastro agli strumenti acustici il passo è breve: il “defasaggio” approda su due pianoforti con Piano Phase, che suonato sulle marimbe – come l’autore consente – si trasforma in Marimba Phase. Il materiale musicale è costituito da un certo numero di motivi melodico-ritimici che si ripetono. Parte la prima marimba con uno schema di dodici note, cui si somma la seconda all’unisono. Questa velocizza il tempo poco a poco. portandosi gradatamente fuori fase rispetto alla prima. E la medesima procedura si replica per gli altri motivi.

Ancora un lavoro in cui Battistelli mette a frutto la sua formazione da percussionista e l’interesse per l’elemento performativo dell’esecuzione musicale: Psychopompos (1988) è stato scritto durante il periodo di studio a Parigi, su richiesta delle Percussions de Strasbourg, ensemble di punta per la musica nuova. L’organico comprende sei tamburi a frizione di varie dimensioni (il più grande di 2 metri) che producono sei timbri diversi – la versione presentata stasera, curata da Gianluca Ruggeri con il consenso dell’autore, riduce l’organico a tre strumentisti, rendendone l’esecuzione ancor più virtuosistica. I tamburi per la prima esecuzione tenuta a Strasburgo, Battistelli li aveva fatti costruire a Pomigliano d’Arco da un artigiano specializzato in putipù cui era stato indirizzato dall’etnomusicologo Diego Carpitella: d’altronde all’origine della composizione sta una ricerca  sulle tradizioni magico-rituali partenopee condotta sul campo. Ogni strumento incarna uno psicopompo, ossia un trasmigratore di anime, figura androgina che in sé congiunge il femminile (simboleggiato dalla membrana del tamburo) e il maschile (la canna mossa ritmicamente su e giù). La figura del trasmigratore, legata all’idea di morte, ne esorcizza tuttavia la paura attraverso il rimando alla sessualità. Al dialogo dei tamburi si sovrappongono le voci intonate dei percussionisti; da ultimo si raggiunge il massimo della concitazione, che rammenta una tammurriata.

Con Drumming (1970-1971) Reich lavora per la prima volta su una composizione di ampie dimensioni: un’ora e mezzo di durata se suonata per intero. Ma stasera, delle sue quattro sezioni, viene proposta soltanto la prima, per quattro coppie di bongos intonati percossi da bacchette ed eventualmente uniti a voci maschili – le altre sezioni prevederebbero tre marimbe e voci femminili, tre glockenspiel, fischio e ottavino, e l’ultima tutti questi strumenti assieme. Drumming rappresenta la stadio finale di perfezionamento del processo di “defasaggio” graduale. La parte qui proposta comincia con due tamburi (ma possono essere anche tre o quattro) che danno il via al motivo ritmico alla base del pezzo. Si tratta di un battito singolo, contornato da pause, ripetuto varie volte. Man mano quasi tutte le pause sono riempite da battiti: i suoni sostituiscono gradualmente i silenzi, prima aggiungendo un battito, poi un altro ancora, e ancora, ancora; e allorché un battito nuovo compare nello schema ritmico, tale schema va replicato più volte. Ma non tutti i percussionisti – che talvolta possono pure usare la voce insieme ai bongos o al loro posto – procedono simultaneamente a riempire le pause. Ciascuno decide con una certa autonomia quando effettuarla. Per giunta, in certi momenti, alcuni esecutori devono accelerare il tempo, così da non risultare più in sincrono con gli altri: ed ecco applicato il “defasaggio”.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

 

 

 

Concerto 14 marzo

ANIELLO DESIDERIO, chitarra

 

Federico Moreno Torroba –Burgalesa – Suite castellana

Enrique Granados – Danza española Nr. 5

Joaquim Malats – Serenata española

Emilio Pujol -Tonadilla -Tango

Leo Brouwer – Rito de los Orishas;  Exordium Conjuro; Danza de las diosas negras

Johann Sebastian Bach – Chaconne from Partita II BWV 1004

Stephen Goss – Verismo

 

Note di sala

di *Salvatore Morra 

Ciò che è degno di nota è che, mentre la “Spagna” si trova ovunque nel Teatro dell’Opera, dal Don Giovanni di Mozart a Il Barbiere di Rossini, dal Fidelio di Beethoven al Don Carlo di Verdi e alla Carmen di Bizet, gli autori spagnoli non produssero una voce operistica negli stessi termini dei loro colleghi europei. In particolare, la zarzuela, che caratterizza implicitamente metà del repertorio chitarristico in programma, dal 1768 divenne rappresentativa del gusto popolare spagnolo, assorbendone la tradizione burlesque, la tonadilla scenica, la commedia barocca, canzoni popolari e danze. Federico Moreno Torroba (1891-1982)legò la sua fama soprattutto a questo genere; diresse il Teatro de la Zarzuela dal 1925 e il Teatro Calder dal 1930. La sua produzione da concerto per chitarra, dedicata all’amico Segovia, raramente si avventura nell’impressionismo o nella politonalità, come quella di De Falla, e non abbraccia il serialismo, come ha fatto Gerhard, ma rimane soprattutto intrisa di folclore nazionale. Burgalesa (1928) è un tributo lirico alla città di Burgos e alla vita castigliana, eseguito qui da Desiderio in una trascrizione in Mi maggiore di Abel Carlevaro, che sfocia a mo’ di introduzione nella Suite Castellana, ricca di armonici, pizzicati in danze ternarie come il Fandanguillo: gioioso ma nostalgico. Lo stesso vale per i “morceaux de salon”, che compaiono a Barcellona in seguito all’interesse per il repertorio storico alla fine del Diciannovesimo secolo. Le Danzas Españolas di Enrique Granados (1867-1916) mostrano un carattere raffinato, intrise della tradizione romantica di Liszt e Chopin, unita ad un elegante sapore spagnolo. Nella danza numero 5 Granados è romantico ed estasiante, con una linea flessibile della melodia, di innata semplicità, modesta struttura e senza ornamenti eccessivi. Di fattura decisamente più virtuosistica è la Serenata Española di Joaquim Malats (1872-1912),originariamente per pianoforte, ma immortalata nel Ventesimo secolo da Tarrega, Andrés Segovia e Julian Bream alla chitarra, un’opera gentile, di melodie suadenti è inscritta nella musica di ispirazione popolare lungo la lunga linea da Granados ad Albéniz. In la minore, si sviluppa attraverso un registro adatto alla chitarra, attirando l’attenzione sul movimento ritmico delle voci intermedie che insieme al timbro delle corde basse, producono un suono denso, pastoso e marcato. Nei primi decenni del 1900 la chitarra partecipò attivamente al processo rigenerativo della musica spagnola, proprio sulla spinta della zarzuela, e grazie all’entusiasmo di alcuni interpreti polarizzati attorno alla figura di Francisco Tárrega, segnando in modo decisivo il futuro dello strumento. Della generazione nata intorno al 1871, spiccano Miguel Llobet (1878-1938), Daniel Fortea (1878-1953), Emilio Pujol (1886-1980), e ancora Graciano Tarrago (1892-1973), Josefina Robledo (1892-1970), Andrés Segovia (1893-1987) e Regino Sainz de la Maza (1896-1981). Emilio Pujol in particolare, con Tres Piezas Espanõlas, qui Tonadilla e Tango, cristallizza l’idioma della chitarra moderna, la sua tavolozza timbrica e le possibilità polifoniche, tracciando il percorso da seguire ai compositori chitarristi della seconda metà del secolo. Dall’Europa migra nelle sue versioni, ma la chitarra rimane sempre ancorata ad una corrente folcloristica e nazionalista, a volte con pretese universali, intrappolata nell’agitata realtà politica e sociale di gran parte delle repubbliche latinoamericane dagli anni Trenta in poi. Con Leo Brouwer (1939), forse il compositore vivente più significativo per questo strumento, trasfigura le sei corde in qualcosa di assolutamente astratto rivelando la presenza di elementi del canto sacramentale africano e le sue proprie ritualità. Una delle isole più grandi dei Caraibi e antico dominio coloniale spagnolo, Cuba servì dal XVI al XIX secolo come meta di centinaia di migliaia di schiavi africani. ElRito de los Orishas (1993), composta nel suo secondo periodo (1968-1979), per il chitarrista uruguaiano Alvaro Pierri, presenta stili definitivi dell’avanguardia internazionale: gruppi cromatici, scontri tonali, effetti percussivi, ostinati nel registro inferiore, che ricreano l’intensità dello yoruba. Nel pantheon yoruba predominano gli orisha e i riti di iniziazione. Fin dai loro albori i culti africani degli orisha devono ad un certo sincretismo con il cattolicesimo e le religioni indigene una delle loro caratteristiche più importanti: il culto dei santi, in linea con le tradizioni cattoliche esistenti prima delle riforme del Vaticano II. Ed eccoci alla celeberrima Ciaccona che chiude la Partita II BWV 1004 in re minore per violino di Johann Sebastian Bach (1685-1750), danza di origine anch’essa spagnola o fors’anche latino-americana diffusa in Europa dalla fine del Diciassettesimo secolo. La Ciaccona bachiana da un tema di otto battute prosegue con un corale di trentadue variazioni, in un’entusiasmante progressione ritmica. È una delle pagine più universalmente esaltate della musica strumentale, ricca delle più ardite figurazioni del virtuosismo violinistico. Anche la versione per chitarra come le trascrizioni per pianoforte di Brahms e Busoni, ne danno un respiro possente e di grande tensione trascendentale. Verismo, una fantasia concertante di Stephen Goss (1964), compositore e chitarrista gallese, è dedicato a Desiderio. Il brano è plasmato dall’uso di citazioni e riferimenti stilistici di opere della giovane scuola italiana: Manon Lescaut (Puccini), Cavalleria Rusticana (Mascagni), La Bohème, Il Tabarro (Puccini), La Traviata e Rigoletto (Verdi) e, infine, Il barbiere di Siviglia (Rossini). A parte quest’ultimo, si tratta in effetti di un linguaggio operistico generato quindi dalla disgregazione del sistema dell’opera romantica italiana esposto agli attacchi del sinfonismo wagneriano. A suggerire l’associazione col verismo letterario furono immediatamente i contenuti dell’opera di Mascagni Cavalleria (1890), il mondo contadino o sottoproletario spesso meridionale, e quelli di Verga. Qui lo stile chitarristico coglie la prorompenza canora, una vocalità melodrammatica convenzionale forgiata in un continuo declamato fra il registro centrale e acuto della chitarra.

