Associazione Alessandro Scarlatti
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Concerto 16 febbraio


Giovedì 16 febbraio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
TRIO JEAN PAUL
Ulf Schneider, violino
Martin Löhr, violoncello
Eckart Heiligers, pianoforte

Integrale dei Trii di Robert Schumann, Felix Mendelssohn e Johannes Brahms (I concerto)

Robert Schumann (1810 – 1856)
Trio in fa maggiore op.80

Johannes Brahms (1833-1897)
Trio in do minore op. 101

Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809 – 1847)
Trio in do minore op. 66

Note di sala
di Simone Ciolfi*

Trii ed eroici furori
La cultura romantica si trovò a dovere bilanciare l’aspirazione a considerare la musica un linguaggio filosofico e cosmopolita, con la tendenza a riscoprire lo spirito dei singoli popoli, generalmente legata alle tradizioni nazionali. Negli ultimi anni della sua vita, Robert Schumann visse con sempre maggiore tensione l’aspirazione cosmopolita che si ricollegava al classicismo viennese con quella nazionalistica legata alla tradizione tedesca. Per cui, in opere come il Trio n. 2 op. 80 si respira la volontà di gestire il tessuto musicale con mezzi ormai identificati in toto con la cultura tedesca, come il contrappunto, tentando, però, di dare al tutto il tono dell’universalismo beethoveniano. Ne risultò la rinuncia a quell’estro giovanile che caratterizzava le opere degli anni Trenta dell’Ottocento. Questo non vuol certo significare che tali opere siano meno interessanti di quelle giovanili, ma che vi è diffusa la tendenza alla raffinatezza musicale più che il contrasto tra impulso e malinconia, tipico del giovane Schumann.
Con il Trio op. 80 siamo nel 1847 e la titolazione dei movimenti è (si noti) in tedesco, non in italiano. Dei quattro movimenti, il primo è giocato su un ritmo ternario che ha un tono popolare nell’andamento di danza ma non nella cantabilità. In essa, infatti, Schumann riversa la sua vena fantastica, per cui i suoi disegni melodici sono sempre sorprendenti. L’episodio contrappuntistico che si impone al centro del movimento rivela la profonda coerenza tematica e strutturale del brano e il suo legame con un ideale arte germanica che ha in Bach il suo testimone. Certi ritmi e certi tratti tematici ricordano, infatti, il celebre compositore, riletto, però, alla luce di un magico furore romantico che solo Schumann sa evocare con discordanti sfaccettature.
Il secondo movimento sembra fare il verso alla cantabilità operistica, ma l’intrecciarsi dei temi è in cerca di una stratificazione espressiva densa più che di toni teatrali. Anche lo scherzo in terza posizione, dal tempo insolitamente lento per il genere, ricerca la stratificazione contrappuntistica, quasi che la mira di Schumann in questa composizione fosse cercare un nuovo taglio espressivo per lo stile imitativo tramite la ricombinazione dei materiali creati dal suo genio tematico e ritmico. L’idea dello “scherzo” è più nelle combinazioni insolite di ritmo e melodia che non nel brillante andamento che caratterizza, di solito, il genere. L’ultimo movimento è giocoso e vivace, vi predomina il pianoforte e vi fa capolino lo Schumann giovanile con le sue creature tematiche dall’insolito serpeggiare. L’ascesa, la volontà di raggiungere alture emotive insolite, nonché lo sforzo per raggiungerle, spesso mimate dalla musica, sono tutte di Schumann, e qui appaiono in piena chiarezza, sebbene ve ne siano stati segni anche nei tre brani precedenti.
La tonalità tragica di do minore, tanto amata da Beethoven, torna con il Trio op. 101 di Brahms a incarnare i toni grandiosi e tragici del Romanticismo. Gesto potente e sontuose esitazioni aprono questa composizione realizzata nell’estate del 1886, la cui temperatura rovente appare subito nell’indugiare drammatico e sognante che si dipana dalla partitura. Nell’Allegro energico iniziale, un fare imperioso (derivato da Beethoven) si alterna a rari momenti cantabili, quasi questi fossero sezioni di riposo fra un atto costruttivo poderoso e l’altro. Nel Presto assai che segue, il senso del tragico è raggiunto con l’essenzialità dei mezzi in campo, quasi Brahms prendesse le mosse da un’esile danza barocca in punto di morte. Gli strumenti ad arco dialogano quasi a cercare una soluzione a qualcosa. Il pianoforte pare dissuaderli dal risolvere un ipotetico problema. L’organicità misteriosa di tale brano è tipica di Brahms. Anche questo movimento, che dovrebbe essere uno scherzo, è assai singolare per il suo tono e per il suo ritmo, perché invece di evocare dinamismo, materializza una strana leggerezza dal retrogusto di irresoluzione.
L’andamento salottiero dell’Andante grazioso ci comunica un senso di pace e di convivialità. Ha un tono vagamente settecentesco, viennese nel senso del classicismo di Haydn e Mozart, un gusto che diventerà di moda dopo la morte di Brahms, più o meno nel Primo Novecento (compare in tanti melodrammi di fine Ottocento e oltre). L’ultimo movimento, Allegro molto, è schumanniano per via delle insolite “storpiature” del tessuto sonoro che suonano come geniali storture, che escono fuori da una dimensione cantabile prevedibile e inventano percorsi sorprendenti per chi ascolta. A volte, l’andamento della musica sembra punteggiato da strani pertichini all’acuto. Il tutto risulta veramente innovativo per Brahms, colui che viene indicato come il continuatore della tradizione classica viennese, e in verità, è autore anche in linea con la modernità che si annunciava trasgressiva e dirompente. Il Trio piacque molto a Clara Schumann così come all’amico violinista Joseph Joachim proprio per le sue caratteristiche di potenza ed estrosità.
Spesso definito come il più classico tra i romantici, Felix Mendelssohn tradisce questa definizione proprio nei Trii, genere le cui origini sono legate all’intrattenimento salottiero e al quale l’autore, di contro, conferisce l’impeto del verbo romantico. Il Trio in do minore op. 66 è del 1845, due anni precedente il Trio di Schumann, e subisce influssi di scrittura dalla produzione cameristica di Franz Schubert, autore tenuto in grande stima da Mendelssohn e del quale promosse, da organizzatore, l’esecuzione della musica. Se schubertiana è in parte la scrittura pianistica, il tono impetuoso della composizione è beethoveniano e nervosamente motorio, aspetto tipico di Mendelssohn. Nell’Allegro energico e con fuoco iniziale, il pianoforte innesca un dinamismo inesausto sul quale si innestano le febbrili melodie degli archi. Tale alta temperatura è generata dalla divergenza tra parte pianistica, che furoreggia senza sosta con arpeggi e accordi, e archi, che tentano di sottrarre a un metaforico naufragio il materiale tematico. La tensione melodica da ciò provocata continua anche nell’apparente pace dell’Andante espressivo, nel quale però il pianoforte continua a essere il buco nero che sembra assorbire la luce della cantabilità del brano. Nel sagace Scherzo, questo si animato da un ritmo sostenuto e coinvolgente contrariamente ai due precedenti trii, qualcosa di volante e demoniaco si impossessa della musica. Il Finale, in forma di rondò, approda a toni sinfonici, densi e talvolta festosi, a testimoniare l’alto impegno messo dall’autore in questa partitura cameristica.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 9 febbraio