 

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

 

 

 

 

 

 

Concerto 7 marzo

ORCHESTRA DEL MOZARTEUM DI SALISBURGO
LUIGI PIOVANO, violoncello solista e direttore


Dmitrij Šostakovič – Concerto n. 1 in mi bemolle maggiore per violoncello e orchestra op. 107

Ludwig van Beethoven – Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92

 

Si tratta di un vero e proprio concerto-evento che vede protagonista – dopo tantissimi anni a Napoli – l’Orchestra del Mozarteum di Salisburgo. L’orchestra è acclamata dal pubblico e dalla critica per la brillante freschezza delle sue esecuzioni. L’orchestra sinfonica della città e della provincia di Salisburgo, che trae le sue origini dalla Società musicale della Cattedrale e del Mozarteum fondata nel 1841 con il sostegno di Konstanze, la vedova di Mozart, e dei loro due figli, è una delle principali orchestre austriache con un suono e uno stile suoi propri. Le sue esecuzioni del repertorio classico viennese, e in particolare delle musiche di Mozart, le hanno dato una fama mondiale. Come riconoscimento di questo risultato, nel 2016 è stata la prima orchestra, dopo i Wiener Philharmoniker, ad aver ricevuto la Medaglia d’oro Mozart.

A dirigere il concerto, in un programma che lo vede protagonista anche come solista, nel Concerto per violoncello e orchestra di Šostakovič, è Luigi Piovano, molto attivo da sempre nella musica da camera a fianco di artisti del calibro di Maurizio Pollini, Wolfgang Sawallisch, Myung-Whun Chung, Alexander Lonquich, Dmitry Sitkovetsky, Leonidas Kavakos, Veronika Eberle, Katia e Marielle Labeque, Nikolay Lugansky, Malcolm Bilson. Dal 2005 suona regolarmente in duo con Antonio Pappano e dal 2009 al 2019 ha fatto parte del Trio Latitude 41. Ha suonato come solista con prestigiose orchestre – Tokyo Philharmonic, New Japan Philharmonic, Accademia di Santa Cecilia, Seoul Philharmonic, Orchestre Symphonique de Montréal – sotto la direzione di direttori come Chung, Menuhin, Nagano, Pappano, Pletnev ed è da oltre 20 anni primo violoncello dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia.

 

 

 

Concerto 8 febbraio

YING  LI, pianoforte


Francois Couperin – Soeur Monique, Le Tic-Toc-Choc ou Les Maillotins

Maurice Ravel – Le Tombeau de Couperin

Sergej Prokof’ev – Selezione di brani da Romeo e Giulietta

Franz Liszt – Ballata n. 2 in si minore

Bela Bartók – Sonata per pianoforte


Concerto in collaborazione con il Premio Antonio Mormone de La Società dei Concerti di Milano

 

Note di Sala 

di *Gianluca D’ Agostino

 

François Couperin – Soeur Monique; Le Tic-Toc-Choc ou les Maillotins

Soeur Monique e Le Tic-Toc-Choc ou les Maillotins sono due preziosi rondeaux inclusi nel 18° Ordre del Troisième Livre de Pièces de Clavecin di François Couperin (1668-1733), pubblicato nel 1722, quando l’autore aveva ampiamente superato la cinquantina. Egli compose in tutto quattro Libri di “Pezzi per Clavicembalo” (1713-1730), che sono reputati capolavori assoluti della musica barocca francese per tastiera, e nei quali sono riuniti oltre 200 brani suddivisi in 27 ordres, termine che egli utilizzò per sostituire la parola suite, comunemente usata dai suoi contemporanei. Il Troisième Livre comprende 17 Ordres e in essi sono presenti solo due danze della tradizionale suite: una Allemande e una Courante, il resto sono pezzi originali di diversa ispirazione. Couperin amò molto il clavicembalo e ad esso si consacrò con dedizione infinita. I suoi rondeaux sono caratterizzati da un andamento assai brioso ed adottano simboli metrici che impongono un ritmo “sans lenteur” come in Soeur Monique, o “Légèrement et marqué”, come in Le Tic-Toc-Choc. In questi due pezzi, come in molta altra musica del nostro, abbondano gli abbellimenti, i quali vengono concepiti come procedimenti espressivi e non come espedienti virtuosistici che servano a coprire la breve durata del suono pizzicato dello strumento. Essi vanno eseguiti con gusto per diventare un tutt’uno con la melodia e fondersi in essa. Così nella sua Prefazione al Terzo Libr l’Autore raccomandava di eseguire alla lettera questi pezzi: “senza aumentazioni o diminuzioni”. La melodia di Soeur Monique era ben nota anche prima che la collezione di Pièces de Clavecin, in cui è contenuta, apparisse a stampa. Essa infatti è stata riconosciuta in vari manoscritti e in innumerevoli versioni.  Non sapremo mai se il ritratto di Soeur Monique incarni un personaggio reale o se, come succede quasi sempre in Couperin, sia il ricordo idealizzato di qualcuno; oltretutto la parola “soeur” aveva due significati ai tempi del compositore: uno si riferiva alla suora, l’altro a una ragazza dalla morale discutibile. Le Tic-Toc Choc ou les Maillotins è un brano-giocattolo che sfrutta le possibilità offerte dalle due tastiere e che si pone come una specie di moto perpetuo, in cui l’elemento melodico cede completamente il passo a quello ritmico-dinamico, come un ossessivo rondeau. In origine fu definito da Couperin “pièce-croisée”, per via dei continui incroci tra le mani, era infatti destinato esclusivamente a un clavicembalo a due tastiere sovrapposte. Le pièces-croisées, infatti, affascinano proprio per il gioco sonoro, per il loro carattere brillante, al limite del virtuosismo. Ovviamente con la tastiera unica del pianoforte diventa difficile l’esecuzione, perché si deve sottostare al meccanismo artificioso delle due mani che si misurano nel breve spazio delle stesse ottave. La prima parte del titolo (le tic-toc) è un’onomatopea che allude all’orologio, ad un movimento ripetuto, un impulso che batte costantemente; la seconda parte invece interroga i musicologi. I Maillotins, secondo Rosalyn Tureck, sarebbero quei rivoluzionari che nel 1382 protestarono, armati di mazze, contro la re-imposizione di tasse dopo la morte del re Carlo V. Altri musicologi sarebbero tentati di tradurre con “martelletti”: in effetti il ticchettio frenetico si adatta anche ai martelletti della tastiera; e altri studi più recenti hanno messo in luce che i Maillotins erano una famosa famiglia di “danseurs de corde”, ballerini sulla corda.