Giovedì 9 febbraio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
GRAZIA RAIMONDI, violino
LUIGI PIOVANO, violoncello 

Georg Philipp Telemann (1681 – 1767)
Fantasia n. 9 in si minore per violino solo

Alfred Schnittke (1934 – 1998)
Madrigal in memoriam Oleg Kagan per violino solo

Johann Sebastian Bach (1685 – 1750)
Suite per violoncello solo n. 1 in sol maggiore BWV 1007

Arcangelo Corelli  (1653 – 1713)
Sonata a violino e violone in re minore op. 5 n. 12 La Follia

Zoltán Kodály (1882 – 1967)
Duo per violino e violoncello op. 7

Note di sala 
di Salvatore Morra*
Il programma in duo di violino e violoncello è da suggestioni intime, da camera, con un confronto tra brani solistici, con accompagnamento strumentale, suite, fantasie e danze. Nel 1765, all’età di ottantaquattro anni, Georg Philipp Telemann (1861-1767), era semplicemente sopravvissuto alla sua epoca, uno dei più longevi. Pochi amici e colleghi musicali che lo conoscevano fin dall’inizio della sua carriera erano ancora vivi: Bach, Fasch, Handel, Hebenstreit, Keiser, Mattheson, Pisendel, Stölzel e Zelenka, la maggior parte dei quali nati dopo Telemann, erano già scomparsi. Altri contemporanei degni di nota come Albinoni, Geminiani, Rameau, Scarlatti e Vivaldi erano anche deceduti. Haydn aveva già trent’anni, C.P.E. Bach, Gluck e Jommelli sulla cinquantina e Hasse e Sammartini nella sessantina. Mozart, allora nove anni, era nel bel mezzo della sua grande tournée in tutta Europa. Di Telemann si lodava l’inventiva melodica, l’abilità contrappuntistica nei cori, ricchi accompagnamenti strumentali nelle opere vocali, ottima declamazione nei recitativi, nelle cantate sacre e negli oratori successivi al 1730. Caratteristiche anche evidenti nella Siciliana della Fantasia n. 9 in si minore per violino solo che apre il concerto: le terzine, l’accostamento delle frasi ricche di trilli, spesso con cambi di ottava, che generano effetti di domanda e risposta fra voci diverse, e la condotta di due linee melodiche simultanee che lasciano le note in battere per una voce e quelle in levare per un’altra, mostrano l’inesauribile riserva di idee, così come nel Vivace, e finale Allegro. 
L’accostamento del brano di Alfred Schnittke (1934-1998) – degno erede di Shostakovich per senso dell’ironia e dell’alienazione – Madrigal in memoriam Oleg Kagan per violino solo, fornisce un punto focale sul carattere evocativo del violino. Da un lato abbiamo il genere del madrigale, nel quale si è sempre annidato un particolare tipo di sogno musicale, nel senso di un desiderio irraggiungibile, registrando i più piccoli e massicci tremori di ogni parola e inflessione di significato; dall’altro ciò che Schnittke insegue disperatamente e vuole possedere, non più un testo, ma una vita perduta: quella dell’amico intimo, il violinista russo Oleg Kagan. La morte di Kagan nel 1990 colpì profondamente Schnittke, e il compositore scrisse immediatamente questo lavoro di quasi otto minuti in memoria. È prosaico, estremamente duttile, segue la traiettoria espressiva ovunque debba andare, dal recitativo grave più lugubre ai momenti di stridore quasi intollerabile, nei registri più acuti del violino; sembra svolgersi come l’esperienza del trauma stesso, in respiri profondi che iniziano con grandi, lunghi, tristi colpi, e precipitano rapidamente in un momento di dolore acuto e di angosciata rassegnazione. Il brano suggerisce come il sogno-madrigale segue così da vicino l’esperienza extramusicale tanto da sostituirla, rendendo il violino uno strumento indissolubilmente legato al memoriale. 
Cambio di scena e si passa ad uno strumento per il quale gli studiosi hanno da decenni iniziato non solo a rivalutare la nostra idea di ciò che il “violone” avrebbe potuto essere, ma anche a ridefinire le nostre nozioni circa il “violoncello” nei secoli XVII e XVIII, termine con il quale non si denotava in Europa esclusivamente il piccolo violino basso a quattro corde suonato in posizione “da gamba”, con presa dell’arco sopra la mano, come mostra Michel Corrette nel 1741. Le Suite di Johann Sebastian Bach (1685-1750) per violoncello non accompagnato presentano diversi momenti in cui aspetti del tessuto musicale, della struttura tonale, della struttura formale sono in stretta relazione con le tecniche esecutive ed il tipo di strumento utilizzato. In particolare, nella Suite per violoncello solo n. 1 in Sol maggiore, BWV 1007, la progressione armonica iniziale del Preludio su un punto di pedale di tonica, in tutta la sua semplicità, unifica le diverse forme danzanti dall’inizio alla fine. Quasi un approccio compositivo in stile sonata per le suite da ballo, che crea uno strato di complessità dall’Allemanda e Courante in poi. Ma Il cuore della Suite è la Sarabanda, con una scrittura quasi polifonica simile a quella per violino solo. Dopo i Minuetti, la Giga è il più enigmatico dei movimenti per il suo spostamento in sol minore.
Nella stessa cornice temporale e strumentale è la Sonata a violino e violone in re minore, op. 5 n. 12, “La Follia” di Arcangelo Corelli (1653-1713) composta tra il 1680 e 1690. Il corpus di sonate op. 5, dopo la loro pubblicazione, raggiunse lo status di “classici”, e nel 1800 era stato ripubblicato più di 50 volte, ad Amsterdam, Bologna, Firenze, Londra, Madrid, Milano, Napoli, Parigi, Roma, Rouen e Venezia. Questa frequente ripubblicazione e la sopravvivenza di centinaia di copie manoscritte e decine di arrangiamenti documentano il fatto che quest’opera continuò ad essere eseguita ed utilizzata con funzione didattica. Il suo valore pedagogico consisteva, presumibilmente, in due aspetti: quello di Studi contenenti musica finemente lavorata con molti movimenti alla portata anche di violinisti novizi; e quello di base per l’improvvisazione, perché la precisione di certi movimenti li rendeva veicoli ideali per esercitarsi nell’ornamentazione melodica, sia quella cosiddetta “necessaria”, sia quella più libera, ornamenti su larga scala o parafrasi musicali. 
Il programma si conclude con tendenze musicali neoclassiche, sicuramente antiromantiche con il Duo per violino e violoncello, op. 7 di Zoltán Kodály (1882-1967). Compositore, etnomusicologo e insegnante, Kodály ha contribuito a rinvigorire la cultura musicale della sua nazione e, in particolare, attraverso la promozione dei cori comunitari e la raccolta e sistematizzazione della musica popolare ungherese ha fornito un meccanismo di educazione. Il Duo per violino e violoncello del  1914 modella perfettamente l’influenza incrociata dei materiali popolari ungheresi e le strutture formali della musica d’arte. La sua melodia pentatonica di apertura cade nel modo dorico, mentre un tema contrastante alterna frasi melodiche e accompagnamento pizzicato. Un lirismo intensamente sentito, che a volte esplode in un profondo tormento, scorre attraverso l’Adagio. Il finale simula radicali cambi di tempo con la sua eccitante alternanza di sezioni lente e rapide.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

Concerto 26 gennaio

Giovedì 26 gennaio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
QUARTETTO EOS
DAVIDE ALOGNA, violino,
ENRICO PACE, pianoforte

Franz Joseph Haydn (1732 – 1809)
Quartetto per archi n. 32 in do maggiore, op. 20 n. 2, Hob: III:32 “Sonnenquartette”
Ernest Chausson (1855 – 1899)
Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op. 21

Biglietti

Note di sala
di Gianluca D’Agostino*

Nel 1761, poco meno che trentenne, Haydn fu assunto ufficialmente dai principi Esterházy, una delle più ricche famiglie di “nuovi nobili”, di origine ungherese, come vice maestro di cappella operante nelle loro lussuose dimore di Eisenstadt, di Vienna e di Pressburg, e poi nell’ancor più fiabesco castello di Esterháza. Tra le tante clausole presenti nell’interessantissimo documento costituente il contratto di assunzione si può leggere la seguente, che prevedeva che “il detto Vice-Kappellmeister avrà l’obbligo di comporre tutta la musica che a Sua Altezza Serenissima piacerà ordinargli e si guarderà bene dal passare queste composizioni a chicchessia o dal farla copiare, ma dovrà lasciarla a completa disposizione di Sua Altezza”. Un membro in particolare di questa dinastia, e cioè il conte Nicolaus, conosciuto anche con il soprannome “Il Magnifico”, diventerà il padrone di Haydn per ben trent’anni, e cioè dal 1762 al 1790, data di morte del nobiluomo, che tra l’altro era stato un grande appassionato di musica e un buon musicista dilettante lui stesso. Egli tenne sempre il suo fidato maestro in grande considerazione, che promosse a Kappellmeister già nel ’66, e sotto la sua protezione Haydn affinò l’arte dell’ottimo cortigiano, il che nella fattispecie significava fungere da cuscinetto tra i musicisti assoldati, tutti cantanti e strumentisti di prim’ordine, e l’amministrazione del principe. Inoltre il maestro doveva sovrintendere all’opera dei copisti e supervisionare tutti i conti relativi all’organizzazione musicale dei principi; ma soprattutto, com’è ovvio, egli doveva comporre, tanto e di frequente.
Quest’improvvisa svolta di tranquillità nella vita di Haydn incise profondamente sul repertorio musicale e sui generi da lui coltivati, che da tanti e vari che erano stati durante la fase precedente e giovanile, divennero progressivamente di meno e più concentrati: essenzialmente dominarono la sua fantasia creatrice la sinfonia e il quartetto d’archi, in parte anche la musica sacra e in misura minore le sonate per clavicembalo e la musica da camera per archi e cembalo.
Haydn, che nei concerti suonava abitualmente da violinista, compose in vita oltre ottanta quartetti e per questo egli è comunemente e a ragione ritenuto “il padre” del quartetto classico di forma moderna, nonché il modello imitato da molti altri autori coevi e successivi. Al genere, così come poi verrà concepito e sviluppato da Mozart e da Beethoven, il maestro austriaco arrivò comunque per gradi, dopo che ne aveva scritti, prima del 1771, ben trentadue di stampo barocco, sostanzialmente non diversi da quelle forme musicali che andavano sotto il nome di divertimenti, cassazioni e serenate. Nei quartetti strumentali egli apportò sostanziali novità, ad esempio la viola viene trasformata nel suo ruolo e trasferita dalla posizione di raddoppio a quella autonoma; molti motivi di accompagnamento salirono in grado, per così dire, venendo usati melodicamente. E ancora, rispetto alla musica barocca la scrittura quartettistica previde l’impiego di moltissime pause di varia durata atte sia ad amplificare l’effetto drammatico, come in Mozart, sia semplicemente a chiarire l’enunciato delle varie voci.
Questo è ben visibile nei quartetti dell’op. 20 del 1772 e in particolare nel numero 2, nella classicissima tonalità di do maggiore, quello eseguito stasera. L’Allegro iniziale principia con una frase gentile e affettuosa che si dipana lievemente tra i quattro strumenti, non senza qualche slancio del primo violino. L’esposizione procede tranquilla e si ripete una prima volta, mentre lo sviluppo successivo, anch’esso sottoposto a ripetizione, risulta essere più concitato, benché l’invenzione melodica rimanga sostanzialmente quella dell’inizio, con qualche accenno di fuga e canoni, mentre alcune pause e brevi modulazioni al minore imprimono una certa drammaticità.
L’Adagio ha un andamento pensoso: dopo i trilli iniziali la melodia è affidata al violoncello e poi ripresa collettivamente, poi di nuovo eseguita al violoncello. Segue un cantabile del primo violino che ha tutte le movenze di una romantica barcarola ma la cui ispirazione appare alquanto convenzionale. Assai scorrevole è il successivo Menuetto con Trio, invero anch’esso molto convenzionale, concepito come momento di riposo prima dell’Allegro finale che risulta in una Fuga a quattro soggetti, un autentico saggio accademico in cui Haydn mostra tutta la sua abilità di contrappuntista strumentale.