Maurice Ravel, Tombeau de Couperin

Il “Tombeau” musicale è un genere fiorito in Francia tra Sei e Settecento, in onore o alla memoria di un grande personaggio e, più spesso, di un collega musicista o di un maestro influente, diciamo pure di un caposcuola, riconosciuto come tale dai suoi allievi e imitatori. Sappiamo che nel Barocco il sentimento di colleganza artistica tra musicisti era fortemente sentito ad ogni latitudine (così come, per rovescio della medaglia, la loro tenace rivalità) e questo appare particolarmente vero per i francesi e per la generazione che si sviluppò intorno ai Couperin, che poi sono da considerare un po’ come i “Bach d’oltralpe”. Come sovente accade, la retorica musicale segue da presso quella letteraria e in effetti possiamo chiamarlo l’equivalente sonoro del “Tombeau poétique”. Un altro termine con cui lo si designava è “Apothéose”, né il genere difetta di precedenti storici, come la “Déploration”, o il “Lamento” italiano, ma con due notevoli differenze rispetto ad essi: la prima è che il “Tombeau” non necessariamente contiene accenti decisamente patetici o tragici, così come pure sarebbe lecito attendersi da una ricorrenza luttuosa; la seconda, d’altronde, è che non è detto che venisse composto proprio dopo la morte del personaggio in questione, ma poteva apparire anche quando egli era ancora in vita. Traduciamolo, dunque, come “omaggio” alla grandezza di qualcuno, che ci abbia tramandato un patrimonio culturale o artistico prezioso. Le caratteristiche formali più generiche del Tombeau sono nel consistere in uno o più movimenti di danza, preferibilmente quelle dall’incedere solenne, come la Pavane; e tutti ricorderanno che Maurice Ravel (1875-1937) aveva composto a fine Ottocento la propria elegiaca Pavane pour une infante défunte, quando era ancora studente di Gabriel Fauré. Tuttavia il Tombeau de Couperin, sottotitolato “6 pièces de piano deux mains”, pur partendo da tutte queste premesse, le sopravanza di molto, innanzitutto per la data della sua composizione. Ci troviamo in pieno conflitto bellico, infatti il maestro ci lavorò per ben tre anni cruciali, dal 1914 al 1917, quando anche lui, come ogni buon francese (e come anche Debussy), faceva la sua parte in aiuto della Patria (a 39 anni, Ravel fu arruolato in artiglieria come autista di camion e ambulanze). Alla dedica principale, al “grand-père” Couperin, maestro del passato e maestro “dei francesi” (stavolta è da intendersi anche un sottinteso anti-germanico), seguono dediche specifiche di ognuno dei sei brani di cui la suite si compone (Prélude, Fugue, Forlane, Rigaudon, Menuet, Toccata) ad amici del compositore caduti in guerra. Non a caso il frontespizio della partitura del 1918 fu illustrato dallo stesso Ravel con un’urna cineraria. Ma non c’è, come anticipavamo, alcunché di mortifero e tantomeno di triste in queste pagine, le quali invece compongono esattamente, in definitiva, quello che Ravel voleva ottenere, ossia un levigato capolavoro di purezza classica (ma diciamo pure “neoclassica”), dettagliatamente rifinito e cesellato, trionfo di chiarezza direi apollinea, fuori dal tempo ed oltre il tempo. Basterebbe a dimostrarlo anche solo il Prélude, con quella sua sfrenata (ma sempre, compostamente sfrenata) “galoppata” di semicrome ondeggianti e armonicamente divaganti, e ancor più con l’abbellimento della doppia acciaccatura che poi, proprio come in Couperin, perde il suo carattere esornativo e diventa consustanziale alla traccia tematica. Ma pure il seguito riserva sorprese e delizie sempre nuove: c’è l’ingegnosa Fuga, a tre voci, che naturalmente ha nell’elaborazione contrappuntistica la sua ragione d’essere e che tuttavia riesce a mantenersi tersa e trasparente, senza mai perdere in levità; c’è la Forlane, con il ritmo puntato e i suoi controtempi così fortemente icastici e facili a imprimersi nella memoria, che risulta particolarmente dilettevole ad un punto preciso, quando la figurazione principale del tema si presenta come invertita, diventando, da ascendente, discendente, mentre l’accompagnamento assume movenze da autentico ballabile; c’è il Rigaudon, più sonoro ed aspro ritmicamente, e il Menuet, dove torna a farla da padrone la suprema eleganza, e infine la Toccata, in cui il virtuosismo pianistico, e stavolta non più clavicembalistico, si riprende prepotentemente la scena, con il suo ritmo percussivo, le note ribattute, le terze alternate, ecc.  La prima esecuzione del Tombeau avvenne a Parigi nel 1919: al pianoforte sedeva Marguerite Long, vedova del dedicatario dell’ultimo brano. Nel frattempo Ravel aveva anche trascritto per orchestra, com’era sua abitudine, quattro movimenti dell’opera, modificandone l’ordine (Prélude, Forlane, Menuet, Rigaudon); e ciò fece da par suo: aggiungendo incanto ad incanto.

Sergej Prokofiev, Selezione di brani da Romeo e Giulietta

Anche qui abbiamo l’ambivalenza di scelta tra la versione per orchestra e quella pianistica. Sicuramente è un’opera che, nella sua realizzazione orchestrale, risulta potentissima, scultorea e plastica, ma anche scintillante e mordace, suadente e liricissima, e che indubbiamente va considerata tra i grandi capolavori sinfonici del periodo “entre-deux-guerres”, quella che Prokofiev concepì come balletto, ispirato all’immortale dramma scespiriano, tra 1935 e 1936. Segno della sua immediata popolarità, il lavoro conobbe almeno tre elaborazioni in forma di Suite, di sette brani ciascuna, ed una “riduzione” per pianoforte in dieci pezzi (op. 75), del 1937, che dovrebbe essere quella eseguita stasera, con i titoli dei brani sopra riportati. Si tratta di piccoli gioielli pianistici, diversissimi ed anzi contrastanti l’uno con l’altro, e comunque tutti di grande impatto sul pubblico, soprattutto se eseguiti con la dovuta attenzione alle sfumature timbrico-armoniche, e senza strafare con l’agogica o le dinamiche. In molti momenti la versione pianistica non perde neanche troppo terreno, sul piano dell’espressività, rispetto alle celebratissime versioni orchestrali. Il primo brano è una danza rustica molto vivace e non priva di humour, e la successiva “Scena” è un allegretto che prosegue nella stessa scia beffarda, mentre il Minuetto gioca sul contrasto tra la forma classica e l’armonia modernissima e politonale. Le scalette velocissime e folleggianti della “giovane Giulietta”, che altro non è che uno scanzonato “galop”, s’imprimono da subito e per sempre nella memoria dell’ascoltatore, ma a noi affascina pure il meccanismo dell’ ‘Andante marziale” insito nella successiva Mascherata, dove sentiamo il più autentico Prokofiev, con i suoi ritmi squadrati e meccanici, le poderose scale “spiananti” l’intera gamma, le acciaccature graffianti ed ironiche; fermo restando che il “non plus ultra” dell’opera, rimane sempre il celeberrimo “Montecchi e Capuleti”: il suo tema ritmico, pieno di carica primitiva, barbarica e come allusiva alle forze più interne e telluriche dell’intimo umano (e degli uomini divisi in fazioni).

Franz Liszt – Ballata n° 2 in si minore

Piaccia tanto o anche un po’ meno come compositore, Franz Liszt (1811-1886) è senza dubbio il massimo rappresentante del pianismo ottocentesco, l’inventore del concetto stesso di concerto solistico per pianoforte, e la vera “fons et origo” della cosiddetta “tecnica trascendentale” per lo strumento. Inutile citare, perché a tutti ben note, le tante testimonianze coeve sulla sua arte esecutiva impareggiabile, sull’ammirazione sconfinata che destavano i suoi concerti, sul fatto che egli riuscisse a superare con disinvoltura qualsiasi difficoltà tecnica, oltre che ad impadronirsi, attraverso le sue celebri parafrasi, della “voce” di ogni altro compositore, a lui vicino o lontano, per non parlare della vastità e profondità dei suoi interessi culturali, anche extra-musicali (e questo lo avvicina a Schumann). Ciò brevemente ricordato, non si può dire che le due Ballate che compose, attorno alla metà del secolo, ossia nel periodo di più intensa attività come concertista, siano tra i suoi capolavori, ed anzi si tende a considerarle qualitativamente inferiori, rispetto a quelle di Chopin e di Brahms. La Seconda Ballata, comunque, è stabilmente inserita nel repertorio dei grandi interpreti. L’incipit è tenebroso e molto “lisztiano”, con il tema principale lugubremente accompagnato da un agitato movimento cromatico della mano sinistra, nella regione gravissima. Una lenta e quasi religiosa progressione ascendente conduce al successivo tema in fa maggiore (alternato a minore), decisamente pastorale, che rischiara all’improvviso l’atmosfera, ripetendosi subito dopo tutta la sequenza. Nella dialettica tra queste due sezioni c’è un po’ la quintessenza del brano. Segue una transizione molto ritmica e di fanfara, che conduce ad una lunga serie nuovamente cromatica, ma per ottave, prima alla mano destra poi alla sinistra, di grande effetto spettacolare. Poi riaffiora, subito dopo, il primo tema, che nel frattempo ha acquisito maggiore consistenza e drammaticità, e c’è spazio per un breve cantabile trasognato, su teneri arpeggi di accompagnamento, sul quale a sua volta s’innesta di nuovo il tema “pastorale”: il tutto qui può ricordare i trascinanti momenti della ben più celebre Sonata in si minore (si noti, nella medesima tonalità). Riappare poi ancora una volta il “mare agitato” dell’inizio, e di qui una serie di reiterazioni di quanto già udito, ora con maggiore enfasi sull’elemento virtuosistico, ora su quello lirico e sentimentale.

Béla Bartók, Sonata per pianoforte, Sz. 80

Bartok compose la sua “Szonata” – come laconicamente viene chiamata nel frontespizio originale – sempre nel lungo “periodo di mezzo”, ma molto prima di quanto detto circa Prokofiev, cioè nel 1926, in un tempo in cui era invalso uno sperimentalismo decisamente maggiore. E’ lo stesso anno del più celebre Concerto n° 1 per pianoforte ed è anche il momento in cui questo grandissimo e ancora non del tutto compreso maestro del Novecento, dopo aver completamente digerito la lezione dodecafonica, guardava oltre e sempre in una direzione arditamente sperimentalistica (il suo “neoclassicismo” è da intendersi in un’accezione molto particolare). Il primo movimento ha un incipit impetuoso, molto marziale e dal sapore innegabilmente stravinskiano, con uno svolgimento che, soprattutto nei caratteristici ritmi puntati, nei controtempi e nei frequentissimi cambi di armatura metrica, ancora ricordano l’autore del Sacre. Particolarmente avvincente è, d’altra parte, l’accelerazione agogica impressa alla conclusione.Anche l’inizio del secondo tempo ha un suo marchio distintivo, ed è quel reiterato accordo “pentatonico” Lab-Mib-Fa, che risuona a lungo come una rassicurante “ancora di salvezza” (la salvezza che certamente per uno come Bartok era rappresentata dall’anima pura del suo popolo). Subito però quella nota Mi, salendo all’acuto, diventa naturale e inizia a risuonare come una campana a distesa; da qui in avanti la trama del pezzo si complica in tutti i sensi (anche contrappuntisticamente) e le dinamiche e le figurazioni si susseguono sempre più variegate. Subentra un senso di progressiva irrequietezza, sottolineata da grappoli violenti di accordi, per giunta fortemente cesurati. L’Allegro molto finale è, paradossalmente, il tempo più virtuosistico e quello di più facile ascolto; “facile” sempre per modo di dire, beninteso: è patente qui una forte ricerca sulla metrica e sul ritmo (spiccano, ad esempio quei tempi improvvisi in 6/8, probabilmente memori dell’Ars nova medievale, o della musica folklorica), e sull’invenzione stessa di figurazioni pianistiche e diteggiature affatto nuove e inusuali.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

 

 

 

Concerto 18 gennaio

TRIO JEAN PAUL

Ulf Schneider, violino

Martin Löhr, violoncello

Eckart Heiligers, pianoforte


Integrale Trii di Brahms, Mendelssohn e Schumann (II concerto)

Johannes Brahms – Trio in si maggiore op. 8 (originale versione 1854)

Robert Schumann – Trio in re minore op. 63

 

Note di sala 

di *Pier Paolo De Martino

Johannes Brahms – Trio in Si maggiore op. 8 (versione del 1854)

Estate 1853. Johannes Brahms, vent’anni appena compiuti, durante il viaggio “di formazione” che da Amburgo lo sta portando in giro per la Germania, conosce ad Hannover Joseph Joachim con cui stringe subito amicizia: gli viene così l’idea di scrivere un Trio per pianoforte, violino e violoncello. Ha con sé il manoscritto, ancora allo stato di abbozzo, quando, arrivato Düsseldorf a fine settembre avviene l’incontro che sarà decisivo per la sua vita, quello con Clara e Robert Schumann. Accolto nella loro casa come un «genio eletto», Brahms viene lanciato nel mondo musicale tedesco da Robert con l’articolo Nuove vie, uscito sulla «Neue Zeitschrift fur Musik», e con una lettera di segnalazione agli editori Breitkopf e Senff.  Rimessosi in viaggio cinque mesi dopo, Brahms torna a Düsseldorf col suo Trio terminato (e firmato con lo pseudonimo schumanniano «Johannes Kreisler junior»), lo fa ascoltare a un gruppo di amici riuniti attorno a Clara, il 26 marzo 1854, nel pieno dello scompiglio provocato nemmeno un mese prima dal tentato suicidio di Schumann e dal conseguente suo internamento in una clinica di Bonn. Malgrado le grandi perplessità da lei espresse sul primo movimento, proprio Clara si offrirà di eseguire il Trio per la prima volta in pubblico insieme a Joachim l’8 dicembre a Breslavia; nel frattempo Brahms ha inviato l’opera a Breitkopf, che lo pubblica quello stesso anno come op.8, corrispondendo all’autore un cospicuo compenso. Da questa succinta narrazione si può comprendere come nel Bildungsroman giovanile di Brahms il Trio op.8 rappresenti un passaggio cruciale, tanto per il suo ruolo di prima composizione cameristica pubblicata, passo iniziale sulla strada rivelatasi centrale nella sua attività creativa, quanto per il legame con eventi biografici fondamentali. E ciò aiuta a capire anche perché – secondo una prassi per lui del tutto eccezionale – Brahms sia tornato su quest’opera oltre trent’anni dopo, nel 1889, spinto dall’amico Eduard Hanslick, ma pure ricordando le critiche di Clara e l’ansia del vantaggio economico immediato che tanti anni prima lo aveva indotto a una pubblicazione forse frettolosa. Nel febbraio del 1891 sarebbe apparsa per i tipi di Simrock la nuova edizione del Trio, con modifiche tanto radicali da indurre Brahms ad affermare in una lettera a Clara: «Ho riscritto il mio Trio in si maggiore, per cui posso chiamarlo op. 108 invece che op.8». Divisiva nei primi riscontri, con molti degli amici favorevoli alla riscrittura e altri invece schierati in difesa della prima versione, in breve tempo la neue Ausgabe avrebbe soppiantato quella giovanile nei gusti degli esecutori, in virtù della minore difficoltà tecnica e, soprattutto, delle più ragionevoli dimensioni ottenute col taglio drastico di circa cinquecento battute. Ancor oggi la versione del 1854 si ascolta molto di rado: il Trio op.8 è per la stragrande maggioranza del pubblico quello del 1889. Nel ripensamento dell’età matura l’esuberanza giovanile viene in parte temperata; scompaiono le verbosità, le affascinanti digressioni, così come le citazioni allusive alla maniera di Schumann; la costruzione del discorso musicale viene quasi del tutto rimodellata, sostituendo le modalità prevalentemente rapsodiche con una più stringente logica connettiva.  Nell’Allegro con moto iniziale, l’avvolgente melodia di apertura è alla base dell’intero movimento; ma se nella prima versione essa dà l’avvio a una rigogliosa narrazione, con textures foniche mutevoli, nella seconda la trama è resa più compatta ricorrendo a una dialettica tematica maggiormente coerente. Quasi immutato rimarrà invece lo Scherzo, con la sua impronta fantastica e leggera, molto vicina a Mendelssohn e ben distante dal tipo di “Allegretto-Intermezzo” adottato da Brahms nella maturità. L’Adagio, unanimemente considerato un primo vertice della produzione cameristica brahmsiana, nella sua originaria formulazione fa seguire alla iniziale, meravigliosa sequenza responsoriale divisa fra il pianoforte e gli archi, due episodi tematici (il primo dei quali cita il Lied Am de Meer di Schubert), in seguito cancellati per far posto a una languida melodia del violoncello che riconduce la struttura a una più lineare forma ABA. Anche il Finale nella seconda edizione si troverà accorciato e trasformato, conservando però due tratti caratterizzanti: lo slancio inquieto del tema dell’incipit e la tonalità di si minore mantenuta fino alla fine, eludendo il ritorno al si maggiore iniziale. Tratti che possono leggersi in riferimento agli avvenimenti accaduti fra le pareti di casa Schumann fra il 1853 e il 1854, rispetto ai quali il coinvolgimento emotivo che si coglie nella prima versione si tramuta nella seconda in ricordo, seppur indelebile e struggente. Non sembra casuale a questo riguardo che nel rifacimento Brahms abbia eliminato l’iniziale secondo tema affidato al violoncello: una chiarissima citazione del ciclo beethoveniano An die ferne Geliebte (All’amata lontana) già usata da Schumann nella Fantasia op.17, alludendo al proprio amore per Clara.