La vicenda umana di Chausson è indubbiamente contrassegnata dal suo ultimo e tragico fotogramma, quello, per intenderci, del fatale incidente in bicicletta in cui egli perse la vita dopo essersi fracassato contro un muro (lo strano è che non si ravvisarono segni di frenata). L’intera sua vita, tuttavia, si direbbe avvolta da un velo di mistero e quasi di sottile maledizione, scaturiti dal fatto che egli, pur essendo nato da famiglia facoltosa e colta e pur avendo contratto un ricco matrimonio che lo mise al riparo da preoccupazioni contingenti, e pur essendo precocemente sensibile e dotato per ogni forma d’arte (letteratura e pittura, oltre alla musica), nei confronti della complessa arte dei suoni nutrì sempre come un senso di inferiorità, dovuto probabilmente al fatto che approdò alla musica relativamente tardi, il che gli fece nutrire sempre profondi dubbi sulla propria statura professionale, e alla fine incise facendo sì che nel suo catalogo restassero solo poche decine di composizioni, peraltro frutto di gestazioni lunghe e travagliate.
La sua formazione comunque era stata completa e avvenne all’ombra di un “grande” della musica francese, ossia César Frank, che peraltro lo ebbe come uno degli allievi prediletti e che lo seguì passo dopo passo. Inoltre il fatto di essere stato nominato segretario della Société Nationale de Musique e di essere in frequente contatto con protagonisti del post-romanticismo francese del calibro di Massenet, Chabrier, Fauré, Debussy, Dukas, Albeniz, D’Indy, collocò Chausson al centro di molte fruttuose relazioni con i colleghi e lo mise in condizione di essere fortemente influenzato e continuamente arricchito da stimoli, consigli, incoraggiamenti.
Si dice comunemente che la musica di Chausson abbia il temperamento lirico e contemplativo appunto di un Franck, e che anticipi soluzioni armoniche e timbriche di Debussy; ma il Concerto in re maggiore per pianoforte, violino e quartetto d’archi op. 21, composto tra il 1889 e il 1891, deve comunque molto alla tradizione tedesca, e direi principalmente a Brahms, benché anche l’influenza del cromatismo lisztiano sia evidentissima. Anche la gestazione di questa bellissima opera, autentico capolavoro del repertorio cameristico, ma che come forma è un po’ un ibrido nel senso che non è da considerarsi un sestetto ma nemmeno un pezzo strettamente solistico, fu alquanto tormentata e impegnò il compositore per quasi tre anni. I primi abbozzi furono presentati da Chausson al proprio maestro Franck nel 1889 (il grande compositore scomparirà nel 1890), e la corrispondenza con vari artisti fa proprio intravvedere le difficoltà che il musicista incontrò nel portare a termine la composizione. Egli si lamentava che il concerto «non va avanti» («ne marche pas du tout») e poi, nonostante vari incoraggiamenti, più volte esclamò che la questione gli faceva “perdere la testa”, aggiungendo: «Bisogna aspettare con pazienza … smettere di disperarsi e lavorare. Il lavoro, ma è il lavoro manuale di cui avrei bisogno. Spinoza faceva occhiali, Tolstoj s’immaginava calzolaio. La musica non mi dà pace; semmai il contrario».
Nell’autunno del 1891 il compositore compie il suo secondo lungo viaggio in Italia: Roma, la musica di Palestrina, la Cappella Sistina, Michelangelo, il Foro Romano. L’anno seguente porta a termine il Concerto, la cui prima esecuzione riscuote un grande successo di pubblico e di critica. A partire dallo stesso anno inizia a redigere il suo secondo diario (journal intime) nel quale annoterà riflessioni interessanti come la seguente: «sempre lottare, ed essere vinti, così spesso. Come sono lontano dall’essere colui che vorrei essere. È creare se stessi, è là tutto lo sforzo della vita». Circa poi la prima esecuzione del Concerto affidata al grande Ysaye, egli dirà: «Tutto funziona a meraviglia. Tutti [gli interpreti] sono amabili e amichevoli, e pieni di talento. Ysaÿe mi sconvolge per la sua comprensione. E trova il concerto molto bello. Ne sono lieto. …Tutti sono entusiasti. Mi sembra prodigiosamente di amare tutti. …Tutti hanno l’aria di trovare il Concerto molto bello. Esecuzione molto buona, in certi momenti ammirevole, e sempre molto artistica. Mi sento leggero e gioioso, come non mi sentivo da tempo. Questo mi fa bene, e mi dà coraggio».
Decidè
Movimento di ampie dimensioni con continui cambi di atmosfera intensificazioni, pause, squarci lirici; il che deve molto, senz’altro, al magistero di Franck ma anche, per loro inequivocabile immediatezza, a Jules Massenet, il primo maestro di Chausson. Il primo tema, subito introdotto dal pianoforte, è composto da sole tre note e ha un carattere fortemente drammatico, appare come un emblema dell’opera ed è, di fatto, il principio germinale dei temi del Concerto. Da questa cellula iniziale scaturisce una straordinaria abbondanza di vicende musicali i cui protagonisti principali sono il violino e il pianoforte.
Sicilienne
Il secondo movimento doveva in origine essere sottotitolato “Île heureuse” (Isola felice), il che giova a farsi un’idea del brano. È essenzialmente un momento di pacificazione: non statico, tuttavia in quanto i due elementi melodici principali scandiscono il ritmo di siciliana, con un effetto decisamente cullante.
Grave
Cuore espressivo dell’opera e movimento molto ben riuscito, per intensità tragica e quasi inesorabile, e per sapienza costruttiva. All’ostinato iniziale del pianoforte si sovrappone una sorta di lamento del violino.
Finale – Très animé
I contrasti fin qui evidenziati e l’accumulo di tensione precipitano positivamente nel quarto movimento, dove sembra riacquistarsi quella fiducia messa in discussione dal Grave precedente. Tematicamente si assiste ad una sorta di ricapitolazione che culmina in un grandioso finale, totalmente privo comunque di retorica, ma al contrario sempre intimamente partecipato e pregnante.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

LO SGUARDO E IL SUONO – 10 GENNAIO 2023

Lo Sguardo e il Suono
20 DICEMBRE 2022 – 10 GENNAIO 2023
Gallerie d’Italia-Napoli
Sala Grande
I concerti sono ad ingresso gratuito fino ad esaurimento posti


10 gennaio 2023 Gallerie d’Italia-Napoli ‒ ore 17.00
Artemisia Gentileschi/Corisca e il satiro
Introduzione di Giuseppe Porzio

Otello Calbi (1917-1995)
Voice di Pan

Toru Takemitsu (1930-1996)
Voice

Claude Debussy (1862-1918)
Syrinx

Eugène Bozza (1905-1991)
Phorbèia

Marin Marais (1656-1728)/Pierre Boulez (1925-2016)
Les Folies d’Espagne

Astor Piazzolla (1921-1992)
Tango étude n. 1

CRISTIAN LOMBARDI, flauto

LO SGUARDO E IL SUONO – 3 gennaio 2023

Lo Sguardo e il Suono
20 DICEMBRE 2022 – 10 GENNAIO 2023
Gallerie d’Italia-Napoli
Sala Grande
I concerti sono ad ingresso gratuito fino ad esaurimento posti


3 gennaio 2023 Gallerie d’Italia- Napoli ‒ ore 17.00
Artemisia Gentileschi/Autoritratto come Santa Caterina d’Alessandria
Introduzione di Renato Ruotolo

Andrea Falconieri (1585 o 1586-1656)
L’Austria, Canciona echa para el Serenissimo Señor Don Iuan de Austria
L’Eroica