 

Robert Schumann  – Trio in re minore op.63

Estate 1847.  A Dresda, dove risiede da tre anni, Robert Schumann decide di cimentarsi nuovamente con la musica da camera, a cui si era dedicato per la prima volta nel 1842, scrivendo in pochissimo tempo i tre Quartetti per archi, il Quintetto e il Quartetto con pianoforte. Nascono allora, a breve distanza tra loro, due Trii, uno in re minore e l’altro in fa maggiore; il primo sarà pubblicato come op.63 nel 1848, il secondo come op. 80 nel 1849. L’attenzione di Schumann verso il genere del Trio con pianoforte viene stimolata dalla moglie Clara che l’anno prima ha dato alla luce il Trio in sol minore, uno dei suoi capolavori. Sia per Robert che per Clara il Meisterwerk di riferimento è costituito dal Trio in re minore op. 49 di Mendelssohn; quest’ammirazione si riflette in Schumann in alcuni dettagli superficiali e nell’adozione della stessa tonalità d’impianto. Tuttavia anche a un ascolto distratto il Trio op. 63 appare molto diverso da quello di Mendelssohn e da quello di Clara.  In primis per la densità polifonica di cui dà prova la sua scrittura, diretta conseguenza di uno studio attento delle opere di Bach da cui le forme consuete – quattro movimenti, il primo in Forma-sonata, quindi Scherzo con Trio, Adagio in forma ABA e Rondò-Sonata finale – vengono come rigenerate. L’intreccio contrappuntistico si avverte fin dalle prime battute e agisce sulla stessa configurazione tematica che viene a dipanarsi attorno a cellule molto piccole: Schumann in pratica si pone già in direzione di quella che Schoenberg avrebbe definito la tecnica della “variazione in sviluppo”, strada poi intrapresa con decisione da Brahms soprattutto nelle sue opere cameristiche. Questa concezione si lega in modo particolare al carattere di fondo del Trio, nato – stando alle parole dello stesso Schumann – in un tempo di «stati d’animo tetri»:  impossibile non considerare fattori biografici come la morte del figlio Emil, il 22 giugno del ’47, ad appena 16 mesi; o le difficoltà incontrate a Dresda, città che non sembrava aprire prospettive di lavoro all’altezza delle sue ambizioni; per non parlare degli stati di angoscia, di allucinazioni uditive e attacchi di vertigine, alternati a momenti di serenità e grande vitalità, all’ordine del giorno nell’anno che aveva preceduto il concepimento del Trio.  Le fibre di quest’opera sono in effetti pervase di una profonda inquietudine, che in certi momenti appare tanto più sconvolgente in quanto si rivela in imprevedibili diversioni: su tutte ladiafana apparizione nello sviluppo del primo movimento di un nuovo tema in “pianissimo” enunciato dal violino e dal violoncello, entrambi sul ponticello, accompagnati da accordi nel registro acuto del pianoforte.  Più in generale l’irrequietezza è il portato di impulsi ritmici e melodici che nascono dall’energia dinamica dei temi e dell’armonia. Come ha notato Arnfried Edler, tra i maggiori studiosi di Schumann, essi «sono così forti che non ubbidiscono ad altra legge di movimento se non alla propria». Perciò le cesure, le interruzioni, le entrate e le conclusioni sembrano metricamente casuali, tendono al “ritmo libero” o persino alla “prosa musicale”; traguardo verso il quale Schumann si muoveva sin dai suoi esordi, ma che solo ora, in questo capolavoro del suo tardo stile, trova un equivalente nella struttura complessiva della composizione.

 

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti 

CONCERTO DI NATALE 2023

Il 23 dicembre chiudiamo l’ anno con il Concerto di Natale del soprano Maria Grazia Schiavo con la Scarlatti Baroque Sinfonietta.

Il programma musicale, è un omaggio al grande repertorio della musica barocca con il “Concerto IX in la minore per flauto dolce, violini e basso continuo” di Alessandro Scarlatti, il “Concerto Brandeburghese” e la “Cantata Ich habe genug” di Johann Sebastian Bach e tre celebri arie di tre opere di Georg Friedrich Händel: Lascia ch’io pianga da Rinaldo, Rejoice dal Messiahe Il volo così fido da Riccardo I. Un ricco ed appassionato programma!

 

Il Concerto è gratuito con obbligo di prenotazione alla mail
prenotazioniscarlatti@gmail.com

I Natali della Musica

“I Natali della Musica” è una rassegna di tre concerti che si propone di declinare nello spazio e nel tempo il tema del Natale e delle culture musicali di chi è nato “altrove”, rendendo possibile un confronto fra la tradizione italiana e le tradizioni di altri paesi europei (dall’Inghilterra alla Germania, dall’Ucraina alla Russia) e di paesi extraeuropei (Stati Uniti, Perù). Non mancano però i riferimenti alla tradizione musicale napoletana, punto di riferimento costante per percorsi che ora le si ispirano, ora se ne allontanano. In ogni concerto, attraverso l’incontro/confronto di musiche antiche e contemporanee, emerge il rapporto fra tradizione e innovazione nell’ambito della musica sacra in generale e in particolare, della musica sacra composta per il Natale nelle le sue diverse articolazioni. 

Il primo appuntamento vedrà protagonista  l’Ensemble Vocale di Napoli, diretto da Antonio Spagnolo. Dalle antiche sonorità andine, alle solenni rappresentazioni della liturgia ortodossa, si snoda un percorso di polifonia antica e moderna che cattura l’ascoltatore e lo coinvolge nella “visione” di Natali “altri”, un viaggio musicale di spiritualità lontana dalle tradizioni mediterranee, un incontro con culture religiose e nobili tradizioni. 

Il secondo concerto, ad opera dell’organista Guido Morini, è un dialogo tra repertorio scritto e improvvisazione, in cui agli storici capolavori di tre grandi scuole compositive europee (inglese, italiana e tedesca) si sovrappongono le improvvisazioni dello stesso Morini su temi natalizi. Un concerto in cui rivive modernamente l’antica arte dell’improvvisazione all’organo. 

Il terzo appuntamento vede infine protagonista il Coro Mysterium Vocis, diretto da Rosario Totaro. Il titolo del concerto, Nitida stella – Polifonie per la Natività, prende spunto da un canto anonimo del ‘700 dedicato alla figura di Maria, motivo ispiratore di altri brani composti sempre in suo omaggio, sia di autori anonimi del XIV e XV secolo, che di autori contemporanei, come l’Ave Maria di Jiménez ed il Beata Viscera di Di Marino. 

 

Programma:

 

19 dicembre 2023 – Chiesa di San Ferdinando ore 20.00

Ensemble Vocale di Napoli

direttore Antonio Spagnolo 

Bogóroditse Djévo

Anonimo Quechua – Hanacpachap Cussicuinin (inno alla Vergine Maria)

Kievan Chant – O Theotokos Virgin; The Magnificat

Nikolaj Kedrov – Otche Nash

John H. Hopkins – We Three Kings

Thomas Jennefelt – Bön

John Tavener – Mother of God

Franz Biebl – Angelus Domini

Sergej Rachmaninov – Bogóroditse Djévo

Mykola Leontovyč – Carol of the bells

Tradizionale – Coventry Carol (arr. Warland)

Bohuslav Matȇj Černohorský –Laudetur Jesus Christus

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20 dicembre 2023 – Chiesa Anglicana ore 20.00

Guido Morini, organo

In Nativitate

John Bull – In Nomine

William Byrd – Pavana et Galliarda

Girolamo Frescobaldi – Toccata VI sopra i pedali 

 Johann Sebastian Bach – Nun komm der Heiden Heiland BWV 659; Wachet auf, ruft uns die Stimme BWV 645; Passacaglia BWV 582

Improvvisazione a tema natalizio

***

21 dicembre 2023 – Chiesa di San Ferdinando ore 20.00 

Coro Mysterium Vocis,

direttore Rosario Totaro

Nitida stella Polifonie per la Natività

Anonimo – Personent hodie

Giovan Francesco Anerio – Onde là verso l’umile Betlemme; Gloria cantaron gli angeli del cielo

Anonimo – L’unico figlio dell’eterno padre

Anonimo – Gaudete Gaudete Christus est natus

Hans Leo Hassler – Laetentur coeli

Pomponio Nenna – In Nativitate Domini

Anonimo – Nitida stella

Giacomo Meyerbeer – Pater noster

Giovanni Longobardi – Ave Maria

Roberto Di Marino – Beata viscera

Gaetano Panariello – Hodie Christus natus est; O Magnum Mysterium

Irving Berlin – White Christmas

Mykola Leontovych  – Carol of the Bells

Edwin Hawkins – Oh Happy Day 

Marco Palumbo – Pastorale – Amen 

 

Biglietto unico 5€ acquistabile sul luogo del concerto da 1 ora prima; presso la sede di Piazza De Martiri n°58. 

ACQUISTA ONLINE:

19 dicembre

20 dicembre

21 dicembre

 

 

 

 

 

 



 

 



Concerto 14 dicembre

JAVIER COMESAÑA, violino

MATTEO GIULIANI DIEZ, pianoforte 

Enrique Granados ‒ Sonata per violino e pianoforte

Claude Debussy – Sonata in sol minore per violino e pianoforte

Igor Stravinskij – Divertimento per violino e pianoforte

Olivier Messiaen – Tema e Variazioni

Ottorino Respighi – Sonata in si minore P 110

 

Note di sala

di *Gianluca D’ Agostino

 

Enrique Granados, Sonata per violino e pianoforte

Pantaléon Enrique (o Enric) Granados (Lleida 1867 – La Manica 1916) fu un esponente di spicco del nazionalismo musicale spagnolo (lui però era catalano ed anche moderatamente indipendentista), ma venne anche condizionato dall’impressionismo francese, i cui principali esponenti conobbe durante un viaggio formativo compiuto a Parigi quand’era intorno ai vent’anni. Ottimo pianista e compositore versatile, essenzialmente autodidatta, Granados vanta un catalogo variegato ancorché non imponente, essenzialmente pianistico e tuttavia comprendente anche musica da camera, canzoni, zarzuelas, poemi musicali ed opere per il teatro. L’apice della carriera lo raggiunse a cavallo della prima decade del secolo, quando, anche grazie all’amicizia con il giovane ma già affermato violoncellista Pablo (o meglio Pau, in catalano) Casals, fondò e diresse una rinomata accademia pianistica. E di certo la sua Musa artistica avrebbe maggiormente cantato, se il compositore non fosse morto, prematuramente, nel naufragio del vapore Sussex su cui viaggiava con la moglie, a causa di un sottomarino tedesco che lo silurò nel canale della Manica, nel marzo 1916. La Sonata per violino e pianoforte (ca. 1910) fu dedicata al grande violinista Jacques Thibaud (1880-1950), al tempo in cui quest’ultimo si accingeva a intraprendere quel felice sodalizio artistico con il predetto Casals e con il pianista Alfred Cortot, che li avrebbe destinati a formare un trio la cui fama, tra anni Venti e Trenta, fu enorme. Per buona parte del pezzo il violino si staglia sull’accompagnamento pianistico, la cui scrittura comunque non è mai banale, anzi spesso è brillante. Fin dall’inizio lo strumento ad arco spazia, in modo divangante e come rapsodico, per l’intera gamma, toccando spesso il registro sopracuto, mentre l’armonia indugia in modo piacevolmente ambivalente, e il pianoforte giustappone e lascia risuonare due accordi contrapposti, quello di la maggiore e quello di si minore, che formano come un insistito pedale. Il tema principale, alquanto decorativo, viene poi trasferito al pianoforte, poi ancora ripreso dal violino che lo reitera infinite volte in varie tonalità, su brillanti arpeggi pianistici. Nell’incedere del brano l’elaborazione tematica non muta granché l’atmosfera dell’inizio, ma si avverte sul finale una condotta molto più concertante e paritetica tra i due strumenti.

 

Claude Debussy, Sonata in sol minore per violino e pianoforte

Come la morte di Granados si lega alle nefaste conseguenze della prima guerra mondiale, così pure l’ultima fase creativa di Claude Debussy (1862-1918), comprendente questa sua Sonata per violino e pianoforte, risente di quel medesimo evento, catastrofico per l’Europa e vero spartiacque nella storia contemporanea. «In quali mani cadrà il futuro della musica francese?» si domandava il maestro tra 1916 e 1917, mentre i tedeschi cannoneggiavano Parigi e lui, per giunta, era afflitto dai sintomi del male che ormai ne minava l’esistenza. Di qui la decisione di fare comunque la propria parte, e con i soli mezzi a sua disposizione, ossia con la musica, ma una musica da ricondurre “secondo la nostra antica forma”, e cioè dove tralucesse il modello del barocco francese, Rameau e Couperin. 

Nacque così l’idea di comporre le “Six Sonates pour divers instruments”, di cui però Debussy riuscì a portare a termine solo tre: una per violoncello e pianoforte, la seconda per flauto, viola e arpa, infine questa che si esegue stasera, per violino e pianoforte, che egli firmò “Claude Debussy, musicien francais”, appunto per rimarcare il patriottismo, oltre all’implicito distanziamento dalla tradizione tedesca e dal wagnerismo. L’opera sarebbe stata anche la sua ultima, e certamente fu un lavoro che gli costò gran fatica (con continui rimaneggiamenti soprattutto del Finale), senza forse nemmeno soddisfarlo del tutto, secondo quanto si ricava da commenti come il seguente: «Questa Sonata sarà interessante da un solo punto di vista, puramente documentario, e come esempio di ciò che un uomo malato ha saputo scrivere durante la guerra». 

Divisa canonicamente in tre movimenti, per il resto la Sonata non segue alcuno schema classico, né sembra essere permeata da un autentico spirito neo-classicista, o risentire più di tanto della poetica impressionista. In effetti, è un pezzo bellissimo ma piuttosto indecifrabile, pieno di cesure meditabonde alternate ad improvvise accensioni dinamiche, e sicuramente molto tecnico nella parte assegnata al violino. Fa utilizzo di cellule tematiche essenziali continuamente riproposte e variate, come si rileva fin dal primo movimento (Allegro vivo), dove non compare mai un tema vero e proprio, quanto piuttosto una linea melodico-armonica iterata, spesso giocata su sequenze intervallari percepibili come “esotiche” (es., l’intervallo discendente di terza maggiore e di terza minore, o la scala con la terza minore e la quinta diminuita). Il secondo movimento (Intermède. Fantasque et léger) ha un incipit che parrebbe umoristico, ma che subito cede alla serietà e soprattutto al carattere fantasioso tipico dell’improvvisazione, che d’altronde era contenuto programmaticamente nella didascalia. Un ritmo martellante ma leggero di note ribattute passa continuamente da uno strumento all’altro, per poi sfumare in piano. Il terzo tempo (Très animé) si svolge invece in modo convenzionalmente più brillante: è avviato da un richiamo tematico al primo tempo, ma il tono qui è più vivace e l’andamento acquista sempre maggiore brio, grazie alle note velocissime del violino; il quale tuttavia a un certo punto frena, con un imprevisto rallentamento che ha quasi il sapore di una girata di tango, ma che appunto dura un attimo, per poi tornare al ritmo frenetico dell’inizio.  

 

Igor Stravinskij, Divertimento per violino e pianoforte

Il Divertimento per violino e pianoforte (1934) non è altro che la trascrizione per siffatto organico della Suite sinfonica dal balletto La Baisier de la Fée (‘Il bacio della fata’), che Stravinskij aveva composto sei anni prima basandosi sulle musiche di Cajkovskij, e che comprende quattro parti corrispondenti alle altrettante sezioni in cui si articolava il balletto: “Sinfonia”, “Danses suisses”, “Scherzo”, “Pas de deux” (quest’ultima a sua volta tripartita: Adagio-Variazione-Coda). Siamo nel pieno di quella che Roman Vlad definisce “moderna Arcadia neoclassica”. Con il termine “Divertimento” si sottintende l’astrattezza del puro gioco musicale, ma qui c’è l’esplicita intenzione di fare “musica al quadrato”, trasformando le figure sonore derivate da opere altrui: in pratica, quello che Stravinskij aveva già fatto con il Pulcinella basato su Pergolesi (e dal quale parimenti era scaturita una celebre Suite), ora toccava fare all’adorato connazionale Cajkovskij, del quale tra l’altro ricorreva il trentacinquesimo anniversario della morte. Al sommo autore della Patetica, e in particolare a vari suoi brani pianistici e vocali, risale praticamente tutto il materiale melodico tonale udibile nel Divertimento; mentre le parti poliritmiche e atonali, così come gli inconfondibili ritmi di danza, d’altronde nettamente contrastanti con il resto, sono opera del solo Stravinskij. In questa sede rileverebbe parlare solo dell’aggiunta della parte violinistica, che fu opera del violinista Samuel Dushkin, con il quale il compositore aveva iniziato una fruttuosa collaborazione sin dai primissimi anni Trenta, a partire dal Concerto per violino e orchestra; proprio il suo felice esito indusse il compositore a realizzare altre partiture per violino “concertante”, sempre in collaborazione con Dushkin, vincendo così la propria iniziale avversione nei confronti della combinazione sonora nascente dalle corde percosse del pianoforte e da quelle fatte vibrare dall’arco. Subito però ci si avvede che, in questo come negli altri brani congeneri, è impossibile considerare la parte del violino come separata dal resto (e nella fattispecie dal pianoforte); dunque non resta che tornare a una rapida visione d’assieme. A fronte della prima sezione forse troppo contrastante e “pasticciata” (beninteso nel più nobile senso stravinskjiano), nel brano successivo, le “Danses  suisses”, si ritrova con piacere l’inventiva ritmica dell’autore dell’Histoire du Soldat, con quegli scatti tipici e i guizzi melodici che solo al violino si possono ricreare. Poi della terza sezione si ammira soprattutto lo splendido momento pastorale (“Doppio movimento”) incastonato al suo centro. D’altronde sono tanti, quanto improvvisi, gli squarci lirici presenti in questo Divertimento, all’ascolto dei quali si prova una curiosa sensazione come di tornare indietro nel tempo. L’ultima sezione forse pecca un pochino di sincerità, nel senso che vi traspare l’intento di far sfoggio della parte virtuosistica del violino e, al contempo, di “spettacolarizzare” un po’ troppo la musica. 