Arcangelo Corelli (1653-1713)
Sonata a tre op. 4 n. 2

Andrea Falconieri
Sinfonia Quarta
Passacalle

Arcangelo Corelli
Sonata a tre op. 2 n. 5

Andrea Falconieri
Folias echa para mi Senora Donna Tarolilla de Carallenos

Arcangelo Corelli
Sonata a tre op. 4 n. 10

Andrea Falconieri
Battalla de Barabaso yerno de Satanas

GIUSEPPE GRIECO, MARILENA DI MARTINO, violini
ANGELO TRANCONE, clavicembalo

LO SGUARDO E IL SUONO – 27 dicembre 2022

Lo Sguardo e il Suono
20 DICEMBRE 2022 – 10 GENNAIO 2023
Gallerie d’Italia-Napoli
Sala Grande
I concerti sono ad ingresso gratuito fino ad esaurimento posti


27 dicembre 2022 Gallerie d’Italia-Napoli ‒ ore 17.00
Artemisia Gentileschi/ Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne
Introduzione di Francesca Amirante

“Al mondo presento il mio morir”

Alessandro Stradella (1643-1682)
Care limpide sorgenti dall’oratorio La Susanna

Barbara Strozzi (1619-1677)
Lagrime mie cantata

Girolamo Frescobaldi (1583-1643)
Toccata II per cembalo dal Secondo libro di toccate

Giulio Cesare Netti (1649-1686)
Semiviva e dolente  da Olimpia abbandonata, cantata

Domenico Scarlatti (1685-1757)
Sonata K. 208 in la maggiore per cembalo

Alessandro Scarlatti (1660-1725)
Trombe guerriere, aria dall’oratorio La Giuditta

Benedetto Marcello (1686-1739)
Io parto, aria dall’oratorio La Giuditta

Domenico Scarlatti
Sonata K 96 in re maggiore

Georg Friedrich Händel (1685-1759)
Al mondo presento il mio morir dalla cantata La Lucrezia 

VALERIA LA GROTTA, soprano
LUIGI TRIVISANO, clavicembalo

LO SGUARDO E IL SUONO – 20 dicembre 2022

 

 

Lo Sguardo e il Suono
20 DICEMBRE 2022 – 10 GENNAIO 2023
Gallerie d’Italia-Napoli
Sala Grande

I concerti sono ad ingresso gratuito fino ad esaurimento posti


20 dicembre 2022 Gallerie d’Italia-Napoli ‒ ore 18.30
Artemisia Gentileschi/Sansone e Dalila
Introduzione di Massimo Lo Iacono

Camille Saint-Saëns (1835-1921)
da Samson et Dalila
Printemps qui commence
Amour viens aider mais faiblesse
Mon coeur s’ouvre a ta voix

Gabriel Fauré (1845-1924)
Notturno op. 33 n. 1 in mi bemolle minore per pianoforte

Camille Saint-Saëns
Aimons nous

Gabriel Fauré
Après un rêve

Claude Debussy (1862-1918)
Romance

ELIDE FACCIUTO, mezzosoprano
FRANCESCO PARETI, pianoforte

ALTRI NATALI Il Canto di Maria

IL CANTO DI MARIA
13 – 29 dicembre 2022
manifestazione promossa e finanziata dal Comune di Napoli nell’ambito del progetto “ALTRI NATALI”

13 dicembre 2022 –Basilica di Santa Maria della Pietrasanta – ore 20:30
ENSEMBLE VOCALE DI NAPOLI
ANTONIO SPAGNOLO, direttore
NataleEnsemble
Musiche di Karl Jenkins, John Tavener, Arvo Pärt, Morten Lauridsen, Franz X. Gruber, Irwing Berlin, Francis Poulenc
16 dicembre 2022 –Basilica del Carmine Maggiore – ore 20:30
CORO MYSTERIUM VOCIS
ROSARIO TOTARO – direttore del coro
ARTEMUS ENSEMBLE
VINCENZO PORZIO – organo
ALFONSO TODISCO – direttore d’orchestra
Verba Pastorum
Musiche di Francesco Provenzale e Pietrantonio Gallo
29 dicembre 2022 – Basilica del Gesù Vecchio – ore 20:30
ENSEMBLE LA MANTICORA
CARLA BABELEGOTO, voce
ENEA SORINI, voce, salterio, percussioni
ALESSANDRO DE CAROLIS, flauti, cornamusa
GIORDANO CECCOTTI, viella, rebec
PEPPE FRANA, oud, citola
Miragres! Santi e menestrelli alla Corte di Alfonso X El Sabio
L’iniziativa è realizzata con il contributo del Comune di Napoli nell’ambito del progetto “Altri Natali”
Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria
Prenotazioni: prenotazioniscarlatti@gmail.com
Info tel. 081 406011 whatsapp 342 6351571

Concerto 15 dicembre

Giovedì 15 dicembre 2022 – Teatro Acacia – ore 20.30
DANILO REA, pianoforte
MASSIMO MORICONI, contrabbasso
ELLADE BANDINI, batteria