 

Olivier Messiaen, Tema e Variazioni, per violino e pianoforte

Restiamo sempre in ambito francese e ancora nel cruciale periodo tra le due guerre. Thème et variations di Olivier Messiaen (1908-1992) risale infatti al 1932, all’epoca del suo matrimonio con la violinista Claire Delbos. Sarebbe pertanto lecito aspettarsi da esso i tratti di un giovanile, e magari galante, cadeau nuziale; e invece l’opera travalica decisamente questa dimensione, assumendo un respiro progressivamente drammatico ed anzi evidenziando, fin da subito, molte delle caratteristiche ‘mature’ del linguaggio musicale del francese: la configurazione degli accordi più tipici, il modalismo melodico, l’articolazione in periodi di sette anziché otto battute, l’assenza di sviluppo. Ultimo ma non da ultimo, l’aspetto della concertazione, sempre molto prominente. 

Le cinque variazioni si definiscono forse meglio “e contrario”, piuttosto che con aggettivi: di certo non appaiono come trasformazioni, ma piuttosto come decorazioni del tema principale, un tema che da parte sua ha un notevole lirismo, ma che è sfuggente nella fisionomia e parimenti resistente  a qualsiasi aggettivazione. Grandiosa l’enfasi ottenuta nell’ultima Variazione.

 

Ottorino Respighi, Sonata in si minore per violino e pianoforte P 110

Con la la Sonata in si minore per violino e pianoforte di  Ottorino Respighi (1879-1936) torniamo agli anni del primo conflitto mondiale, ma rientriamo finalmente anche nei nostri confini nazionali. Fu composta tra 1916 e 1917, cioè nello stesso periodo del poema sinfonico Le fontane di Roma, il primo della celebre Trilogia romana. Anche la prima suite delle Antiche arie e danze per liuto è di quegli anni, ma in fondo, oltre alla cronologia, queste tre opere non condividono altro, e ciò dice molto sull’ampiezza del ventaglio stilistico di Respighi e sulla varietà della sua ispirazione, che qui attinge parimenti al tardo Romanticismo europeo (pare sovente di sentire, nel primo movimento, il Liszt della Sonata omonima per pianoforte, ma anche Rachmaninov) e al barocco nazionale, della cui tradizione Respighi fu il più influente cultore. Nel Moderato iniziale, il nucleo musicale è una cellula che prende forma dalla nebbia di terzine del pianoforte e che sostanzialmente s’impernia nel brusco e perfino aspro salto d’intervallo tra i tre suoni tonica-settima-sesta. Dopo una lunga peregrinazione la conclusione è, però, in un rassicurante si maggiore. L’Andante espressivo è in forma ABA, di cui quella centrale, più agitata e addirittura veemente, è in un netto contrasto con le due estreme, che sono più liriche e cantabili, e decisamente romantiche. Veramente, però, il canto con cui il movimento ha proprio inizio possiede un’ineffabile nota di antico, anzi di arcaico, che evidentemente Respighi, col suo proverbiale sesto senso per la filologia, ben conosceva: ciò meriterebbe un supplemento d’indagine. Nell’Allegro finale, ben venti variazioni accompagnano il tema di passacaglia, tema robusto ed esposto con grande solennità: qui alla parte pianistica è richiesto un virtuosismo notevole, mentre la condotta molto energica del violino rispecchia la conoscenza personale dello strumento da parte del compositore, e l’alta perizia tecnica. Più importante ancora è la strategia compositiva, che vede, prima del travolgente finale, un fugace ritorno del tema del Moderato iniziale.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti 

 

Concerto 6 dicembre

NICOLA PIOVANI – NOTE A MARGINE

Marina Cesari, sax

Marco Loddo, contrabbasso

Vittorino Naso, percussioni

Nicola Piovani, pianoforte

 