TAKE ZERO
La canzone d’autore italiana degli ultimi 30 anni in chiave jazz

Note di sala
di Stefano Valanzuolo*

C’è, evidentemente, un motivo ispiratore alla base di questo concerto. Anzi, c’è quasi un illustre convitato di pietra che siede alla piccola festa del jazz imbandita da Danilo Rea, Massimo Moriconi ed Ellade Bandini. Parliamo di Mina, ça va sans dire, insieme alla quale i tre musicisti in questione hanno inciso un numero ragguardevole di brani e, più in generale, hanno collaborato e collaborano, anche oggi che Mina è diventata una voce non più associata – tranne rare epifanie mediatiche – a un’immagine. “Una” voce, abbiamo scritto: errore blu, come le mille bolle. Lei, mitica “tigre di Cremona” (secondo un lessico zoologico all’italiana comprendente pure aquile, pantere ed usignoli cantanti), non è stata “una” voce, infatti, ma “la” voce per quanto concerne la canzone italiana. E tale resta, estendendo il proprio dominio su un’era geologica che va da Caruso a Damiano dei Maneskin o, se preferite l’ordine alfabetico, da Adamo a Zucchero; da “Abbronzatissima” a “Zum, zum, zum”: pezzi di infanzia, almeno per chi scrive.
«Il progetto “Take Zero” – spiega Danilo Rea – nasce come omaggio a Mina, voluto da suo figlio Massimiliano Pani. In seguito, è diventato anche un disco. È chiaro che per tutti noi, che con lei abbiamo avuto il privilegio di lavorare a lungo, si sia posto l’imbarazzo della scelta tra centinaia di pezzi possibili: mossi da curiosità, forse, ci siamo orientati soprattutto su quei brani che, per motivi anagrafici, non siamo riusciti a suonare in studio o sul palco con lei. Per dirla alla napoletana: ci siamo levati uno sfizio».
Di sfizi, nella sua infinita carriera, Mina se n’è levati moltissimi. A partire dai primi anni Settanta, segnati dai trionfi di vendita e televisivi (ricordate “Teatro 10”? La sua sigla finale, “Parole, parole”, sarebbe diventata oggetto di culto, grazie anche ad Alberto Lupo), «Mina inizia a cantare – scrive Roberto Ruggeri nel “Dizionario della canzone italiana” – qualsiasi canzone a qualsiasi genere appartenga, quasi un gioco che la porta a cantare tutto il cantabile, quasi una sfida con se stessa». Il fatto è che sono i brani, i compositori, i parolieri e i traduttori a cucire, all’occorrenza, le proprie creazioni sulle misure vocali e interpretative di Mina, rinunciando se necessario persino a un pizzico di vanità personale pur di affidare alla più carismatica delle voci pop in circolazione il frutto dei propri sforzi. Per esempio: “La banda” (1967) è un omaggio di Amurri e Mina a Chico Buarque de Hollanda, che per primo l’aveva incisa in portoghese nel 1965, o va considerata una canzone di Mina? Diremmo la prima, ma è vero anche che il cantautore brasiliano, ben presto, l’avrebbe incisa in italiano, alla maniera della Tigre.
«Quando parliamo oggi – interviene Rea – di queste canzoni, di tutte quelle che affrontiamo in concerto, stiamo riferendoci a degli standard veri e propri. Come tali abbiamo scelto di trattarle, seguendo l’approccio collaudato del trio di jazz, in chiave strumentale e con la consapevolezza che il valore aggiunto dei lavori stia nella cifra autenticamente italiana che li caratterizza; una cifra che Mina esalta, da par suo. Rendere omaggio a una grande cantante senza impiegare la voce può sembrare strano solo a chi non riesca a calarsi nella dimensione dello standard jazz. Ma è fatto naturale».
La caratura italiana, appunto, viene garantita dalla statura di autori come Lucio Battisti (amatissimo da Mina, che gli dedicherà almeno due album monografici), e poi ancora Ennio Morricone, per citare i più famosi e reciprocamente distanti. Ma Danilo Rea, nella circostanza, ci tiene a sottolineare il peso artistico anche di figure come quelle di Bruno Canfora o Gianni Ferrio, che saltano fuori da un ricordo in bianco e nero – bacchetta agile, smoking e papillon – circondati dall’aria ruffiana e leggera del sabato sera (cfr. “Maledetta primavera”) in tv.
«Personaggi fondamentali – chiarisce il pianista – per la crescita della canzone italiana, che seppero assorbire le suggestioni provenienti dall’America (Ferrio è stato il nostro Nelson Riddle!), riarrangiarle in chiave personale e italiana, dargli forma grazie a orchestre meravigliose, quelle della Rai di allora, che ancora stiamo rimpiangendo».
A proposito di rimpianti, a noi viene da pensare che, pur nell’impossibilità di stabilire alcun paragone con Mina, in fondo la canzone italiana sarebbe viva e vegeta e dunque, volendo, ancora utilizzabile come serbatoio di idee jazzistiche… O no?
«Credo di essere – spiega Rea – una persona curiosa e, dunque, per lo più attenta alle novità. La canzone mi appartiene per vocazione e ho avuto il piacere di suonare con i più importanti cantautori italiani. Su questa base, devo ammettere che l’offerta di oggi non mi sembra granché stimolante. Guardando ai testi e alle melodie utilizzate faccio fatica a trovare spunti paragonabili a quelli degli anni di Mina & Friends… Soprattutto, avverto una certa diffusa trascuratezza nell’uso dell’armonia. Dopo di che, è chiaro, di fenomeni degni di attenzione ce ne sono ancora. Penso al rap, per esempio: considero Eminem un musicista fenomenale, ancora oggi dopo un quarto di secolo dai primi exploit; peccato che i rapper italiani, nel prendere a modello lui e altri cantanti americani, ne abbiano poi ricavato una versione meno trasgressiva e più basic, direi. Mina col rap non c’entra nulla, lo so, ma so che potrebbe cantare anche quello e riuscirebbe a farlo bene, perché è un’interprete vera ed è jazzista nell’anima. Oltre tutto, ha una conoscenza musicale vastissima: riceve migliaia provini, clip e proposte da ogni angolo del mondo, e ascolta tutto, con l’attenzione e la generosità propria dei grandi».
Il percorso musicale mazziniano (nel senso sempre di Mina) tracciato da Rea, Moriconi e Bandini copre un arco di tempo assai ampio: si va da “Tintarella di luna” a “Acqua e sale”. Passano quarant’anni quasi. Correva il 1959, infatti, quando la giovanissima Mina stupiva il pubblico televisivo di “Lascia o raddoppia” (programma che già aveva sdoganato le bizzarrie musicali di John Cage) con “Nessuno”. A seguire, sarebbero uscite “Una zebra a pois” e, appunto, “Tintarella di luna”, tutte segnate da una carica di virtuosismo vocale e ritmico fuori dall’ordinario. Il fil rouge che unisce questi titoli a quelli di fine secondo millennio (“Acqua e sale” e “Brivido felino”, appunto) è dato dalla figura di Adriano Celentano, nel cui solco Mina si era posta, al’epoca del debutto o quasi, urlatrice tra gli urlatori, e al cui fianco avrebbe formato una coppia, negli anni Novanta, ricca, fortunata, piena di carisma e sintomatico mistero (cfr. “Bandiera bianca”).
Sarebbe divertente, dopo tutto, andare a scovare, in questa carrellata di evergreen percorsa da “Take Zero” quanti siano, in realtà, i titoli nati già col crisma del trionfo e quanti, invece, il successo se lo siano visti piovere addosso inaspettatamente. “E se domani” (1962), per esempio, fu pubblicata come lato B (nel senso giusto del termine) di un’altra canzone, “Un anno d’amore”: due piccoli capolavori, per i quali ogni rapporto di subalternità vicendevole suonerebbe stonato. Non ne parliamo di “Quando, quando, quando”, che con Mina non c’entra ma è frutto dell’inventiva di Tony Renis, prima che il nostro si trasferisse armi e bagagli negli States. Le giurie, al Festival di Sanremo del 1962, relegarono la canzone al quarto posto, ma il mercato ne avrebbe fatto un successo planetario: quando i Blues Brothers vanno ad assoldare Murph (and Magic Tones), lo trovano a cantare, malissimo per altro, proprio la hit di Tony Renis.
Per Mina, a parte i valorosi musicisti già citati, hanno scritto anche parolieri illustri. Ma delle parole, se non si fosse capito già, questo concerto non sa proprio che farsene….
«È un viziaccio di noi musicisti. Ci concentriamo su ritmi, armonie, melodie, e i testi, puntualmente, non riusciamo a tenerli a mente. A nome del trio, allora, chiedo scusa a schiere di poeti ingenerosamente trascurati da troppi jazzisti senza cuore!».
Scriveva nel 1999 Felice Liperi, storico della canzone italiana: «In tutta la sua carriera Mina ha mantenuto inalterata la dimensione di straordinaria interprete, continuando ad ammaliare il pubblico con ogni tipo di performance vocale. Il formidabile talento le ha permesso di trasformare scelte talvolta discutibili in classici; una qualità che, nel mondo, hanno potuto vantare solo artiste del calibro di Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Edith Piaf, Aretha Franklin». Vero: e a questo punto decida Mina se arrossire o fare scongiuri…
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

ALTRI NATALI – Il Canto di Maria 29 dicembre 2022

ALTRI NATALI
IL CANTO DI MARIA
13 – 29 dicembre 2022

L’iniziativa è realizzata con il contributo del Comune di Napoli nell’ambito del progetto “Altri Natali”
Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria
Prenotazioni: prenotazioniscarlatti@gmail.com


29 dicembre 2022 – Basilica del Gesù Vecchio – ore 20.30

Miragres! Santi e menestrelli alla Corte di Alfonso X El Sabio

Alfonso X “el Sabio” (XIII secolo)
dalle Cantigas De Santa Maria
Prologo: Porque trobar
CSM 8 A Virgen Santa Maria
CSM 383 O ffondo do mar
CSM 302 A Madre De Jesu Christo
CSM 95 Quen aos servos da Virgen
CSM 26 Non è gran cousa
CSM7 Santa Maria Amar
CSM 176 Ben sab’a
CSM 165 Niun Poder d’este mundo
CSM 112 – Nas Coitas Devemos Chamar
CSM 422 Madre De Deus

 

ENSEMBLE LA MANTICORA
CARLA BABELEGOTO, voce
ENEA SORINI, voce, salterio, percussioni
ALESSANDRO DE CAROLIS, flauti, cornamusa
GIORDANO CECCOTTI, viella, rebec
PEPPE FRANA, oud, citola

ENEA SORINI
Cantante, percussionista e suonatore di salterio.
Nato ad Urbino (Italy), il 13 Gennaio 1975, si avvicina al mondo della musica all’età di otto anni, quando viene selezionato per entrare nel coro dei Pueri Cantores di Pesaro: tale esperienza (durata circa 15 anni), gli consente di venire a contatto con la musica antica.
Dopo aver intrapreso e terminato gli studi artistici presso la sua città (diploma in Cinema d’animazione alla Scuola d’Arte e laurea di I° livello in Scultura all’Accademia di Belle Arti) si trasferisce a Pesaro dove consegue dapprima la laurea di I° livello in Canto (indirizzo cameristico/oratoriale) e successivamente la laurea di II° livello in Canto Barocco presso il Conservatorio G.Rossini, seguendo nel frattempo masterclass di canto con Gloria Banditelli e Claudio Cavina.
Specializzato in musica medievale/rinascimentale, si è esibito nei festival più importanti d’Europa e d’oltre Oceano (“Festival de Ambronay”, “Festival Oudemukiek” di Utrecht, “Festival Centro Historico” di Città del Messico, “MA Festival” di Brugge, “BRQ Festival” di Vantaa, “Festival de Musique” di Maguelone, “Early Music Festival” di Boston, “Festival Baroque” di Pontoise, “Festival de Saint-Denis”) calcando grandi palcoscenici e prestigiose sale da concerto (“Sala Filarmonica” di Cracovia, “Konzerthaus” di Vienna, “National Gallery” di Londra, “National Arts Center” di Ottawa, “Kampnagel” di Amburgo, “Cité de la musique” di Parigi).
Collabora principalmente con l’ensemble Micrologus (Assisi), Les Musiciens de Saint-Julien (Parigi), La Morra (Basilea), Pera Ensemble (Monaco/Istanbul); ha lavorato con il coreografo/ballerino belga Sidi Larbi Cherkaoui i cui spettacoli sono prodotti e distribuiti in tutto il mondo da “Eastman” (Anversa).
E’ fondatore dell’ensemble Bella Gerit di Urbino (gruppo di ricerca e interpretazione del repertorio rinascimentale); oltre ad esserne cantante/strumentista, ne cura la parte discografica.
Collabora con l’ensemble la Barocca di Milano (dir. Ruben Jais/Gianluca Capuano).
A livello discografico ha inciso per Alpha, Sony, Hyperion, Tactus (di cui 2 “Diapason d’or”); è stato trasmesso e ha lavorato per le emittenti di Radio3, Radio France, RSI Svizzera, Polskie Radio, WDR3.

CARLA BABELEGOTO
Nata a Terlizzi (Bari) cresciuta a Lodi, inizia la sua esperienza canora a 12 anni nel coro della cappella musicale della cattedrale di Lodi. Accanto agli studi di ingegneria al Politecnico di Milano, affianca quelli di canto con Vincenzo Manno, trombone con Giovanni di Stefano e pianoforte con Ariella Soffritti alla Scuola Civica di Milano. Ha seguito masterclass di canto barocco, monodia monteverdiana e canto lirico con SaraMingardo, Rinaldo Alessandrini e Luciana Dintino e ha studiato canto con Marina de Liso, Thomas Michael Allen e John Norris (Alexander Technique).
Ha collaborato con Laverdi Barocca di Milano, con la coreografa Anne Teresa de Keersmaeker, con l’ensemble Ghislieri consort di Pavia diretto da Giulio Prandi; con Christoph Spering per il Kulturwald festival di Thomas E. Bauer.
Collabora con numerosi ensemble come Collegium Vocale Gent (Philippe Herreweghe), Renè Jacobs, Andreas Spering, Capella de La Torre (Katharina Bäuml), specializzato in repertorio rinascimentale, il collettivo di musicisti graindelavoix (Björn Schmelzer, repertorio medievale), Concerto Romano (Alessandro Quarta), l’ensemble di musica rinascimentale Lala Hoehoe, Nederlands Bach Vereniging, Musik Podium Stuttgart (F. Bernius), Club Medieval (Thomas Baeté), Ensemble Lucidarium, con i quali ha partecipato a molti festival internazionali. Ha ricoperto ruoli in molte produzioni di opere liriche, ha registrato con l’ensemble Alraune per l’etichetta Novantiqua, ha partecipato in qualità di cantante attrice a prime di autori contemporanei europei.
Nel 2020 ha fondato un duo col liutista e polistrumentista Peppe Frana di musica medievale, con cui si esibisce anche nella formazione più estesa, La Manticora. Insegna “Music theory for the Cambridge examination” al Liceo Musicale Francesco Petrarca di Arezzo.