Note di sala

di *Stefano Valanzuolo

Il titolo del progetto rimanda all’abitudine, che molti hanno (e Nicola Piovani, certamente, tra questi) di annotare magari a matita, sul bordo di un libro o – se si è musicisti – di una partitura, certe considerazioni estemporanee e non per forza fondamentali, come a voler lasciare traccia di una fugace riflessione a beneficio di sé stesso più che degli altri. In “Note a margine” sono le parole a occupare una posizione subordinata (dunque, marginale), ché la musica – quella di Piovani, nella circostanza – si prende la scena e conduce il gioco, fino a sfiorare suggestioni di tipo teatrale. Se è vero, infatti, che il cinema resta il grande e dichiarato amore di questo compositore gentile e fantasioso, premiato con l’Oscar nel 1999, altrettanto indiscutibile è il fascino che su di lui esercita il mondo del teatro, inteso come ambito espressivo innervato dalla presenza fisica dei protagonisti e, in quanto tale, non surrogabile da altro mezzo (ogni riferimento alla televisione è puramente intenzionale). Ciò spiega come mai, da molti anni, Piovani abbia scelto di non consegnare solo allo schermo la propria musica ma di svelarla anche dal vivo con progetti diversi che lo vedono in scena nella veste di autore, esecutore, conversatore privilegiato. Oltre i margini assodati del concerto propriamente detto, cioè, e con la voglia di coinvolgere il pubblico in un’interlocuzione altra e vivace. Lo spettacolo “Note a margine” nasce nel 2003, su commissione del Festival di Cannes e con un altro titolo, “Leçon concert”. Della “lezione”, in senso didattico e pure didascalico, questa proposta però non ha nulla. È, infatti, un racconto autobiografico ai limiti dell’informale (nel senso accattivante del termine) che attraversa mezzo secolo di carriera vissuta ad alta quota e scandita da incontri determinanti, cioè assai proficui, con partner illustri; registi e non soltanto. Originariamente concepito per pianoforte solo, l’excursus di Piovani avrebbe poi assunto fattezze diverse, portando in pedana un duo, quindi un trio, infine il quartetto. Per il futuro, non sono da escludere variazioni di organico.  «Un progetto come questo – spiega Piovani – si modella intorno a un format base che, tuttavia, nel corso degli anni può finire col perdere qualche pezzo e acquisirne magari altri, in modo naturale e senza smarrire la propria identità. Rientra nella logica di crescita di qualsiasi produzione. Mi viene in mente, a tale proposito, un altro spettacolo, “La musica è pericolosa (presentato a Napoli dall’Associazione Scarlatti nel 2019; ndr), al quale sono molto legato: della scaletta che preparai per il debutto al Ravenna Festival, anno 2015, oggi resistono non più di tre o quattro pezzi. Il resto è cambiato, ma il senso del messaggio no». Proprio quest’ultima considerazione aiuta a capire come, anche nel caso di “Note a margine”, lo spettatore si ritrovi di fronte ad una sorta di work in progress dai connotati sfuggenti per scelta, perché sulla confezione finale del prodotto incide, evidentemente, l’atmosfera del momento, la complicità con la platea, la forza degli aneddoti raccontati. Quelli che riguardano Federico Fellini (con il quale Piovani lavorò in occasione di “Ginger e Fred”, “Intervista” e infine “La voce della luna”), per esempio, cambiano ogni volta, perché il compositore ne ha tanti – beato lui – che custodisce gelosamente nella memoria; e sa centellinarli, con garbo affettuoso. “Note a margine”, nella definizione sintetica dell’autore, alterna «brani musicali e note parlate, e le seconde rimandano a momenti d’ascolto, certo, ma senza pretendere di spiegarli né di fornire giudizi esaustivi. L’obiettivo, semmai, è quello di aiutare il pubblico a entrare più facilmente all’interno della musica, a coglierne la valenza emotiva attraverso particolari piccoli, apparentemente insignificanti eppure in grado di far intendere il clima in cui quelle pagine siano nate e perché continuino a vivere». Sono “note”, nell’accezione di appunti, ma il compositore si ostina a chiamarle noterelle, per rimarcare il fatto che non vadano poi prese troppo (o sempre) sul serio. Consegnate allo spettatore in termini cordiali, le note a margine concorrono a delimitare uno stato d’animo e ad alludere a una sensazione, possibilmente condivisibile, suscitata da altre note, quelle scritte sul pentagramma. La cui energia – come amava dire Fellini – agisce a un livello così profondo e inconscio da risultare pericolosa. Felicemente pericolosa, però. Parlando di sé stesso, Piovani ha detto di non ricordare un giorno solo trascorso lontano dalla musica. Alla luce di una considerazione siffatta, “Note a margine” diventa soprattutto un atto d’amore nei confronti della propria professione, straordinaria e straordinariamente svolta. Il cinema è presente assiduamente nell’arco di tutto il racconto. La colonna sonora diventa, nelle mani di Piovani, lo strumento più adatto a declinare tanta passione verso la musica; lo schermo diventa ambito entro il quale emozionare il pubblico, un ambito prezioso eppure non esclusivo. Tant’è che nello spettacolo, assieme alle molte citazioni famose e famosissime legate ai film, compaiono altri ricercati omaggi musicali. Come quello a Fabrizio De Andrè, che volle Piovani accanto per la creazione di almeno due dischi (concept album, si chiamavano allora) assai importanti: “Storia di un impiegato” e “Non al denaro, non all’amore né al cielo”. Menzione assai opportuna, ché la canzone, anzi la forma-canzone come modello di stile, ricopre un ruolo centrale nell’esperienza di Piovani e nella sua fruttuosa collaborazione – ecco un altro esempio – con Roberto Benigni interprete (“Quanto ti amo”) e regista (“La vita è bella”, ça va sans dire). Nella scaletta di “Note a margine” ricorre pure una serie significativa di composizioni – come Canto senza parolePartenope e Il volo di Icaro – dedicate al rapporto misterioso tra musica e mito, caro al compositore. Sono pagine non legate al racconto cinematografico, eppure dotate di una carica immaginifica che rappresenta, di fatto, il vero marchio di fabbrica di Piovani. Il resto, sulla scena e nell’economia dello spettacolo, lo fanno l’intesa tra i musicisti, la proiezione dei fotogrammi da film, i disegni di Milo Manara, le scelte di luce, il ritmo impresso al percorso. Così si entra, senza troppi sforzi, nella magia del teatro. L’elenco dei registi che Piovani ha affiancato a partire dal 1970 (anno in cui scrive le musiche per “La ragazza di latta”, il suo primo film) assomiglia, evidentemente, a un compendio di storia del cinema italiano. Ovvio l’imbarazzo della scelta per il compositore che aspiri a narrare di sé e della propria esperienza. Tuttavia alcuni nomi, in una serata che abbia sapore di racconto e omaggio, diventano ineludibili: Fellini e Benigni, appunto, e poi i fratelli Taviani e Nanni Moretti. Ci sono anche titoli e protagonisti un po’ meno popolari (pensiamo a Bigas Luna, regista di “Jamon, jamon” e “La teta y la luna”) ma la certezza è che, volendo, Piovani potrebbe attingere in ogni istante ancora ai film di Monicelli, Bellocchio, Tornatore, Amelio e compagnia bella (che stavolta non è un modo di dire). Le regole del mondo dello spettacolo, si sa, ammettono – e talvolta impongono – che un pizzico di mistero accresca l’attesa. Anche per questo, oltre che per l’abbondanza di spunti possibili, “Note a margine” non ha una trama fissa e predefinita. «Non è reticenza compiaciuta la mia», assicura Piovani. «Sono io il prima a sorprendermi, sera dopo sera, della forma fluida che assume lo spettacolo. A Napoli, per esempio, mi piacerebbe portare (e sarebbe la prima volta) le musiche scritte per un film di animazione francese dell’anno scorso, si chiama “Manodopera” e ha avuto grande successo. Spero di farcela a completarne l’orchestrazione. Il problema, semmai, è dover poi decidere cosa tagliare per fare spazio al pezzo nuovo. Una regola aurea non scritta vuole che le proporzioni dello spettacolo, prima di tutto, siano rispettate». “Note a margine” non ha una partitura – per citare Piovani – inchiodata. È un ricordo costruito per capitoli e tenuto insieme dal filo conduttore suadente prestato dal cinema, elemento di attrattiva irresistibile per il pubblico, ma anche per il compositore. Il quale, non a caso, rivendica spesso e orgogliosamente il proprio status di spettatore, sia pure privilegiato, all’interno del grande mondo della musica. «Faccio parte di quel gruppo ormai piccolo di persone che ancora vanno al cinema. E frequento assiduamente, da sempre, le sale da concerto. Quest’attitudine mi consente di pormi più facilmente nell’ottica del pubblico, magari di coglierne le aspirazioni e di venirgli incontro». È una platea, quella di oggi, portata più spesso a “riconoscere” piuttosto che a “conoscere”, a “riascoltare” piuttosto che ad “ascoltare”…  «Il problema – sottolinea Piovani – sta nel trovare un punto d’incontro tra l’esigenza di rassicurare il pubblico, attraverso il ricorso a riferimenti individuabili, e quella di osare». È in quella zona di compromesso, allora, che sembra muoversi disinvoltamente il progetto “Note a margine”, riproponendo melodie amatissime assieme a pagine meno assodate, sempre da un angolo visuale speciale, quello cioè di chi ne abbia conosciuto i presupposti anche drammaturgici. Senza intellettualismi né fronzoli. La dimensione dei brani, qui, è dichiaratamente cameristica, sebbene alcuni lavori siano nati per organici orchestrali più imponenti, salvo poi venire ridotti all’occorrenza, preservandone la linea narrativa e il senso, l’una e l’altro funzionali allo sviluppo della storia. Persino la colonna sonora de “La notte di San Lorenzo”, il cui turgore sinfonico sembrerebbe irrinunciabile, rivive in scala minima, sul pianoforte solo, illuminando il lato intimo e privato di un’epopea collettiva. Come in un romanzo di Fenoglio.  Il tono della conversazione, in “Note a margine”, è dato dall’approccio pacato e non per questo meno diretto di Piovani, protagonista indiscusso eppure discreto sulla scena. Il tono della rievocazione musicale trae ragione dal colore stesso degli strumenti, perché sono i colori – spiega l’autore – «…a cambiare faccia a una storia. Esistono strumenti capaci di entrare in punta di piedi in una trama – per esempio il violoncello, o il clarinetto – e poi eclissarsi con discrezione. Ce ne sono altri che sottendono un protagonismo meno gestibile». E in questa riflessione sul suono, sulle nuances che lo determinano e sul significato che ne deriva si ritrova tutta la delicata sapienza di Piovani. Il suo è uno spettacolo affettuoso, come affettuoso è il suo riguardo nei confronti di Napoli: «La considero la mia seconda città. E giuro che non dico la stessa cosa dovunque vada! A Napoli ho vissuto in anni di formazione, ho fatto teatro, ne ho studiato la lingua, ho avuto il privilegio di conoscere Eduardo e di lavorare a lungo e felicemente con suo figlio Luca. Insomma, il rapporto con questa città è troppo profondo perché possa spiegarlo a parole».

Meno male che c’è la musica, allora.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti 

 

 

 

Settimana di Musica d’ Insieme 2023

Il progetto della Settimana di Musica d’Insieme, curato dall’Associazione Alessandro Scarlatti in collaborazione con la Direzione Regionale Musei Campania e sostenuto e finanziato dal Comune di Napoli, nell’ambito del progetto “Napoli Città della Musica”, si inserisce nel solco della storica manifestazione ideata nel 1971 da Salvatore Accardo e Gianni Eminente, che trovò sin dai primissimi anni ospitalità nel magnifico scenario di Villa Pignatelli.
Una settimana densa di musica e di eventi, con una forte carica divulgativa e innovativa, che trova cornice ideale quest’anno nei bellissimi spazi di Villa Pignatelli e dell’Auditorium Porta del Parco di Bagnoli, con lo specifico intento di valorizzare il patrimonio artistico, monumentale della città, antico e moderno.

 

Programma


Domenica 26 novembre 2023 – Villa Pignatelli | Ore 11.00
Quartetto Goldberg
Musiche di Wolfgang Amadeus Mozart e Maurice Ravel

Martedì 28 novembre 2023 – Villa Pignatelli | ore 20.30
Gabriele Pieranunzi e Ivos Margoni, violini
Francesco Solombrino e Francesco Fiore, viole
Danilo Squitieri, violoncello
Ermanno Calzolari, contrabbasso
Antonello Cannavale, pianoforte
Musiche di Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Schubert

Sabato 2 dicembre 2023 – Auditorium Porta del Parco| ore 20.30
EVENTO SPECIALE
Giovanni Sollima, violoncello
Musiche della tradizione albanese e salentina, Giuseppe Clemente Dall’Abaco, Johann Sebastian Bach, Leonard Cohen, Nirvana, Giovanni Sollima.

Domenica 3 dicembre 2023 – Villa Pignatelli | ore 11.00
Giovanni Sollima, violoncello
Federico Guglielmo, violino
Scarlatti Baroque Sinfonietta
Tommaso Rossi, Alessandro De Carolis, flauti dolci
Paolo Perrone, Marco Piantoni, violini
Rosario Di Meglio, viola
Manuela Albano, violoncello
Giorgio Sanvito, contrabbasso
Patrizia Varone, clavicembalo

Musiche di Nicola Fiorenza, Leonardo Leo, Antonio Vivaldi, Johann Sebastian Bach

 

PROVE APERTE a Villa Pignatelli
Lunedì 27 novembre 2023
Ore 10-13 | 15-17
Martedì 28 novembre 2023
Ore 10-13
Venerdì 1 dicembre 2023
Ore 10-13 | 15-17
Sabato 2 dicembre 2023
Ore 10-13 | 15-17

I concerti sono gratuiti esclusivamente su prenotazione scrivendo a: prenotazioniscarlatti@gmail.com

Info Whatsapp 3426351571