 

PEPPE FRANA
Appassionatosi in giovane età al rock d’oltreoceano e oltremanica, diventa presto l’incubo dei migliori insegnanti di chitarra elettrica del circondario.
Ventenne viene folgorato dall’interesse per le musiche modali extraeuropee attraverso la musica di Ross Daly e intraprende lo studio dell’oud turco e di altri cordofoni a plettro durante frequenti viaggi in Grecia e in Turchia, dove frequenta alcuni tra i più rinomati maestri: Yurdal Tokcan, Omer Erdogdular, Murat Aydemir, Daud Khan Sadozai, Ross Daly stesso.
Dall‘incontro con i membri dell’Ensemble Micrologus scaturisce l’interesse per la musica del medioevo europeo e per il liuto a plettro, di cui diventa presto uno dei più apprezzati solisti e insegnan- ti, specializzandosi nel repertorio trecentesco Italiano.
Dal 2013 al 2015 studia liuto medievale presso la Schola Cantorum Basilensis sotto la guida di Crawford Young, inaugurando la sua prima esperienza di studio musicale accademico.
È laureato con lode in filosofia presso l’Istituto Universitario “L’Orientale” di Napoli.
Collabora stabilmente con molteplici artisti e progetti musicali nell’ambito della musica antica, orientale ed extracolta e svolge una florida attività concertistica in tutto il mondo.
È il direttore artistico di Labyrinth Italia.

ALESSANDRO DE CAROLIS
Flautista e polistrumentista, dopo un fiero esordio come autodidatta studia flauto dolce con Maria de Martini e Tommaso Rossi, perfezionandosi con Dan Laurin e successivamente con Pedro Memelsdorff presso l’Esmuc di Barcellona. Svolge un’intensa attività concertistica, collaborando tra gli altri con l’ensemble Barocco di Napoli, l’ensemble Dissonanzen, l’Orchestra di Padova e del Veneto, Antonio Florio, l’orchestra barocca Modo Antiquo di Federico Sardelli, l’orchestra barocca della Vadstena Akademien diretta da Dan Laurin, il quartetto vocale Ring Around, l’ensemble di musica medievale La Manticora, l’ensemble Bryggan, l’ensemble Concentus Concordiae. Da sempre appassionato alle musiche tradizionali, si è avvicinato al whistle ed al flauto tradizionale irlandese e si è dedicato alla musica modale partecipando ai seminari tenuti da Peppe Frana e Harris Lambrakis.
Musicista poliedrico ed attivo in diversi ambiti musicali, ha collaborato in concerti, colonne sonore, spettacoli teatrali e registrazioni discografiche con numerosi artisti, come Daniele Sepe, Stefano Bollani, Luca Aquino, Vinicio Capossela, Angelo Branduardi, Peppe Barra, Gianni Lamagna.
Ha suonato in importanti festival italiani ed internazionali, come la stagione concertistica IUC a Roma e la rassegna della GOG a Camogli, l’Alexsander Arutyunian Wind Festival di Yerevan in Armenia, il 4° Festival de Musica di Naolinco, in Messico, il festival dell’Abbaye de l’Epau di Le Mans in Francia, il Barocco Festival Leonardo Leo, il Festival Barocco Alessandro Stradella di Viterbo e Nepi, il festival Musica Cortese di Pordenone, la rassegna concertistica I Suoni della Devozione di Brindisi, il Ravello festival, il Futura festival di Civitanova Marche, il Festival della Letterura di Salerno, la stagione concertistica dell’associazione Alessandro Scarlatti di Napoli e le rassegne organizzate dall’associazione Dissonanzen di Napoli.
Insegna flauto dolce e flauto traverso in progetti didattici in area napoletana ed ha tenuto workshop e seminari di flauto dolce, prassi ed interpretazione della musica antica, introduzione alla musica irlandese a Città del Messico, Naolinco, Città di Castello, Tolve, all’Università degli studi di Napoli Federico II ed al conservatorio Nicola Sala di Benevento.

GIORDANO CECCOTTI
Si diploma come “maestro d’arte” presso l’Istituto Statale “B. Di Betto” di Perugia. Entra a far parte di un ensemble di musica medievale in qualità di viellista che lo porterà quindi in contatto con alcuni elementi dell’ensemble Micrologus dando così inizio ad una lunga serie di collaborazioni.
Dopo aver stazionato in diversi gruppi musicali locali, nel 1998 fonda l’ensemble Laus Veris con cui si esibisce in molti tra i più importanti festival e feste storiche italiani e internazionali.
Partecipa al “XXVII Rencontres internationales de luthiers et maîtres sonneurs” di Saint Chartier, in Francia, dove aderisce allo stage di ghironda con J-F. “Maxou” Heintzen, e più tardi si iscrive allo stage sul violino francese e occitano con Gabriele Ferrero.
Liutaio dal 1999 al momento sta affrontando un’intensa ricerca iconografica sugli strumenti musicali del centro Italia tre-quattrocentesco e su altri strumenti antichi ancora esistenti, prestando particolare attenzione alle tecniche e ai materiali di costruzione, allo scopo di riprodurre tali strumenti in scala reale. Questa sua intensa ricerca, in particolare, lo porta alla scoperta di un’immagine raffigurante una nyckelharpa del primo ‘400 senese. Fotografata e spedita al musicologo svedese Per-Ulf Allmo, confrontata con altre immagini, essa è risultata come una tra le più antiche in Italia e Svezia. Ciò permetterà a Giordano Ceccotti e ad alcuni suoi colleghi di ottenere consensi positivi da parte dell’Istituzione Svedese per la creazione, a Forlimpopoli, della prima Scuola Internazionale di Nyckelharpa, sotto la guida dell’insegnante Marco Ambrosini degli Oni Wytars.
Ripropone vielle, ribeche, lire da braccio, ghironde, liuti, salteri, chitarrini e ogni forma di strumento a corda ripreso da iconografia e collabora nei suoi studi con musicisti di fama internazionale.
Alcuni suoi strumenti compaiono inoltre negli ultimi lavori dell’ensemble Micrologus, e in altri album di ensemble italiani e non (francesi, svizzeri, tedeschi, americani, austriaci, canadesi) e nel campo moderno, in “Ho un sogno” di Anna Oxa e “Kronomachia” di Daniele Sepe.
Negli ultimi anni si è dedicato alla costruzione di strumenti elettrici anche solid body riproponendo versioni moderne di strumenti antichi o tradizionali come ghironde, viole da gamba, mandoloncelli, oud, mandole, ecc..
Ha frequentato numerosi corsi ad esempio di violino irlandese presso il maestro Marco Fabbri di Roma e della ghironda con Stéphane Durand, Valentin Clastrier, tra i musicisti più illustri nel campo della musica tradizionale francese e moderna.
Consegue il diploma di Maestro liutaio e archettaio presso la Scuola di Maestri liutai di Gubbio.
Frequenta lezioni di lira da braccio con Igor Pomykalo.